Oliver Schrott ha vinto il Premio Solidarietà del Comune di Merano per il suo impegno nel mondo del sociale e dell’associazionismo. Direttore dello Jugenddienst, lavora a contatto con i ragazzi tutti i giorni dando vita a numerosi progetti e attività. Ci ha raccontato il suo punto di vista sul rapporto tra i giovani e la città.
“Ha dedicato la sua vita ai bisogni e alle preoccupazioni dei bambini e dei giovani, svolgendo il suo lavoro con cuore, convinzione e anima, prestando servizio anche come volontario. È sempre in prima linea per reagire alle ingiustizie sociali, cercando non solo di parlarne, ma anche di dare segnali visibili o di incoraggiare nuovi progetti. Con il suo impegno ha contribuito in modo significativo alla prosperità della nostra comunità”.
È con queste parole di elogio che il sindaco di Merano Dario Dal Medico ha consegnato, lo scorso 29 marzo, il Premio Solidarietà 2020 a Oliver Schrott, direttore dello Jugenddienst e importante figura nel panorama sociale e associazionistico del Burgraviato. Schrott, meranese classe ‘74, lavora da più di vent’anni a contatto con bambini e ragazzi, e nessuno meglio di lui ha potuto osservare la trasformazione delle nuove generazioni e i nuovi approcci al mondo che gli circonda. “I ragazzi sono il termometro della nostra società: se loro stanno bene, il futuro sarà radioso per tutti”.
Oliver Schrott, quanta emozione c’è stata nel ricevere questo premio?
Tanta, ero sorpreso ed emozionato, non me lo aspettavo affatto. Sono rimasto contento perché non ne avevo mai ricevuto uno ed è stato un bel riconoscimento che ripaga per tutti questi anni d’impegno nel campo sociale.
Di che cosa si occupa lo Jugenddienst?
L’associazione compirà l’anno prossimo 40 anni e si occupa di accompagnare e supportare diverse iniziative dedicate al mondo giovanile. Cerchiamo di essere presenti a 360 gradi al fianco dei ragazzi e il nostro lavoro quotidiano spazia su più frangenti. Passiamo dall’occuparci di tutto quello che concerne la burocrazia con i Comuni, alle attività sociali di integrazione dei giovani nel mondo dello studio e del lavoro, con progetti come la cura del giardino Soulgarden o quello della “Tenda di Abramo”, con cui consegniamo alimenti a persone bisognose. Siamo attivi anche nel volontariato e in diversi progetti dedicati alla sostenibilità, mentre con la Kija svolgiamo attività ecclesiastiche. Negli anni abbiamo creato anche una rete forte con i centri giovanili e con gli streetworker, figure chiave che scendono in strada a cercare di aiutare i ragazzi più difficili. Infine, abbiamo una serie di attività estive, tra cui camp e gite.
Merano è stata al centro della cronaca per diversi episodi di bullismo e baby-gang. Da dove nascono questi fenomeni?
Purtroppo sono sempre esistiti, ma internet, i social e la pandemia hanno contribuito a farli degenerare. Lavoriamo ogni giorno con ragazzi che vivono situazioni difficili e molti di loro reputano tali azioni come un vanto, un qualcosa per cui farsi notare e finire sui giornali. Hanno bisogno di sentirsi qualcuno, emulando atteggiamenti che vedono sui social. Gran parte di loro se presi singolarmente sono molto bravi e intelligenti, mentre in gruppo si trasformano e si fanno trascinare.
Che soluzioni ci sono per arginare il problema?
Bisogna continuare a lavorare con loro, investendo su tempo e persone che stiano al loro fianco e facciano capire loro cosa è bene e cosa è male. Bisogna guidarli lungo nuove vie alternative, mostrando che c’è altro oltre alla violenza. In tal senso gli streetworker stanno facendo un lavoro enorme, sia d’ascolto che di consiglio. Molti psicologi ci hanno avvertito che in futuro il fenomeno potrebbe peggiorare, perciò è necessario intervenire il prima possibile su tutti i fronti per non farci trovare impreparati un domani.
Merano è una città a misura di giovane?
Non ancora, bisogna lavorarci. Offre possibilità sia dal punto di vista lavorativo che di svago, ma entrambe non sono abbastanza valorizzate. In primis bisognerebbe smettere di creare distinzioni tra i gruppi linguistici. Bisogna poi individuare i luoghi adatti in cui far sfogare i ragazzi, senza il rischio di scontri con i residenti che cercano solo quiete. Ma per questo serve anche una mano dalla politica.
Il rischio non è quello di una ghettizzazione dei giovani?
Certo, ne siamo consapevoli. I ragazzi dovrebbero rappresentare un valore aggiunto per la comunità ed essere integrati al suo interno. Spesso si dà più attenzione alle esigenze dei turisti che vengono da fuori, confinando i gruppi di ragazzi fuori dal centro storico. È un problema diffuso, i tavoli di confronto potrebbe aiutare per cercare nuove soluzioni.
Nell’ultimo periodo avete avuto a che fare anche con giovani ucraini?
Sì, e non è facile perché sono fragili psicologicamente e segnati dal conflitto. Alcuni hanno esternato il desiderio di tornare in patria per combattere, altri non vogliono dividersi dalla madre.Vivono in uno stato di paura ed è una situazione delicata, per questo stiamo cercando di capire quali sono le attività adatte per loro. Ma abbiamo riscontrato anche una forte solidarietà da parte di chi si è già integrato: alcuni ragazzi ucraini già residenti a Merano ci hanno aiutato a mediare con i nuovi arrivati, superando le barriere linguistiche.
Qual è l’aspetto che preferisce del suo lavoro?
Amo la vivacità del mio lavoro, il non essere costretto a rimanere ancorato ad un punto fermo. I giovani sono attivi, hanno tanta energia e da loro si può imparare tanto. È un arricchimento personale. Creare progetti e vederli concretizzati è una gioia perché capisci che i ragazzi che hai di fronte si stanno impegnando per diventare cittadini migliori in futuro.
Autore: Alexander Ginestous