Il professor Mattia Cavagna, bolzanino, ma anche parigino e bruxellois, racconta come ha scoperto la filologia romanza, di come ne abbia fatto la sua professione e di come la sua vita si evolva all’insegna della ricerca e della scoperta. Di luoghi, di persone e di nuovi punti di vista.
Da dove nasce la tua passione per la filologia romanza?
Quando mi sono iscritto a lettere non avevo mai sentito il termine “filologia”, poi ho incontrato un professore con un approccio interessante: riusciva ad attualizzare delle problematiche di questa disciplina. Per me la storia di ognuno di noi è una storia d’incontri e con questo professore c’è stato un colpo di fulmine. La filologia è affascinante perché ti permette di analizzare manoscritti mai letti e di scoprire nuove cose; ti insegna inoltre ad attualizzare i problemi, ad esempio, riconoscere le fake news è filologia: è la distinzione tra la copia d’autore e quella del copista, cambia la terminologia, ma le problematiche restano le stesse.
Hai sempre avuto l’obiettivo di insegnare all’università?
Questa volontà è maturata molto presto, quando ho capito che la filologia romanza è una materia grezza in cui c’è moltissimo da scoprire ho compreso che era davvero quello che volevo fare. È stato interessante: mi sono appassionato all’antico francese — la tappa intermedia tra latino e francese moderno, tappa che manca all’italiano e spagnolo — e ho imparato prima quello del francese moderno.
Quanto è stato importante l’Erasmus nella tua carriera?
Importantissimo. L’Erasmus non è un viaggio, è un’esperienza in un’altra realtà che ti forma da moltissimi punti di vista. Lo dico sempre ai miei studenti: l’Erasmus è incontournable (non ci puoi girare attorno). Dopo l’Erasmus sono tornato in Italia a laurearmi, per poi ritornare subito a Parigi dove ho lavorato al Louvre, ho conseguito il Diplôme d’études approfondies, tappa intermedia tra la tesi di laurea e il dottorato che ho vinto a Bologna in cotutela con Parigi. Non sono più tornato in Italia per la differenza dello statuto dei dottorandi, ai miei tempi più considerati in Francia; ora insegno a Bruxelles all’Université catholique de Louvain e lì sono rimasto.
Hai mai pensato di tornare in Italia?
Non mi sono mai sentito esiliato: Bolzano è casa mia come lo sono Parigi e Bruxelles. Sono sempre in Italia. L’Universitas esiste: l’Erasmus c’è anche per gli insegnanti, vengo a insegnare almeno due volte a semestre in Italia, come, spesso, vado anche all’estero; sono stato in Brasile, in Vietnam e prossimamente andrò a Shanghai.
Qual è l’esperienza extraeuropea che ti è dato di più?
Quando esci dall’Europa sei obbligato a varcare i confini della tua ricerca, nel mio caso la filologia romanza stricto sensu, e devi adattarti al pubblico e alle sue istanze: sono nuove esperienze culturali e umane, ma anche scientifiche, ti lanciano nuove sfide con cui anche i tuoi corsi vengono arricchiti. In Brasile ad esempio ho incontrato persone meravigliose che leggono Cicerone attraverso Valla e Bruni e si interrogano sul ruolo dell’umanismo civico nel Rinascimento. Sono rimasto a bocca aperta. Lì ho incontrato persone di una grande umanità ed erudizione, gli studenti capiscono il valore profondo dei libri e dell’approfondire il più possibile.
Autrice: Anna Michelazzi