Delia Boninsegna – nata a Merano ma ormai da 52 anni in Brasile – si racconta: la sua passione per la scuola dell’infanzia, la scelta radicale di cambiare vita, la missione in Brasile e l’associazione Paolo Tonucci, oggi conosciuta come Apito.
// Di Chiara Caobelli
Oggi Delia ha 77 anni ed è molto attiva nella comunità della città di Camaçari, nello Stato della Bahia. In Brasile non è solo presidente di associazione, ma svolge varie attività, come corsi di macramé e di lingua italiana, organizzando e partecipando ad eventi culturali e sociali, battendosi ogni giorno per cercare di superare le molte ingiustizie di cui il popolo brasiliano è vittima.
Delia, tua hai una grande passione per la scuola dell’infanzia: come è iniziato tutto?
Sin da piccola il mio sogno era quello di diventare una maestra d’asilo, così dopo un anno di corso a Trento ho conseguito il diploma in puericultura. Successivamente ho avuto l’opportunità di trasferirmi in Svizzera, nella periferia di Berna, per lavorare in un asilo dedicato ai figli degli immigrati italiani che lavoravano durante il giorno. Dopo alcuni anni sono tornata in Italia e mi sono diplomata a Verona diventando maestra d’asilo. È iniziata così la mia avventura, dando il via a una serie di tirocini in varie scuole dell’infanzia di Merano e Gargazzone.
Come mai il Brasile?
In quegli anni frequentavo gruppi di giovani e durante un campo estivo a Spello ho conosciuto un sacerdote di Firenze che si stava preparando per andare in Brasile per una missione. Mi ha invitato a seguirlo e io senza dubitare ho deciso di frequentare un corso preparatorio di tre mesi e in seguito sono partita.
Salvador, la capitale dello stato di Bahia, è stata la tua meta: quando e come è iniziata questa avventura?
Nel gennaio del 1971 sono partita: un viaggio in nave fino a Rio De Janeiro e poi 28 ore di autobus fino a Salvador, nel nord-est del paese. Avevo poche informazioni, non sapevo a cosa sarei andata incontro e soprattutto non avrei mai pensato di rimanerci per sempre. Ho iniziato così a lavorare nella parrocchia della comunità tenendo corsi di alfabetizzazione, occupandomi della catechesi e prestando servizio sociale. Intanto gli anni passavano e diventava per me sempre più difficile tornare in Italia: la mia vita ormai era lì.
Poi è arrivato il tuo incontro con don Paolo Tonucci…
Sì, nentre ero a Salvador ho incontrato questo prete diocesano di Fano, venuto in missione in Brasile convinto di dedicarsi agli ultimi, mettendosi a disposizione per cercare di risolvere le esigenze del popolo. Realizzò una scuola professionale per operai, la scuola Primo Maggio, sede non solo della formazione di molti bambini e ragazzi, ma anche centro di incontri e di dibattiti politici, luogo di solidarietà e resistenza. Condividevo molto le idee e i valori di Paolo: avevamo la stessa missione, quella di lavorare affinché la gente locale prendesse coscienza, conquistandosi autonomia, libertà e i diritti fondamentali che ogni essere umano dovrebbe aver garantiti. Ricordo che il Brasile in quegli anni era sotto una forte dittatura, il popolo era oppresso e c’erano grandi disuguaglianze sociali.
Perché da Salvador a Camaçari?
Nel 1981 volevamo cambiare e così abbiamo deciso di spostarci nella città di Camaçari, a 40 km dalla capitale dello stato di Bahia. Si tratta di una città sorta negli anni Settanta in funzione della costruzione del polo petrolchimico. Considerata una città dormitorio, è stata costruita dai lavoratori che prestavano servizio nella realizzazione del polo. Una volta terminata la costruzione del polo, le uniche professionali ad essere richieste erano quelle relative a persone altamente specializzate, e quindi tutti coloro che avevano lasciato le loro terre per cercare fortuna in città, si trovarono senza lavoro e a vivere in condizioni pietose. Da qui l’inizio di una grande crisi, fame e povertà.
Il nostro lavoro dunque era quello di cercare di aiutare le famiglie in difficoltà. Avevamo istituito un gruppo di donne all’interno della comunità che si impegnavano a visitare le famiglie e a indicarci quelle più bisognose, le quali ricevevano beni di prima necessità, ma soprattutto un’educazione alla vita. Ci impegnavamo ad insegnare l’importanza dell’igiene, di una sana alimentazione, del valore della scuola e della formazione: il tutto con l’obiettivo di formare cittadini brasiliani più consapevoli, responsabili e autonomi in un futuro prossimo.
Nel 1994 scompare Paolo Tonucci. Negli anni seguenti però nasce la scuola dell’infanzia Apito dedicata proprio a lui.
Grazie al suo operato Paolo era conosciuto in tutto il Brasile e in gran parte dell’America Latina, e proprio per tener vivo il suo animo abbiamo voluto realizzare un qualcosa in suo nome. A quel tempo davamo assistenza a più di 400 famiglie e l’aiuto era principalmente rivolto alle donne, le quali non solo si occupavano dei figli, ma al tempo stesso lavoravano. Il problema maggiore dunque, era dove lasciare i bambini durante il giorno. Gli asili pubblici erano rari ed erano più che altro dei depositi di bambini e non delle scuole. Abbiamo realizzato così nel centro di Camaçari la scuola dell’infanzia Apito, grazie al contributo della Provincia Autonoma di Bolzano, del Comune di Merano, della parrocchia di Santa Maria Assunta e tutti gli amici di Paolo di Fano. Si tratta di una scuola gratuita, su misura di bambino, sicura, bella, e che non solo garantisce un’educazione di qualità, ma anche una sana alimentazione e una buona formazione alle famiglie dei bambini. Un grande successo di cui andiamo molto fieri e di cui il prossimo anno festeggeremo i 25 anni.
Dopo la scuola è nata l’Associazione Paolo Tonucci, oggi conosciuta come Apito. Cosa significa “apito” in portoghese?
Apito vuol dire fischietto, un oggetto simbolico che vuole richiamare l’attenzione sui problemi che il Brasile sta affrontando. Vuole dunque farsi sentire e urlare al mondo che oggi questo paese si trova in grande difficoltà. Più della metà della popolazione non ha garantiti i tre pasti al giorno e più di 33 milioni di persone ne possono consumare solamente uno. La violenza è ai massimi livelli, il traffico di droga regna, la miseria è alle stelle e il tutto in un clima di paura e incertezza. I giovani, ormai senza sogni, vivono la giornata senza sapere cosa succederà domani, senza avere il diritto di pensare a prospettive per il futuro, umiliati e abbandonati dalle istituzioni. Pregiudizi, razzismo e violenza sulle donne e sulle persone di colore sono all’ordine del giorno. Come può un paese vivere così?
Qual è la missione di Apito oggi?
Garantire i diritti umani incoraggiando la collettività attraverso l’educazione e la cultura, mirando sempre a far prevalere la giustizia. Per fare ciò la scuola dell’infanzia non è sufficiente, perché una volta terminati i tre anni, ci siamo resi conto che i bambini escono dalla scuola e le prospettive di vita offerte dalla realtà sono tutt’altro che buone. Abbiamo organizzato così attività extra curricolari, come ad esempio attività sportive, corsi di lingua, di robotica, di percussioni, nei quali non vengono solo insegnate varie discipline, ma soprattutto vengono coltivati i valori del rispetto, della libertà, della giustizia, offrendo luoghi protetti, sicuri, in cui crescere per diventare cittadini di domani migliori. Il nostro obiettivo non è quello di mantenere il Brasile un paese che chiede l’elemosina; noi vogliamo che sia un paese formato, capace, autonomo per potersi riscattare e creare un futuro migliore.
Dov’è Apito in Italia?
La sede dell’associazione Paolo Tonucci è a Merano, ma ha una filiale anche nella città di Fano, nelle Marche. Quando torno a Merano il mio collegamento principale è la comunità del Cenacolo. A Fano l’associazione opera con diversi progetti sul territorio, lavorando con i migranti, i poveri, con la clownterapia negli ospedali e con la scuola dell’infanzia Collodi di Fano. L’associazione permette di sostenere gran parte dei progetti e la scuola dell’infanzia qui in Brasile e nonostante gli alti e i bassi avuti negli anni, siamo molto orgogliosi di quello che siamo diventati. Una delle nostre pecche però, è che negli anni l’associazione non si è rinnovata molto e quello che ci manca sono le cosiddette “nuove leve”: giovani volenterosi, determinati e formati che credono nei nostri valori e che ci aiutino a portare avanti la nostra missione.
Quale messaggio ti senti di lanciare ai tuoi amici meranesi?
Vorrei far loro una domanda: avete mai conosciuto dei ricchi felici? Beh, io no, ma in 52 anni qui in Brasile ho conosciuto centinaia e centinaia di poveri felici. Vorrei farvi riflettere che oggi viviamo in un mondo sempre più connesso e non solo grazie alle nuove tecnologie, ma anche tra di noi come esseri umani: le sorti di uno dipendono dalle coscienze di tutti. Con questo voglio dire che ognuno di noi può fare la differenza per rispettare meglio il nostro pianeta, per superare le disuguaglianze, per far sentire la propria voce di fronte alle ingiustizie senza nascondersi dietro allo scudo dell’indifferenza. Dobbiamo apprezzare quello che abbiamo rendendoci conto di quanto siamo fortunati, ma se non proviamo tutti insieme a cambiare la coscienza a livello mondiale, prima o poi tutti andremo a fondo.
Autrice: Chiara Caobelli