La Merano dei fratelli Bucci

Riccardo e Giovanni Bucci, classe 1943, per certi aspetti “gemelli diversi”, hanno raccontato alcune sere fa a Merano, per iniziativa del Circolo Culturale Meranese, la “loro” Merano. Quella vista attraverso gli occhi del primo – che ne è stato cronista fedele sulle pagine dell’Alto Adige prima e poi de L’Adige e del Mattino – e del secondo che, abile pittore, ne ha inquadrato gli aspetti più interessanti fissandoli su tela. 

I Bucci a Merano sono un’istituzione così come lo fu la loro madre, la dottoressa Giuseppina, pediatra che ancora oggi molti ricordano per la sua genuinità, competenza e grande disponibilità, in tempi in cui i medici non conoscevano orario ed erano sempre a disposizione dei loro pazienti. Riccardo più incline alla narrazione, con la favella facile, e Giovanni di poche parole che si esprime attraverso le sue tele, hanno dato vita ad una serata “amarcord” accompagnata da una pubblicazione dal titolo “Lettere e Cartoline” che mette insieme scritti del primo e immagini del secondo. Della loro storia abbiamo parlato con Riccardo in una gustosa intervista.

Partiamo dalle origini, Riccardo. Come è arrivata la vostra famiglia a Merano?

Mio fratello Cesare e noi gemelli arrivammo con la mamma che aveva iniziato la propria attività come pediatra presso l’allora Opera nazionale maternità e infanzia. Ci stabilimmo in via Schaffer che allora si chiamava via Miramonti, di fonte all’attuale Zarenbrunn che allora era un convento di suore alle quali rubavamo le ciliegie.

Rubavate le ciliegie?

Sì. Quando le ciliegie maturavano, le suore sguinzagliavano due cani per tenerci a bada e noi escogitammo uno stratagemma per “aggirare l’ostacolo”. Memori di come erano fatti i sacchetti porta offerte che da chierichetti si usavano in chiesa, fissammo un sacchetto ad un lungo bastone con in cima una lametta per prelevare le ciliegie e così gabbammo le suore.

Quella era un’infanzia spensierata davvero…

Fuori casa tutto il giorno con le fionde fatte con camere d’aria di bicicletta, archi con le canne del canneto di via Fluggi e tanta fantasia. Una cartolina tra i raggi di bicicletta per simulare il rumore del motore, le barchette di carta nella roggia che correva lungo la via. Si giocava a “darsela”, campanone, palla avvelenata, e poi c’erano le palline immancabili con cui giocavamo a “cicca e spanna”. Poi c’era e c’è ancora, l’albero “elefante” nel parco di via Winkel al cui ramo sporgente in orizzontale, attaccavamo una corda e una tavoletta di legno per fare l’altalena e la sera immancabilmente la guardia campestre ce la tagliava.

Poi venne il tempo del collegio, della scuola superiore all’istituto d’arte e della naja…

Che siccome ero raccomandato, mi mandarono a Palermo! Figuriamoci se non fossi stato raccomandato! L’arte e la pittura rimasero patrimonio di mio fratello Giovanni mentre io, dopo un anno da insegnante di disegno, rimasi folgorato sulla via di Damasco da Vittorio Cavini ed entrai all’Alto Adige per una sostituzione di un mese. Sarà stata la vanità di vedere il mio nome in calce ad un articolo, ma venni preso dalla spirale del giornalismo e non ne uscii più.

Qual è stata la vicenda che giornalisticamente ti ha maggiormente gratificato?

Lavoravo all’Eco di Padova quando venni a sapere di una persona che stava scontando una quarantina d’anni di prigione per un omicidio di due soldati tedeschi alla fine della guerra nel 1945. In realtà scoprimmo che non si trattava di un omicidio ma legittima difesa in guerra, perché i due militari volevano imprigionarlo e lui che non sapeva che da pochi giorni era finita la guerra, aveva reagito. Riuscimmo così a dimostrare che si trattava ancora di un fatto bellico e a quella persona fu consentito di chiedere ed ottenere la grazia. Per me fu uno scoop al pari di quello che feci quando si scoprì che a Castel Labers le SS in guerra stampavano le sterline false per indebolire l’economia inglese.

Ma i Bucci erano anche un trio musicale di valore…

Beh, chitarra e batteria ci avevano travolti e ci fecero diventare “il trio Bucci”. Raggiungemmo anche la vittoria in un lontanissimo festival beat ma poi i destini ci portarono su strade diverse e tutto finì.

Per chiudere, racconta ai nostri lettori la storia del ceffone di Luisa…

Avevamo marinato la scuola a Ravenna al primo anno di liceo artistico. Andammo all’Upim appena inaugurato. Facevamo gli spavaldi con le commesse che non ci filavano proprio. Ce n’era una che portava una targhetta col nome Luisa sulla parte destra del petto. Tentando la carta della battuta ironica, indicando l’altro le chiesi “e questo come si chiama?”. Non terminai la frase che il ceffone era già arrivato.

Autore: Enzo Coco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *