L’inchiostro è ancora fresco sulle pagine di “Solo tredici chilometri”, legal thriller edito da Alpha Beta di Merano e scritto a quattro mani da Mauro De Pascalis e Giovanni Accardo, ma è già boom di vendite. Il romanzo ricostruisce una controversa vicenda giudiziaria – l’omicio di una ragazza di 19 anni – ambientata in un Alto Adige che dietro ameni paesaggi nasconde atmosfere cupe e inquietanti, un misterioso omicidio realmente accaduto e che aveva visto il neoscrittore De Pascalis affrontare indagini e processi.
// Di Luca Masiello
Avvocato De Pascalis, perché questo libro?
Questo libro andava fatto innanzitutto per rendere omaggio a due persone che il caso ha avvicinato in una vicenda tragica che ha rischiato di travolgere non una, ma ben due vite: una ragazza di 19 anni e un giovane accusato del suo omicidio. è una storia che appartiene a chi l’aveva vissuta, ma siccome in molti mi avevano chiesto di raccontarla nel corso di questi anni ho deciso che andava scritta.
Come è nata la sinergia con Giovanni Accardo?
Ci eravamo trovati in un bar lungo il Talvera; con noi c’era anche Walter Zambaldi, il direttore del Teatro Stabile, che da tempo mi spronava a scrivere, tanto che gli ho riservato un personaggio nel libro, l’insegnante di teatro del carcere. Giovanni Accardo si è dimostrato subito molto entusiasta di ciò che avevo scritto, e mi aveva proposto di correggere il mio testo. Poi si è talmente affezionato al personaggio e alla storia che abbiamo deciso insieme che era corretto che lui diventasse un coautore: il mio scritto descriveva i fatti in ordine cronologico, mancava di una vis letteraria, e lui ha messo a disposizione tutto il suo talento.
Passiamo alla cronaca: questa vicenda giudiziaria l’ha personalmente segnata. Come è cambiata la sua vita dopo il processo?
È vero, tuto questo mi ha sicuramente segnato sia dal punto di vita professionale che umano. Perché mi sono reso conto dell’importanza del ruolo della difesa e del giusto processo. In questa triste vicenda tutti hanno agito all’interno delle regole ed è stato affascinante scoprire come il meccanismo processuale, se utilizzato bene, è virtuoso e garantisce l’accostamento della verità reale alla verità processuale. Ho scoperto che non ci si deve mai innamorare di una propria tesi, né a livello accusatorio né a livello difensivo, soprattutto quando si parla di femminicidi o comunque di eventi così tragici come la morte di una persona.
Tutto ciò quanto ha cambiato la sua vita professionale?
Non ha rappresentato una svolta epocale: io forse non ho avuto né la voglia né la costanza di capitalizzarla, e comunque non l’avevo ritenuto opportuno. Ho semplicemente lasciato che la mia professione seguisse i sui binari. In cuor mio ho sempre pensato fosse necessario raccontare questa storia, proprio perché attribuisce ai ruoli della difesa e dell’accusa una giusta collocazione, e può avere anche una valenza formativa e didattica proprio in un periodo storico in cui i processi a volte vengono fatti con i plastici o con le urla in televisione. Questo libro forse scansiona bene il tempo necessario per analizzare una visione così complessa come quella che realmente avvenuta, e dimostra che non è sempre vero che il trascorrere del tempo sia una negazione della giustizia. Bisogna infatti sempre contemperare le esigenze del processo a quelle del raccoglimento dei dati che servono poi, all’interno del dibattimento, per stabilire se uno è colpevole o innocente.
Avete creato un personaggio al quale il lettore riesce ad affezionarsi. C’è la possibilità che De Vitis torni in un altro libro?
È ancora troppo presto per pensare al futuro, ma non lo posso negare: l’idea mi stuzzica parecchio. Anche perché i primi commenti sono decisamente positivi: addirittura Massimo Carlotto, un maestro del noir italiano, ha mostrato il suo apprezzamento in merito, un fatto che mi ha onorato.
Quanto Mauro De Pascalis c’è nell’avvocato Marco De Vitis?
Forse la domanda giusta è: quanto De Vitis c’è in De Pascalis (ride, ndr)! Diciamo che a volte le due figure si sovrappongono…
La trama
Martin Scherer ha ventisei anni, vive a San Candido, in provincia di Bolzano, e fa diversi lavori: il cameriere a Jesolo in estate, il muratore, il dipendente in un noleggio sci. Johanna Pichler di anni ne ha invece diciannove, abita a Sillian, in Austria, a “solo tredici chilometri” dal confine italiano: è disoccupata e conduce una vita molto sregolata. Una sera i due s’incontrano in un bar e trascorrono parte della notte insieme, ma pochi giorni dopo Johanna viene trovata morta in Veneto, con segni di strangolamento, i pantaloni abbassati e del nastro adesivo a chiudere bocca e narici. Cos’è successo? Chi l’ha uccisa e poi trasportata a San Stino di Livenza per gettarla in un fosso? Johanna ha addosso una felpa di Martin, che viene subito interrogato e arrestato, ma che si dichiara innocente. A cercare la verità, tra mille dubbi e domande, sarà l’avvocato De Vitis, alla sua prima esperienza in un procedimento penale, che diventerà un vero e proprio apprendistato giuridico e umano. “Solo tredici chilometri” è scritto a quattro mani da un narratore siciliano, naturalizzato bolzanino (Accardo vive nel capoluogo altoatesino da oltre 25 anni), e da un avvocato dell’Alto Adige attivo come penalista nel Foro di Bolzano da diversi anni. Un lavoro che trova la sua principale originalità nell’incontro tra letteratura e cronaca giudiziaria; la narrazione entra nei meandri di un processo per omicidio, negli atti giudiziari, nelle dinamiche dentro e fuori dall’aula di un tribunale, nelle indagini di una procura, nelle strategie difensive, nelle responsabilità dei giudici. Un racconto quasi in presa diretta e ricco di colpi di scena, che mette in scena tutto il fascino e la complessità dell’arte forense, riservando una sorpresa finale.
La recensione
Ricordo benissimo quel novembre di ormai oltre vent’anni fa. Ricordo anche tutte le fasi processuali, le foto dei rilievi e il video dell’autopsia di quella povera ragazza strappata alla vita. Non avevo ancora compiuto trent’anni, e ricordo anche quell’avvocato che ne aveva solo un paio in più di me; scrivevo di cronaca giudiziaria, e quello era il mio primo grande caso. È con questo approccio mentale che mi sono avvicinato a “Solo tredici chilometri”: sapendo che non mi sarei potuto abbandonare in quella piacevole foresta del patto letterario. Ma Giovanni Accardo e Mauro De Pascalis sono riusciti a creare un’opera che riesce a restare fedele alla realtà dei fatti, avvolgendola però in un’aura di fantasia capace di intrappolare il lettore con colpi di scena, emozioni inaspettate e tanto italiano scritto bene.
Innanzitutto i personaggi: ognuno di essi riesce ad essere identificato immediatamente, e ad ognuno di loro – nel bene o nel male – ci si riesce ad affezionare. Il protagonista, l’avvocato De Vitis, è un professionista che sbaglia, inciampa, si risolleva, affonda colpi che vengono parati ma non si dà per vinto. È con la caparbietà che combatte la sua inesperienza e la sua vulnerabilità; in lui si sente ancora l’odore delle aule universitarie, le risate di quella gioventù pre-laurea che spesso si scontrano con la pesante toga nera che indossa in Corte d’Assise, e che cozza a sua volta con una dedizione al caso che puzza di dipendenza. Martin, l’indagato: imperscrutabile, silenzioso, resta in carcere per dimostrare quell’innocenza della quale sembra l’unico ad essere convinto; un carattere che non si differenzia moltissimo da parenti, amici e antagonisti che vivono nel suo stesso paese, quella San Candido ancora periferia estrema, non contaminata da quel luccichìo che da lì a pochi anni una serie televisiva le avrebbe imposto. Un paesino alpino come tanti altri, ma che da un giorno all’altro vede il suo cielo oscurarsi di tinte scure, “noir”, a dimostrazione che (mi si passi la citazione deandreiana), i fiori del male sbocciano anche dove il panorama è più bello.
La storia si snoda in maniera semplice, nonostante il caso non lo sia per niente. Ma i due autori riescono a spiegare in maniera elementare anche i cavilli giudiziari più intricati, accompagnando per mano il lettore nel mondo della giurisprudenza senza fargli incontrare nessun ostacolo. “Solo tredici chilometri” è un libro amaro. Entra nelle vite di tanti personaggi, e in ognuno di essi trova dei punti di forza ma soprattutto le loro tante debolezze, non escludendo nessuno. Ogni pagina sprona il lettore a sfogliarne un’altra giocando sulla suspense e la curiosità. Una curiosità che dal punto di vista della narrazione viene soddisfatta, ma che lascia il lettore con un punto interrogativo; e l’impressione è che la risposta non si possa trovare fra quelle pagine, ma che maceri nella mente di chi le ha sfogliate.
In foto principale: Mauro De Pascalis