Essere benvenute, nonostante tutto

Una giovane studentessa dell’Università di Bolzano ha incentrato la sua tesi di laurea sulla vita delle donne senza fissa dimora che gravitano presso la Casa Conte Forni di Bolzano. Raccogliendo uno spaccato di grande umanità, al di là degli stereotipi.

Prima il freddo e poi la neve. E la pandemia. Nei giorni scorsi a Bolzano è tornato di stretta atualità il tema delle decine e decine di persone (quasi 200, secondo le stime) che vengono sbrigativamente indicate “senza fissa dimora”. In realtà si tratta di un universo variegato, come è facile immaginare, che comprende homeless tradizionali di origine locale o meno, richiedenti asilo, profughi e persone che si trovano in una situazione di disagio per svariati motivi. 
In questi giorni il capoluogo è tornato a interrogarsi – purtroppo con il consueto rimpallo di responsabilità tra Comune, Provincia e rappresentanti dello stato (Commissiariato del Governo e forze dell’ordine) – sul tipo di soluzioni da adottare per dare un riparo e un minimo di conforto a queste persone. 

Tra di loro le più fragili, è inutile dirlo, sono le donne, presenti in un numero importante e spesso con bimbi a carico. È dunque a loro – e in un modo singolare – che abbiamo pensato di dedicare l’articolo principale nel nostro numero di Avvento e Natale, con il quale salutiamo i lettori dando poi loro appuntamento all’inizio del 2021. Nei mesi scorsi infatti ci è capitato di incontrare una giovane studentessa della Libera Università di Bolzano che proprio alle donne senza fissa dimora di Bolzano ha scelto di dedicare la sua tesi di laurea.

IL LAVORO DI TESI
Giada Avi ha 23 anni ed è di Pergine Valsugana, in provincia di Trento. Si è appena laureata presso la facolta di Design e Arti dell’Università di Bolzano discutendo una tesi basata sulla realizzazione di un libro d’arte, dedicato in particolare alle donne senza fissa dimora che hanno come punto di riferimento la Casa Conte Forni di Bolzano, un centro di accoglienza che ha sede in via Renon, a due passi dalla stazione ferroviaria. Per 4 mesi – da luglio a ottobre, giusto nella “pausa” tra la prima e la seconda ondata della pandemia – Giada ha frequentato la struttura, stringendo relazioni e raccogliendo materiali, soprattuto singole frasi e immagini dal forte contenuto evocativo. Ci è sembrato molto interessante valorizzare la stretta connessione che si è creata, nell’esperienza di questa giovanissima, tra arte e sociale, due mondi che siamo abituati a pensare distanti, quasi agli antipodi. È altrettanto significativo – come ci dice la stessa studentessa nell’intervista che abbiamo realizzato – l’obiettivo che questo lavoro si è proposto cercando di “allontanare il più possibile queste donne dalle etichette che spesso vengono loro affibbiate, generalizzando, criminalizzando e vittimizzando”. Il libro d’arte realizzato da Giada Avi, al momento stampato in poche copie, forse in futuro verrà anche pubblicato. Auspichiamo davvero che questo possa accadere, magari anche grazie a un editore altoatesino, perché si tratta di uno sforzo davvero significativo di pacificazione. Sarebbe davvero un bel segnale.

L’INTERVISTA


Com’è nata l’idea di realizzare questa tesi di laurea così particolare?
Sia artisticamente che personalmente sono sempre stata attratta dal sociale. Mi interessa, penso che la società ne abbia bisogno. Vediamo tanto odio in giro, per le strade e sui social, mi piace l’idea di usare l’arte per cambiare il mondo. Pretendo troppo?

Come hai proceduto?
Avendo a che fare con persone “emotivamente fragili”, sono andata step by step. Avendo quattro mesi per fare la tesi, ho iniziato con molta calma, andando tre volte a settimana a Casa Forni. Per i primi due mesi non ho neanche portato la macchina fotografica, volevo prendere confidenza, lasciare che si fidassero di me in maniera naturale, senza pressioni o spinte. Non è così facile farsi fotografare da una completa sconosciuta, e allo stesso tempo non era facile per me fotografare sconosciute, senza “sfruttare” in qualche modo la loro condizione.

Dal punto di vista umano com’è stato incontrare queste persone?
Molto più facile di quello che pensassi. Come ho scritto tante volte nel mio libro, sono molto più simili a me di quanto pensassi. Sì, le nostre realtà sono incredibilmente distanti, ma allo stesso tempo molto molto simili. Per la mia personalità e il modo che ho di vedere e capire il mondo, è stato molto semplice conoscerle, instaurare un rapporto, volergli bene e farmi voler loro bene.

Quando pensiamo alle donne senza fissa dimora facciamo fatica a sfuggire da una serie di stereotipi. Quali sono i principali?
Il mio progetto si basa proprio su questo: allontanare più possibile queste donne dalle etichette che la società affibbia loro, generalizzando, criminalizzando, vittimizzando. Quante volte abbiamo sentito che sono pigre, che non hanno voglia di fare niente? Che se la sono cercate? Facciamo fatica a capirle perché non abbiamo tempo e voglia di farlo. Inoltre, i media hanno un grande ruolo nella nostra percezione dell’”altro”. Ogni giorno siamo letteralmente bombardati da immagini che ovviamente influenzano la nostra visione del mondo. Al contempo possiamo accusare queste immagini stereotipate di continuare ad alimentare stereotipi negativi. è un po’ come un cane che si mangia la coda.

Le storie delle donne che hai incontrato nel tuo lavoro spesso sono condensate in brevi frasi e fotografie di grande forza espressiva. è stata una scelta tua fin dall’inizio o una cosa che è scaturita man mano?
In realtà no. Soprattutto perché ho avuto a che fare con delle persone, lavorando con loro e su di loro, inizialmente volevo essere il più aperta possibile. Il mio progetto si sarebbe sviluppato in base a loro: alle loro esigenze, a quanto loro si sarebbero aperte con me, alle suggestioni che avrei avuto relazionandomi con loro. Mi ero data carta bianca. Avendo poi fotografie e testo, che considero essere egualmente importanti, ho capito che un libro sarebbe stato il medium migliore.

Marginalità e disagio, ma comunque cittadinanza. In questa fase così delicata ancora una volta siamo invitati a “restare a casa”. Per le donne che hai incontrato si tratta di un’indicazione che appare quanto mai paradossale…
Il Covid ha sicuramente dato una sfumatura diversa al progetto. Ha creato ancora più disparità tra “noi” e “loro”, se possiamo davvero parlare di due categorie distinte. Basti immaginare ai pompieri che giravano per le strade con le sirene “state a casa”, sfrecciando a pochi metri da persone che si chiedevano “e noi dove andiamo?”.

Aver conosciuto questo mondo che tipo di porte aprirà sul tuo futuro? Dopo la triennale quali sono i tuoi progetti?
Voglio lavorare nel mondo della comunicazione visiva e mi piacerebbe rimanere su temi sociali più che commerciali. Forse sono troppo ambiziosa, ma mi piacerebbe che il mio lavoro cambiasse anche solo di poco la visione che abbiamo sul mondo.