Cinquant’anni dall’occupazione della Montedison

Per chi ci lavorava il ricordo è ancora nitido, come fosse successo ieri. Ma sono trascorsi già 50 anni da quel 7 luglio 1972, quando la Montedison di Sinigo minacciò di chiudere i battenti. E la fabbrica venne occupata.


“Assolutamente no. Durante tutto il periodo di occupazione non ho mai sentito questo sentimento di paura, di perdere il posto di lavoro. Non potevamo decidere noi quando riaprire, però la nostra attività era così frenetica e così bella che ci aspettavamo soltanto delle buone soluzioni.” Esordisce così, Carlo Baldi, quando gli si chiede se durante l’occupazione della Montedison – la storica fabbrica di Sinigo – ha avuto paura.
Di quella storia, di quella occupazione, quest’anno si ricordano i 50 anni. è la vicenda di quei 220 operai impiegati a lavorare in fabbrica in una Sinigo tedescofona, votata all’agricoltura e al turismo. In una fabbrica che nasce tra il 1925 e il 1926, ricercando in Alto Adige un mercato interessante per il fertilizzante chimico che non troverà, costretta quindi a passare ai materiali speciali: carbonato di litio, silicio iperpuro per elettronica, in policristallo e monocristallo, ma anche titanio e plasma. Un mercato promettente sul quale scommettere, con le porte dell’elettronica che si stavano spalancando, in cui tuttavia Montedison stessa non credette, investendo nel suo laboratorio poco denaro ed energia, ed arrivando ad un deficit annuo di un miliardo di lire. Così, si giunse al 7 luglio 1972: fabbrica chiusa, tutti a casa.
E non solo a Sinigo, ma anche in altri punti di produzione dello stivale.
Sono stati molti, tra sindacalisti, operai, contadini e cittadini, ad animare questa storia. E sono proprio le loro voci che ripercorrono e ricostruiscono le tappe di un vissuto così decisivo per il territorio.

CARLO BALDI
A partire dallo stesso Carlo Baldi, che quel giorno si trovava in vacanza con la famiglia e che senza pensarci su troppo è tornato a Sinigo: “È stata una decisione di coscienza – racconta quasi ridendo – non potevo starmene in ferie mentre gli altri occupavano la fabbrica”.
Ricorda che vi trovò una situazione paradossalmente tranquilla: “Ci hanno ceduto le chiavi, lasciandoci corrente e acqua. Noi abbiamo cercato per tutto il tempo di fare la minima manutenzione per non mandare tutto in malora”.
In queste condizioni, con turni di presidio della fabbrica e giri di ronda per controllare i dintorni, l’occupazione andava avanti. Da sfondo, un clima non propriamente roseo: gli anni delle bombe dei separatisti in Alto Adige e un capoluogo se non contrario, quantomeno sfavorevole, per una questione politica e, sicuramente, etnico – linguistica. Ma erano anche gli anni del lungo ’68, dei movimenti sindacali nel loro massimo fermento, degli operai nelle piazze per reclamare diritti, salari stabili, sicurezze e welfare.
In questo grande quadro si inserivano gli operai resistenti della Montedison di Sinigo, trascinando con loro anche contadini e cittadini, artisti, civili e sindacalisti.

JACOB DE CHIRICO
Tra questi, il ricordo di Jacob De Chirico: “L’occupazione della Montedison di Sinigo era stata per me una scuola di vita frenetica. Dirigevo in quegli anni la rivista “Arte e lavoro/ Kunst und Arbeit”, interessata a fare interagire l’arte con il mondo del lavoro e le sue grandi lotte in difesa delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti. Avevo capito che il mio ruolo poteva essere davvero al servizio della classe operaia. I lavoratori della Montedison rappresentavano un’avanguardia, sindacalizzata, competente, consapevole dei propri diritti ma anche profonda conoscitrice della sofisticata produzione del silicio iperpuro. Pensavo che andassero coinvolti intellettuali, insegnanti, studentesse e studenti di lingua italiana e tedesca, senza steccati etno – linguistici. Ritenevo indispensabile coinvolgere anche i contadini del Burgraviato e infatti alle grandi manifestazioni in città partecipavano addirittura con i loro trattori! Ci fu una grande solidarietà. Mai una lotta di fabbrica aveva coinvolto in modo massiccio tutta la città. Accanto alla tenda della Montedison installata in pieno centro città, accanto ai grandi murali scritti e dipinti da me, capitò che la polizia volesse cancellare quell’avamposto operaio. Io dipingevo ogni giorno un murale colorato nuovo, un vero e proprio diario che aggiornava lo stato della lotta!”.
E fu proprio così: una mobilitazione generale e senza eguali. Una scuola di resistenza, collaborazione e solidarietà per il territorio intero. Ma anche una scuola di vita, personale, che ha contribuito a formare le coscienze: “Io non ero sindacalizzato, non avevo neanche tante idee politiche, però credo che si debba sempre battersi per qualcosa in cui si crede e ne è valsa la pena. È quello che ti lascia la coscienza tranquilla”.

GIUSY GIARRIZZO
Ed ecco, vince, il ricordo di Giusi Giarrizzo della Cgil. “Sono passati 50 anni da questa vertenza sindacale di grande respiro, ma nella memoria dei giovani lavoratori di oggi non c’è più traccia di un avvenimento sindacale che allora coinvolse i duecento dipendenti della ex Montedison, la comunità di Sinigo e i lavoratori e le lavoratrici non solo del meranese, ma anche di tutta la Provincia. Quando invece, oggi, ho l’occasione d’incontrare qualche ex lavoratore che allora era attivo nel sindacato, non faccio il tempo di salutarlo che subito in lui affiorano i ricordi di questa battaglia in difesa dei posti di lavoro nell’industria”.

LUCA FELLIN
Anche Luca Fellin ricorda: “Negli anni ’80 noi giovani rampanti che arrivammo alla Smiel poco sapevamo di quanto era accaduto solo pochi anni prima. Nel 72 eravamo ancora alle scuole medie. Per noi la fabbrica rappresentava una buona opportunità di lavoro in attesa di tempi migliori. Siamo arrivati in un momento di transizione politica e sociale ed anche di prospettive di mercato.l n quegli anni sono iniziati i primi cambiamenti significativi dal punto di vista dell’espansione dell’azienda e del mercato del silicio. La storia dell’occupazione l’abbiamo imparata assieme alle storie delle persone che l’avevano fatta. Abbiamo avuto il privilegio di ascoltare dall’interno, e dalle persone dalle quali stavamo imparando a lavorare, che significato ha avuto per la fabbrica, per la comunità e per noi stessi, quell’atto coraggioso. Ci sembra quasi di avervi partecipato. Quell’occupazione è stata la svolta, ha permesso la continuità produttiva e la sicurezza economica dei suoi addetti e di parte della comunità.”
Si trattò di un’occupazione tenace, conclusa il maggio dell’anno successivo. Occorre dunque celebrare il ricordo di coloro che si sono caricati sulle spalle la responsabilità di non far fallire per sempre un’opportunità di lavoro industriale, riconoscendo loro la capacità di visione prospettica, di amore per il lavoro. Celebrare l’intransigenza e la tenacia degli operai che hanno fatto sì che ancora oggi lo stabilimento di Merano abbia oltre 200 dipendenti, e quello satellite, di Novara, più di 600.

“LA LOGICA DEL FARE”
Insomma: è una grande storia di comunità, che Carlo Baldi riassume in modo lucido. “La storia di questa comunità di lavoratori che copre più di mezzo secolo della nostra vita, ha bisogno di una riflessione conclusiva: molti sono gli eventi importanti che l’hanno segnata, scelte politiche o mancate scelte, scelte imprenditoriali, variazioni repentine e incontrollabili dei mercati globali. Tutto questo sta dentro la logica del fare. E sono gli uomini che decidono: i prestatori d’opera e i datori di lavoro e per ognuno di questi si potrebbe tentare un giudizio: bravo, impegnato, determinante, generoso, preparato, essenziale in questa o in quell’altra occasione, eroico persino, inadeguato, e non ti meravigli di questo perché gli uomini e le istituzioni fanno la storia, sono dentro la storia, però ad un certo punto la storia subisce uno scarto decisivo, impensabile persino.
Perché non era nella logica delle cose, anzi era al di fuori delle regole scritte, di quelle ammissibili per convenzione o per legge. È necessario che l’imprenditore si faccia da parte, non necessariamente per i suoi demeriti. Perché tutti insieme noi, con i nostri bisogni e diritti, in questa particolare occasione, per un’etica superiore e per un tempo che sarà breve o lungo, si provi a cambiare il corso delle cose. E in quel 1972, 220 lavoratori, con qualche eccezione più o meno giustificata, l’hanno fatto e oggi fra Sinigo e Novara oltre 1000 lavoratori hanno uno stipendio a fronte di una prestazione e il datore di lavoro un rendimento per il suo capitale di rischio”

Autrice: Ana Andros

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