In provincia di Bolzano parlare di stranieri non è mai stato né semplice né facile. Per riordinare un po’ le idee e metterci nei panni di coloro che ci hanno raggiunto di recente, per un motivo o per l’altro, abbiamo pensato di farci aiutare da un sociologo: Adel Jabbar.
Adel Jabbar è un appassionato di storia e geografia approdato alla sociologia per comprendere la dinamica dell’agire umano in rapporto allo spazio e al tempo. Questa passione lo ha condotto a fare ricerca nell’ambito dei processi migratori e della comunicazione interculturale. Libero docente e collaboratore di istituzioni accademiche nell’ambito del pluralismo culturale e religioso, ha insegnato in diversi atenei e ha partecipato a diverse ricerche e numerose pubblicazioni nell’ambito dell’immigrazione. Redattore della rivista “Il Cristallo” (BZ) è curatore di molteplici eventi cinematografici e artistico-letterari.
L’INTERVISTA
Spesso tendiamo a pensare socialmente all’Alto Adige come ad un unicum a livello mondiale. Questo come se nel resto del mondo i territori, a differenza che da noi, fossero tutti caratterizzati dalla presenza di un unico popolo e un’unica lingua. Siamo davvero unici? Siamo un’isola?
Ecco: partiamo da qui. Secondo me neanche un’isola è… isolata. è infatti accarezzata dall’acqua, dalle onde, dalle varie tempeste e dai venti. Poi basta che pensiamo a Robinson Crusoe di Defoe: l’isola è un vero e proprio mondo, fatto di tante cose, e poi lui incontra Venerdì; non è solo. Parlando dei movimenti migratori mi capita di fare riferimento spesso alla mia storia: io sono nato infatti a Baghdad, che oggi si trova in Iraq. Noi abbiamo sedimentato nella nostra percezione l’idea che molti eventi della storia più antica dell’uomo si siano svolti proprio lì in quella zona. Poi ci sono Adamo ed Eva, le prime due persone, entrambi migranti, extraterrestri. A ben vedere anche loro sono stati catapultati, da irregolari, nel giardino dell’Eden. Queste storie raccontano quello che è tipico delle specie viventi in grado di camminare, essere umani ma non solo. Siamo il prodotto di processi di trasformazione, di lunghi percorsi e – in definitiva – lunghissime camminate. Il fatto di viaggiare è rimasto nell’indole dell’essere umano, oggi lo facciamo per motivi turistici, di lavoro, di studio, di esplorazione. La nostra passione per cavalli, bici, moto, treni e aerei, auto sportive…, nasce da qui. La nostra indole è nel movimento. Se partiamo dall’idea che il movimento è la sostanza della storia e della nostra esistenza, dove sta allora la nostra famosa unicità?
In provincia di Bolzano da un certo punto di vista gli “italiani” vedono i “tedeschi” come “stranieri”, ma anche i sudtirolesi vedono gli “italiani” allo stesso modo. Poi “italiani” e “tedeschi”, insieme, vedono gli immigrati come “stranieri”. La stessa cosa naturalmente la fanno gli immigrati che – a loro modo e partendo dalla loro esperienza e provenienza – vedono “noi” come stranieri. In sostanza: in un modo o nell’altro qui siamo tutti stranieri…
Sì, e questo è un vantaggio perché in questo modo le persone continuano a interrogarsi. Questo atteggiamento naturalmente può portare sia ad un’apertura che a una chiusura nei confronti degli “altri”. Interrogarsi richiede energie, anche psichiche, in un processo che non tutti sono in grado di affrontare, guardando altri orizzonti e incontrando cambiamenti. Gli essere umani hanno bisogno anche di certezze, che sono legate alle abitudini. E lì nasce un problema esistenziale: da una parte c’è la necessità e il diritto (libertà) di cambiare, dall’altra le certezze da preservare.
Sì, e bisogna riuscire a trovare un equilibrio tra queste due dimensioni. E per fare questo ci vuole anche e soprattutto un lavoro pedagogico. Ma chi lo svolge?
La scuola? La politica? I vari attori e le varie agenzie nella società?
Una volta si parlava soprattutto della scuola e dei suoi educatori. Oggi non credo che sia più così. Una volta si pensava che la scuola avesse anche lo scopo di “formare”, ma anche delimitare lo spazio di manovra della mente. In ogni caso la scuola ha anche sempre fornito degli strumenti. Attraverso letture, conoscenze, una spinta a guardarsi intorno, la scuola è stata senz’altro un’agenzia di socializzazione fondamentale anche nel guidare la trasformazione della società. Ma oggi molte altre realtà competono con la scuola, da questo punto di vista.
In Alto Adige la scuola ha anche la caratteristica peculiare di essere monolingue, a fronte di una popolazione che nasce con due diverse madrelingue d’origine, ma che poi si vorrebbe tutta magicamente plurilingue.
Noi viviamo in un contesto che ha una storia particolare e dove da un certo punto di vista è legittimo che un gruppo che si sente fagocitato, cerchi di tutelare il proprio patrimonio linguistico e culturale. Ma anche qui è una questione di equilibrio tra le certezze da preservare e il cambiamento che è ineluttabile. Gli equilibri vanno mantenuti, ma anche prodotti, e devono comunque essere anche sempre “aggiustati”. Naturalmente in questo senso anche la politica gioca un ruolo fondamentale.
Come vivono gli stranieri in Alto Adige? è una terra amica dei migranti?
Per molti quella di emigrare è una necessità. E sto parlando di motivi di lavoro, non di profughi di guerra o esiliati. La maggior parte della migrazione oggi è spinta da necessità materiali. Si parla di migranti economici, ma spesso le motivazioni possono anche essere ambientali o legate ai diritti. Le motivazioni a volte sono molteplici e coincidono. Ma non tutti quelli che hanno un bisogno poi partono, sono solo alcuni quelli che lo fanno. Questi alcuni sono animati dal desiderio di affermarsi in qualche modo, si tratta di un bisogno personale. Vanno verso una “terra promessa”, ma che in realtà non è stata promessa a nessuno. Arrivare in una terra non promessa implica già in partenza la necessità di fare i conti con le proprie illusioni. La vita del migrante per motivi di lavoro non coincide quasi mai con le proprie aspettative. Quando un immigrato arriva in provincia di Bolzano trova un contesto in cui si parlano due lingue invece che una, entrambe necessarie per sopravvivere e accedere alle varie opportunità disponibili. Quando arrivano in Alto Adige gli immigrati devono rapportarsi con un’area di confine che ha una storia particolare e delle persone che hanno delle sensibilità che partono da memorie storiche diverse tra loro. Al migrante tocca vivere questo e non è mai facile. Dobbiamo ricordarci che, per un migrante, l’approdo non è mai la soluzione del problema, ma solo il primo passo. Di un lungo processo di interazione che possiamo chiamare in tanti modi: integrazione, inserimento, inclusione… Per molti aspetti si vivono rinvii e lunghe attese. E nell’emigrazione isolarsi a volte è anche una forma di protezione, rispetto all’esporsi in un tessuto sociale per il quale spesso non si hanno tutti gli strumenti necessarie per affrontarlo.
Sì. Ad essere vissute ci sono poi due diverse realtà, quella materiale e quella “affettiva”.
Sul piano materiale ovvero del mercato del lavoro direi che la maggior parte dei migranti in Alto Adige trovano una soluzione. Ma, appunto, si tratta solo di un tassello della vita. Per il resto le persone tendono a voler coltivare le certezze che hanno acquisito nel paese d’origine.
Stiamo parlando di un background culturale, della propria storia nel paese d’origine, di una lingua, una religione, aspetti che continuano tutti ad essere coltivatati in qualche modo, individualmente oppure in gruppo… magari annacquando un po’ la cosa con il passare degli anni.
è una dimensione affettiva appresa dalla famiglia e dal vicinato nel paese d’origine. Sono aspetti fondamentali per la vita delle persone che, tra l’altro, è difficile ricostruire in maniera solida nel nuovo luogo in cui si va a vivere. A volte agli immigrati una certa separazione è dunque necessaria, anche per riuscire a gestire il difficile rapporto con l’ignoto. Con il tempo poi la situazione cambia.
Cambia in che modo?
Si instaura un rapporto tra memoria e progetto. La memoria è relativa al bagaglio che si ha dentro, il progetto è invece quello che si deve costruire. C’è quindi un adattamento, che qualcuno chiama aggiustamento identitario. Preferisco non usare il sostantivo “identità”, perché è meglio focalizzarsi sulla strategia che viene messa in atto. L’aggiustamento avviene poi su diversi piani: lavoro, dimensione abitativa, riconoscimento sociale e culturale, ecc.
Probabilmente non siamo consapevoli di queste dinamiche che ogni immigrato in un modo o nell’altro deve attivare. Tendiamo magari invece a vedere solo l’aspetto religioso come preponderante. Da qui l’idea stereotipata dello straniero che in via esclusiva rivendica la sua religione e, magari, vuole anche imporcela…
Il discorso religioso a mio parere viene strumentalizzato. La religione oggi in Alto Adige non viene più vissuta così intensamente, ma questi temi sono ancora in grado di colpire le sensibilità. Se ci sono degli immigrati di religione cattolica, non è che questo li aiuti più di tanto a livello di riconoscimento sociale. E quando gli italiani a suo tempo sono emigrati in Germania non è che lì abbiano ricevuto chissà quale riconoscimento in quanto cattolici. La stessa cosa vale anche in Alto Adige. Qui entrambi i gruppi linguistici sono cattolici, ma questo ha aiutato nella costruzione della convivenza?
Eh già. All’interno della diocesi i due gruppi linguistici vivono divisi quasi al 100%, nella pratica dei riti e nella vita comunitaria.
In giro per il mondo ci sono un sacco di conflitti e spesso la religione non è determinante. Ad esempio oggi gli Ucraini, ortodossi, sono in guerra con i Russi, ortodossi pure loro. E pensare che a suo tempo l’evangelizzazione della Russia partì proprio da Kiev.
Il mondo musulmano viene visto come una cosa unica e in realtà ad essere sotto la lente sono soprattutto una serie di aspetti culturali: il ruolo della donna, una certa idea di famiglia…
I modelli si evolvono, sia nella terra d’origine che nella versione riveduta e corretta nella terra d’emigrazione. Io eviterei le generalizzazioni, perché non aiutano. I modelli di famiglia poi sono molto diversi tra loro, non solo tra le varie comunità che si richiamano all’Islam, ma anche all’interno delle stesse comunità. Il vissuto religioso di per sé è molto diverso tra Marocco e Bangladesh, Senegal e Iran, Afghanistan e Tunisia, Indonesia e Pakistan, solo per fare alcuni esempi. E la cosa vale anche per i cattolici. Tra un cattolico svizzero e uno dell’Uganda, tra uno del Brasile e un altro delle Filippine, ci sono grandi differenze, no? Le regioni poi vengono interpretate dalle singole persone. E le persone non sono clonate. Se fosse così noi a Bolzano saremmo tutti uguali, e invece… I riferimenti valoriali sono diversi e non per nulla c’è una dialettica, che spesso può anche generare contrapposizioni. Quando siamo partiti in questa conversazione il tema era la presunta unicità dell’Alto Adige. Io parlerei invece di specificità. Ecco: quella c’è senz’altro.
Qual è la nostra specificità?
Non siamo molto condizionati dalla concetto di stato/nazione e questo concetto è legato alla specificità di solo alcuni paesi occidentali. Ma in realtà se andiamo a vedere ad esempio la Francia, che noi tendiamo a vedere come uno degli stati più “compatti”, in realtà anche lì ci sono mille
sfumature legate ai territori d’oltremare e ai moltissimi cittadini che provengono dalle colonie.
Dal punto di vista politico gli immigrati quale realtà sentono più vicina?
Probabilmente le istituzioni territoriali più piccole. Tant’è vero che in consiglio comunale a Bolzano sono presenti ben quattro consiglieri con background migratorio. Non è una situazione frequente e tra l’altro nessuno di loro fa riferimento a partiti di sinistra, notoriamente molto più attivi sulle politiche pro immigrati.
Probabilmente hanno costruito il loro consenso anche e soprattutto attraverso i loro rapporti con i non immigrati.
Proprio così. E non dobbiamo dimenticare che anche nelle comunità d’origine ci sono diversi orientamenti politici, che gli immigrati portano con sé nella loro nuova realtà.
Luca Sticcotti