“L’eterogeneità a scuola è un valore aggiunto” 

Negli ultimi mesi ha suscitato un vivace dibattito pubblico la formazione delle nuove classi presso la scuola primaria in lingua tedesca Goethe di Bolzano, soprattutto a causa dei nuovi ventilati criteri di suddivisione degli alunni all’interno delle classi. Molti degli allievi della scuola infatti sono di origine straniera e non conoscono la lingua tedesca e per loro erano stati ipotizzati  dei percorsi comuni, separati dagli altri bambini. Per approfondire questi temi, abbiamo interpellato il professor Dario Ianes, uno dei massimi esperti in pedagogia inclusiva in Italia. Ianes, che ha insegnato a lungo alla Libera Università di Bolzano, nell’intervista che vi proponiamo ci offre una riflessione approfondita sulla recente polemica e sui significati che assumono i concetti di “eterogeneità” e “inclusione” all’interno del sistema scolastico.

Professor Ianes, sulla vicenda della formazione delle nuove classi nella scuola primaria in lingua tedesca Goethe, è stato scritto di tutto. Da pedagogista lei questo dibattito come l’ha vissuto?

La vicenda l’ho vissuta ricordando che lo schema omogeneità-eterogeneità è ormai parte integrante dei nostri sistemi educativi. Il sistema italiano inclusivo vede l’eterogeneità, cioè il mescolare competenze e provenienze diverse, come un valore aggiunto, capace di stimolare identità condivisa, consapevolezza reciproca, solidarietà e sviluppo collettivo tra gli alunni.
Separare gli studenti in base all’omogeneità, come per lingua o capacità, non è dal mio punto di vista solo politicamente sbagliato, ma anche pedagogicamente errato. La ricerca scientifica dimostra chiaramente che l’eterogeneità produce risultati migliori in apprendimento, socialità e competenze socio-emotive, e trovo sorprendente che questi dati siano stati ignorati.

Lei ha accennato anche alla lingua: quando un alunno non conosce affatto la lingua di insegnamento, come si procede da un punto di vista pedagogico? Può essere considerato un bisogno educativo speciale, anche se temporaneo?

Da un certo punto di vista sì. Perché se ho un bisogno educativo normale – come comunicare con i miei insegnanti e compagni, ma non posso farlo perché, ad esempio, vengo dall’Ucraina e non conosco la lingua – questo bisogno diventa speciale. Serve dunque un supporto aggiuntivo per aiutarmi a sviluppare le competenze linguistiche, così che il mio bisogno diventi normale. Il punto è: dove trovo questo supporto speciale? Lo trovo in qualcosa di separato e isolante? O all’interno del processo naturale di apprendimento e socialità? Ogni bambino impara la lingua in un contesto normale, assorbendo i dialoghi, non in una classe separata. L’immersione in un contesto naturale è più efficace pedagogicamente. Possiamo senz’altro aggiungere un sostegno extra, come la mediazione culturale o l’arricchimento del contesto, ma sempre all’interno di un ambiente normale, non separato. La logica abilista, invece, dice: puoi partecipare solo se sei abile. Se non lo sei, devi acquisire l’abilità fuori, e solo allora entri. Ma questo approccio esclude, invece di integrare.

Nel dibattito pubblico si parla spesso di integrazione e inclusione come se fossero la stessa cosa. Può chiarire quali sono le differenze tra questi due concetti?

Negli anni ‘70, in Italia, il concetto di “inserimento” prevedeva che gli alunni con disabilità fossero semplicemente collocati in un contesto scolastico senza che questo fosse adeguatamente preparato. Con l’evoluzione verso “l’integrazione,” si è fatto un passo avanti: il contesto iniziava ad adattarsi, offrendo supporti specifici, come insegnanti di sostegno e percorsi individualizzati, ma la struttura scolastica restava sostanzialmente quella tradizionale. L’approccio inclusivo, invece, amplia questa visione. Non si tratta più solo di creare percorsi speciali per chi ha disabilità certificate o Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ovvero DSA (come dislessia, disgrafia e discalculia), ma di pensare una didattica aperta e modulabile per tutti gli alunni. L’inclusione parte dalle differenze umane, valorizzando le unicità di ciascun individuo, siano esse talenti, difficoltà linguistiche o diversi stili di apprendimento. In questo modo, la didattica si universalizza, permettendo percorsi personalizzati per tutti, non solo per chi ha problematiche specifiche.

Questi passaggi avvengono all’interno di un quadro normativo?

Sì, lo fanno a partire dalla legge 104 del ‘92, la legge quadro sulla disabilità, che però andrebbe aggiornata. Nel 2010 c’è stata una svolta per gli alunni con DSA, riconosciuti finalmente come aventi diritto a una didattica personalizzata. Nel 2012-2013 è stato introdotto il concetto di “Bisogno Educativo Speciale”, che include chiunque abbia difficoltà a soddisfare i propri bisogni educativi, a causa di disabilità, problemi familiari o linguistici. Esistono diversi fattori che influenzano il nostro modo di ‘funzionare’, e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, questo concetto va oltre il corpo e dipende fortemente dal contesto in cui viviamo, che può offrire certezze o barriere.

Ci può fare un esempio concreto?

Sì, le fornisco un esempio nell’ambito dei disturbi specifici di apprendimento. Se ho bisogno di un computer per leggere e comprendere un testo in tempi ragionevoli, quella è la mia modalità di funzionamento; ma se non posso usarlo, incontro una barriera non solo interna, ma anche relazionale con il contesto. Al contrario, un contesto che fornisce tecnologie integrate, come un computer, valorizza le mie differenze e mi offre pari opportunità rispetto a chi legge senza ausili. La condizione di svantaggio, emarginazione o discriminazione è sempre legata al rapporto con il contesto, che può facilitare il mio funzionamento o porre limitazioni. Alcuni insegnanti vedono l’uso del computer per far leggere come un aiuto indebito, ma in realtà serve a livellare le opportunità per alunni con DSA, consentendo a tutti di dimostrare le proprie conoscenze.

LA VICENDA DELLA SCUOLA GOETHE

All’inizio dell’anno scolastico, la proposta della dirigente scolastica Christina Holzer della scuola primaria in lingua tedesca “Goethe” nel centro storico di Bolzano, di formare una classe prima composta esclusivamente da ragazzi migranti e di madrelingua italiana, ha suscitato un ampio dibattito e una forte opposizione. 
La dirigente aveva giustificato questa scelta affermando che serve (serviva, considerato che è stata bloccata) a garantire un ambiente didattico appropriato sia per i bambini madrelingua tedesca che per quelli che devono iniziare da zero con la lingua. 
Si era trattato di una decisione in apparenza solo organizzativa, ma che evidenzia la pressione (anche politica) cui sono sottoposte le scuole di lingua tedesca, dove cresce il numero di bambini non di madrelingua.
L’assessore provinciale alla scuola tedesca Philipp Achammer aveva fermamente respinto e bocciato l’iniziativa della dirigente scolastica, considerandola una violazione delle leggi provinciali e nazionali, che mirano a promuovere una scuola aperta a tutti e vietano la creazione di classi “ghetto”. 
Gli aveva fatto eco l’intendente scolastica per le scuole di lingua tedesca Sigrun Falkensteiner, affermando che la scuola ha il compito di promuovere l’inclusione e di favorire il rispetto della diversità. 
Achammer ha ribadito che una gestione efficace della presenza di studenti di origine straniera richiede il loro inserimento nelle classi esistenti, piuttosto che una separazione in gruppi distinti, una scelta sostenuta anche da altri esponenti politici e dall’opinione pubblica, che hanno criticato duramente la proposta per il rischio di stigmatizzazione e isolamento.

Autore: Till Antonio Mola

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