Ha appena compiuto ottant’anni, ma lo spirito è quello di un ragazzino capace di entusiasmarsi di quei tasti bianchi e neri e che ha ancora voglia di sperimentare fra i cinque righi del pentagramma. Franco d’Andrea, leggenda della musica internazionale, è un’enciclopedia vivente del jazz, e fra un ricordo e un nuovo stimolo promette che tornerà presto a suonare nella “sua” Merano.
Maestro, ottant’anni suonati…
Beh, non sono esattamente ottanta suonati, perché quando ero ragazzino facevo anche qualcos’altro (ride, ndr.). È un’età strana, che viene vissuta in maniera diversa a seconda di come si percepisce, di come si ha la fortuna di sentirla, perché in fondo bisogna avere un po’ di fortuna per arrivare a questa età in maniera decente. Io mi sento bene, sono fortunato!
Come li ha festeggiati?
Una giornata meravigliosa, mi hanno fatto tutti delle grandi feste, seppure a distanza; ho ricevuto tantissimi messaggi e email: alla fine della giornata ero davvero stanco, perché ho voluto rispondere a tutti, a un certo punto pensavo che il mio cellulare non tenesse più.
…e come regalo ha ricevuto un libro.
È stata una bellissima sorpresa, hanno deciso di farlo uscire in concomitanza con il periodo del mio compleanno. È un libro fatto davvero bene: io non l’avevo mai visto, neanche l’anteprima. Flavio Caprera ha fatto un ottimo lavoro, ha realizzato una biografia dettagliata e addirittura aggiornatissima, tanto che che arriva a parlare anche dei miei progetti più recenti.
Recentemente ha ricevuto il “Premio alla carriera”. Cosa ne pensa?
Nella mia vita ho ricevuto moltissimi premi, e quello alla carriera è il coronamento, mettiamola così; mi ha fatto piacere, è chiaro, ma io in realtà non ci tengo molto a questi riconoscimenti. Ricordo che quando ho vinto il primo premio nel 1982 non me l’aspettavo, mi ero anche chiesto il motivo per cui qualcuno aveva deciso di prendersi la briga di conferirmi quel riconoscimento. In generale i premi non mi hanno mai appassionato molto, perché mi sembra quasi di essere in gara: essere il primo, il migliore non mi attira particolarmente, non sono mai stato un “rampante”. E ogni volta che ne ho ricevuto uno è stata una sorpresa.
Qual è il musicista che ricorda con più piacere, in tutti questi anni di carriera?
È difficile da dire, perché sono davvero tanti, penso di aver condiviso la mia musica con almeno 300 star internazionali. Ma credo che il musicista che ricordo con più piacere credo sia Gato Barbieri; abbiamo iniziato a suonare quando si era appena trasferito in Italia dall’Argentina, molto prima del suo grande successo determinato dalla colonna sonora di “Ultimo tango a Parigi”. Suonava da paura, era una cosa pazzesca quello che riusciva a far uscire da quel sax, era perfettamente in linea con quello che faceva Coltrane, ma nessuno in Italia si sognava di suonare in quel modo: era un marziano.
Ci racconta un aneddoto particolare di quei tempi, degli anni d’oro del jazz?
Potrei ricordare un momento molto particolare, che non mi vede come protagonista: era il 1963, a Bologna, ero stato ingaggiato come bassista, perché suonavo anche il basso, per un festival dove Miles Davis presentava il suo nuovo gruppo. Ricorderò per sempre questo momento: durante l’esecuzione di “Walking”, Tony Williams, che aveva 17 anni, aveva fatto un assolo di batteria; Miles voltava le spalle al pubblico, come sempre, e guardava con occhi sgranati questo ragazzino come se fosse un fenomeno: aveva gli occhi di chi era stupito di quello che stava sentendo. Ero a cinque metri di distanza, e ricordo quegli occhi come fosse oggi.
Ha qualche rimpianto?
Direi proprio di no, anche se per un periodo ho riflettuto molto su un episodio che avrebbe potuto cambiare la mia vita. Il primo ingaggio di livello internazionale mi arrivò da Jonny Griffin, che all’epoca era sulla cresta dell’onda, un sassofonista che aveva suonato con Thelonius Monk, giusto per intenderci. Dopo quella serata mi mandò una lettera in cui mi proponeva di andare a suonare con lui per l’inaugurazione di un importantissimo jazz club. Solo che proprio in quel periodo stavo preparando il mio matrimonio con Marta: così, a malincuore dal punto di vista musicale ma convinto della mia decisione, gli risposi che non avrei potuto raggiungerlo. Poi scoprii che anche dal punto di vista della mia formazione la scelta di non andare si risultò vincente, perché in quel periodo stavo iniziando a mettere un piede nel mondo dell’avanguardia, e Griffin non faceva parte di questa mia strada.
C’è quindi una data che separa il Franco d’Andrea “standard” da quello che conosciamo oggi?
Io divido la mia vita in due parti, prima e dopo i quarant’anni. Fino agli anni 80 ho fatto un lungo apprendistato, un periodo di formazione dove dal punto di vista musicale non sapevo ancora chi fossi davvero; sono sempre stato curioso ed avevo fatto molte esperienze, anche contraddittorie. Questo mi è servito per trovare la mia via, quella dopo i quarant’anni, quando ho iniziato a fare musica mia.
Ma la curiosità non l’ha mai abbandonata…
Direi proprio di no, mi piace sperimentare, sempre. Come quando poco tempo fa ho avviato un progetto con Dj Rocca: divertentissimo.
Quando tornerà a Merano?
Se tutto va per il meglio e usciremo da questa situazione, ho in programma una tournée che dovrebbe partire il 10 e finire il 22 di luglio con il trombettista Dave Douglas, la giovane bassista romana Federica Michisanta ed il newyorchese Dan Weiss alla batteria. Con loro passeremo tre giorni a Merano, terremo un concerto, delle masterclass e anche una prova aperta a tutti gli allievi. Speriamo che per quei giorni la pandemia sia solo un brutto ricordo.
La biografia
Con oltre 160 dischi incisi in Italia e all’estero e almeno 20 premi Top Jazz vinti nella sua lunga carriera,Franco D’Andrea è ormai considerato uno dei migliori pianisti contemporanei e rappresenta l’eccellenza che il jazz italiano ha saputo partorire negli ultimi 50 anni. Per i suoi 80 anni è uscita la biografia “Franco D’Andrea. Un ritratto”, a cura del giornalista Flavio Caprera, pubblicata dalla casa editrice Edt e impreziosita dalla prefazione di Enrico Rava.
Nato a Merano nel 1941, D’Andrea incomincia a suonare il piano da autodidatta a 17 anni, avendo suonato in precedenza tromba e sax soprano. Dopo una parentesi bolognese nei primi anni ‘60, che lo vede anche al fianco di Lucio Dalla in quartetto jazz, è alla Rai di Roma nel 1963 che comincia la sua attività professionale, insieme a Nunzio Rotondo. Incide il primo disco con Gato Barbieri nel 1964, con il quale collabora due anni, quindi fonda insieme a Franco Tonani e Bruno Tommaso il “Modern Art Trio” nel 1969, per poi entrare nel 1972 nel gruppo progressive jazz “Perigeo”. Da lì in poi, una lunghissima carriera come pianista, arrangiatore e leader di numerosi progetti, elaborando uno stile personale e molto originale che attinge alle fonti più disparate, dal serialismo al jazz-rock, dalla world music a quella contemporanea.
Un’unicità la sua, testimoniata da più di duecento brani composti, autorevoli riconoscimenti accademici, tra cui il Prix du Musicien Européen 2010” de l’Academie du Jazz de France, centinaia di collaborazioni con musicisti di tutto il mondo (Johnny Griffin, Dexter Gordon, Steve Lacy, Enrico Rava, Lee Konitz, Phil Woods, Han Bennink, Dave Douglas e Dave Liebman), masterclass tenute in diverse scuole e accademie. Fino, ovviamente, alle tante formazioni che ha saputo incendiare con il suo sconfinato talento. Con i suoi dischi, i suoi concerti e la sua attività didattica, Franco D’Andrea ha tracciato un percorso tutto personale nel jazz, portando avanti una ricerca profonda nell’ambito della musica afroamericana, dando vita a progetti ambiziosi che vanno dal “solo” a formazioni più allargate come l’ottetto e “Eleven”, sempre mantenendo una cifra estetica e poetica estremamente originale.
Autore: Luca Masiello