Nata a Bolzano il 5 febbraio 1991, fin da bambina Giulia Pedron è attratta dall’arte. Dopo un viaggio in Africa, trova nella fotografia il mezzo espressivo più potente per trasmettere le proprie esperienze e far conoscere culture lontane. Decide di seguire un Master di fotografia al centro universitario IDEP a Barcellona e frequenta diversi corsi di cinema documentario a Buenos Aires. Una volta terminati gli studi, viaggia per lunghi periodi alla ricerca di minoranze etniche da ritrarre nelle proprie immagini. Oggi vive a Bronzolo.
La cosa che mi piace di più di me.
La determinazione e l’indipendenza.
Il mio principale difetto.
Buttarmi giù quando non trovo la motivazione.
La volta che sono stata più felice.
Quando ho capito che potevo fare del viaggio la mia vita!
Da bambina sognavo di diventare…
Veterinaria.
L’errore che non rifarei.
Non bere acqua durante un’escursione in barca sotto il sole cocente…
La persona che invidio di più.
Nessuno.
La persona che ammiro di più.
Steve McCurry.
Un libro da portare su un’isola deserta.
“Ebano” di Kapuscinski.
L’ultima volta che ho pianto.
Due settimane fa.
La mia occupazione preferita.
Fantasticare sul mio prossimo viaggio e sulle fotografia/video che potrò realizzare!
Il Paese o luogo dove vorrei vivere.
Il Paese ancora non lo so, ma su un’isola esotica su una spiaggia di fronte al mare.
Il fiore che amo.
La margherita.
Il mio piatto preferito.
…non è solo uno, sono troppi per elencarli!
Il mio pittore preferito.
Più che un artista, un movimento: l’Impressionismo.
Del mio aspetto non mi piace.
I capelli bianchi che iniziano a spuntare!
Non sopporto…
L’esagerazione nelle reazioni.
L’ultima volta che ho pregato.
3 anni fa, in Cina.
Dico bugie solo…
Per scampare a un incontro a cui non voglio partecipare!
La mia paura più grande.
Perdere la felicità.
L’oggetto a cui sono più legata.
Una zainetto che ho preso in Ecuador.
Il mio primo ricordo.
Un Natale di tantissimi anni fa.
Il mio più grande rimpianto.
Sono convinta di avere ancora tempo per recuperare eventuali rimpianti!
Se fossi un animale, sarei…
Un gatto o una mangusta.
In famiglia mi chiamano…
Adesso Giulietta, una volta Attila!
Mi sono sentita orgogliosa quando…
Ho imparato a guidare un motorino su un’isola deserta in Tailandia.
Andrea Castelli è attore professionista, autore e doppiatore. Si fa conoscere in regione prima con l’innovativo gruppo de “I Spiazaroi” (1975-2000) e poi per i suoi monologhi in dialetto trentino e in lingua. Nel 2000 è chiamato da Marco Bernardi al Teatro Stabile di Bolzano. Ama variare dal brillante al serio, dal classico al moderno, dal dialetto all’italiano.
Il mio principale difetto.
Reagire con troppa veemenza all’arroganza e non capire che oggi è una battaglia persa.
Da bambino sognavo di diventare…
Capo dei pompieri che, nel tempo libero, faceva anche il campione mondiale di ciclismo.
La persona che invidio di più.
è una vita che provo a invidiare qualcuno, ma non ci riesco perché mi viene da ridere.
Un libro da portare sull’isola deserta.
“Libera nos a Malo” di Luigi Meneghello. Per leggerlo in treno sono quasi finito chissà dove…
Il capriccio che non mi sono mai tolto.
Una villa sontuosa con servitù a bizzeffe, uno scudiero e due cavalli di buon carattere.
L’ultima volta che ho perso la calma.
Quando un cretino in bici sul marciapiede digitando al telefono ha investito mia moglie alle spalle. Le ha fatto male. Gliene ho dette tante ma tante. Al ciclista intendo…
L’ultima volta che ho pianto.
Quando è morto mio padre. Credevo di essere un duro ma non ce l’ho fatta.
La mia occupazione preferita.
Leggere, scrivere, disegnare e cucinare. Nel tempo libero recito in teatro.
Il paese dove vorrei vivere.
Un paese sempre sui 24 gradi dove i politici che promettono di abbassare le tasse lo facessero davvero.
Il colore che preferisco.
Giallo sole, giallo luce, giallo vita. In vacanza leggo ancora qualche giallo.
Il piatto preferito.
Aglio, olio e peperoncino. Con gli ingredienti ben calibrati sento le campane.
Il mio musicista preferito
Beethoven. Quando mi accingo a scrivere, la sua “Pastorale” in sottofondo mi indica la via.
Del mio aspetto non mi piace…
Tutti questi capelli biondi a zazzera e questi occhi azzurri da “Husky”.
Non sopporto…
L’ignorante che vuole insegnare agli altri e gli altri che ci cascano. Ribollo di furia iconoclasta.
Dico bugie solo…
No, anche in compagnia…
Il giocattolo che ho amato di più.
I tappi corona (le “scudeléte”) che travestivo da ciclisti per fare Giro, Tour e Vuelta in tutti i locali della casa imitando la voce di De Zan. Un giorno mamma inavvertitamente mi schiacciò Anquetil e fu un dramma.
Mi sono sentito orgoglioso di me stesso quando…
Quando l’onorevole Bertinotti venne nel mio camerino al Piccolo di Milano per dirmi che l’avevo fatto piangere. Far piangere un politico oggi non è da tutti.
Il mio primo ricordo…
Una luce nel primo presepe che vidi in vita mia. Ero piccolissimo. Quella luce ogni tanto la vedo ancora. L’oculista dice che non è grave.
L’ultima volta che ho pregato…
Quando un carabiniere voleva farmi contravvenzione. Non l’ho pregato, l’ho supplicato. Lui ha detto “Ma lei è l’attore?”. Non mi pareva vero!
Francesca Ferragina, meranese, lavora come pedagogista e responsabile per due servizi infanzia 0-6 anni per gli ospedali di Merano e Bressanone. Per passione fa la scrittrice e a febbraio è uscito il suo romanzo “Io. Anna” (Ed. Albatros), primo capitolo di quella che nella sua testa è una trilogia. In occasione del mese contro la violenza sulle donne, Francesca racconta in un PodCast la vita di donne straordinarie che hanno cambiato il corso della storia.
Francesca Ferragina, a quanti anni ha cominciato a scrivere? A scrivere non lo so esattamente. A inventare storie fin da bambina. Dicono che abbia sempre avuto una fervida immaginazione, e soprattutto che non la smettevo mai di parlare. Sono figlia unica e quindi giocavo spesso da sola, ma questo non mi dispiaceva, perché stavo ore e ore a inventare avventure per me e i miei giocattoli.
Da chi ha ereditato la passione del racconto? Penso da mia nonna Dorina. Per motivi di lavoro dei miei genitori passavo molto tempo con lei e i suoi amici (tutti anziani ovviamente) e quindi sono stata sempre circondata da persone che mi raccontavano le loro avventure di ragazzi, del periodo della guerra, dei film visti al cinema, e tanto altro. Ma soprattutto adoravo quando mia nonna invece di raccontarmi le fiabe mi riportava le storie tratte dalle opere di musica classica. Lei aveva lavorato come maschera in teatro quindi mi raccontava di Papageno, della regina della notte, di Alfredo e Violetta, della madama Butterfly, ma soprattutto mi narrava della bella Turandot.
Come nasce l’idea di un romanzo storico dedicato alle donne? Penso che a volte ci siano dei pregiudizi nei confronti del romanzo storico. Si pensa sia pesante e noioso, ovviamente per chi non apprezza il genere. Io invece ho sempre adorato la storia, forse perché grazie al cielo ho sempre trovato insegnanti e persone che me l’hanno posta in modo divertente e intrigante, come il mio amato professor Piccinelli (che tra l’altro mi consiglia ancora oggi). Così ho pensato di fare lo stesso con il mio romanzo: renderlo accattivante e allo stesso tempo leggero.
Quali sono i temi che tratta nel romanzo? C’è un po’ di tutto, mi piace dire che con meno di 200 pagine si può vivere un’appassionante avventura alla corte di Enrico VIII, tra amore, amicizia e una corsa contro il tempo.
Da dove nasce l’idea del romanzo? Sinceramente? Da un sogno che ho fatto circa sei anni fa. Avevo guardato la serie televisiva “The Tudors” e come resistere al fascino di Jonathan Rhys Meyers nei panni di Enrico VIII? Scherzi a parte, il viaggio nel tempo mi ha sempre intrigato. Ho letto libri e visto film di ogni tipo su questo argomento (e si nota dalle citazioni che si trovano nel romanzo). In particolare mi ha segnata “Timeline” di Michael Crichton: la storia d’amore tra Marek, archeologo del futuro, e Lady Claire, nobildonna e personaggio chiave nella storia della guerra dei cent’anni, è qualcosa di meraviglioso e ho spesso sognato un amore così anche io.
Dove ha raccolto le fonti per tracciare la storia di Anna Bolena?Inizialmente da libri biografici che parlavano della dinastia Tudor dalla guerra delle due rose in poi: una storia davvero affascinante; poi mi sono addentrata nella ricerca un po’ più seriamente utilizzando trattati storici, archivi online che raccoglievano atti ufficiali, corrispondenza tra Enrico VIII e Anna Bolena, e altro. Inoltre nel 2015 sono stata con la mia famiglia in vacanza in Gran Bretagna e abbiamo visitato molti luoghi inerenti alla vita di Enrico VIII e Anna Bolena permettendomi di prendere appunti sugli spazi, i paesaggi, perfino i profumi, così da immergere il più possibile il lettore nell’atmosfera raccontata.
Perché ha scelto proprio Anna? Anna Bolena è un personaggio storico davvero affascinante. È stata una donna estremamente intelligente, colta e intraprendente. Ha ricevuto una formazione avanzata per i tempi, riservata solitamente ai figli maschi, e questo perché il padre, accortosi subito delle capacità della figlia, le ha permesso di studiare con il fratello George.
Purtroppo l’inizio del XVI secolo non era ancora pronto per una donna così, ma soprattutto Enrico VIII non lo era. O meglio, all’inizio era affascinato dalla bellezza particolare (anche questa fuori dai canoni dell’epoca) e dalla cultura di questa donna; dalla possibilità di conversare con lei di arte, religione e politica. Solleticava il suo enorme ego il fatto che lei non si sia subito concessa a lui, come tutte le amanti che aveva avuto fino a quel momento; ma soprattutto trovava stimolante i loro battibecchi. Ma la nascita di Elisabetta, una femmina, e gli aborti avuti da Anna hanno incrinato questo rapporto idilliaco. Enrico aveva estremamente bisogno di un erede maschio e Anna sembrava non darglielo. Il re aveva già più di quarant’anni e nel gennaio del 1536 la sua brutta caduta da cavallo ha lasciato col fiato sospeso il regno. Questo ha cambiato profondamente Enrico. Questo, e la sua nuova passione per un’altra donna, la più “disciplinata” e docile Jane Seymour. Dopo l’esperienza esasperante del divorzio dalla sua prima moglie, Caterina D’Aragona, il re non voleva perdere troppo tempo e quindi, complice il suo Primo ministro Thomas Cromwell, ha raccolto materiale sufficiente per arrestare Anna e condannarla a morte. Non dico che Anna Bolena sia stata una santa, ma sicuramente non meritava quella fine. E io, come la mia protagonista Elanor, ho voluta riscattarla.
Quali sono le caratteristiche di questa eroina femminile che l’hanno colpita di più? Non posso dire che Anna Bolena sia stata un’eroina. È stata una donna. Come dico nella dedica nel mio romanzo, una donna “troppo forte per un tempo che la voleva debole”. Quello che mi ha colpito di lei è sicuramente la sua intelligenza, la sua intraprendenza e la sua caparbietà. Ha saputo tener testa a uno degli uomini più potenti e incostanti dell’Europa del XVI secolo. La sua sconfitta non è da considerare una sua mancanza, bensì una condanna costruita ad hoc da uomini arrivisti e dame invidiose.
Perché una donna della modernità dovrebbe potersi riconoscere nel personaggio di Anna Bolena? Perché ha saputo farsi strada da sola. Il padre la voleva solo tra le lenzuola del re, lei ha ambito a di più. Non si è accontentata e non ha voluto essere un ennesimo giocattolo in mano a un uomo, bensì guadagnarsi un titolo e una posizione degna. E non è un po’ come il costruirsi una carriera nel mondo del lavoro di oggi?
Il suo impegno a favore delle donne non si ferma al racconto. Quali sono i progetti che porta avanti? Da quest’estate realizzo un podcast in cui ogni settimana racconto la vita di una donna del passato. “Storie di donne nella Storia” è il mio piccolo gioiello, di cui vado molto fiera perché unisce la mia passione per la storia alla mia volontà di far prendere coscienza alle donne di quanti sforzi sono stati fatti per essere dove siamo e che nulla deve essere dato per scontato.
Cosa la spinge a occuparsi del mondo femminile? Sono una donna cresciuta in una famiglia di donne che con le loro imperfezioni mi hanno mostrato quanto si possa essere forti. Mia nonna è rimasta vedova a cinquant’anni e non ha più avuto e voluto altri uomini nella sua vita. Si è arrangiata in tutto e sapeva mettere al suo posto chiunque importunasse lei o qualcuno a lei caro. Ha sconfitto non uno, ma ben tre tumori: due al seno e uno all’utero. È morta questa primavera. Se l’è portata via il Covid, ma solo perché era rimasta sola in casa di riposo per via del lockdown. Sono sicura che se avessimo potuto continuare a vederla, insieme avremmo sconfitto anche questa. Mia madre ha due sorelle e formano un trio eterogeneo ma unitissimo, una sorta di Tre Moschettieri. Mi hanno insegnato il valore della famiglia, del sacrificio e dell’umiltà. Crescendo con questi esempi ho capito che donna volevo diventare. Sono diversa da loro, perché le includo tutte dentro di me.
Come si difenderebbe dalla critica di femminismo? Secondo lei, oggi, parlare di femminismo è ancora attuale? Penso sia attuale ricordare i princìpi del femminismo. Perché è nato e cosa ha ottenuto. Poi però bisogna prendere atto che il mondo dall’inizio del XX secolo è cambiato e quindi non si può restare ancorati a ideali vecchi di un secolo. Devono evolversi e operare per e con l’attualità. Le suffragette si sono battute per ottenere non solo il voto, bensì il riconoscimento di essere delle cittadine tali e quali agli uomini. Negli anni questo ha portato alla ricerca di riconoscimento di una parità di diritti; una lotta che stiamo ancora combattendo. Non è potendo studiare, lavorare e fare carriera che siamo uguali agli uomini, bensì come possiamo studiare, lavorare e fare carriera. Finché una donna dovrà sforzarsi il doppio (se non il triplo) per ottenere le stesse condizioni di uomo come posizione, stipendio, ruolo, opportunità, allora la lotta femminista non sarà finita.
Helmut Menz è nato e vive a Merano. Ha praticato atletica leggera e a soli 15 anni è stato campione nazionale del lancio del peso. Appassionato di musica, ha fatto parte di un gruppo metal per vent’anni, i “Voices of the day”. Da qualche anno suona la cornamusa scozzese e insieme ad alcuni amici ha fondato la prima scuola di cornamusa scozzese dell’Alto Adige, la South Tyrol Piping School. Al momento ha una collaborazione nel Clanranald Trust for Scotland nel rifacimento di un villaggio medievale scozzese, il Duncarron, come comparsa-stunt performer per film e televisione.
La cosa che mi piace di me.
La mia barba e i miei capelli.
Il mio principale difetto.
L’indecisione.
La persona che ammiro.
Ogni persona che ha il coraggio di inseguire i propri sogni.
Un libro da portare sull’isola deserta.
“The Silmarillion” di J.R.R. Tolkien.
L’occupazione preferita.
Prendere parte a film con il mio Clan.
Il paese dove vorrei vivere.
Scozia.
Il piatto preferito.
Schwarzplentene Riebl.
Non sopporto.
La cattiveria delle persone e gli sfruttatori di ogni genere.
Per un giorno vorrei essere…
Un supereroe che viaggia nel tempo.
Se fossi un animale sarei…
Un alce.
Mi sono sentito orgoglioso quando…
Ho avuto per la prima volta la possibilità di prendere parte a un combattimento durante le riprese di “Rise Of The Clans” per la BBC.
Il capriccio che non mi sono mai tolto.
Regalarmi il whisky dei miei sogni: il Laphroaig 1981.
I miei artisti preferiti.
Musicista Seán Tyrrell, pittore Bob Ross, scrittore Bernard Cornwell.
Abbiamo conosciuto Valeria Opre la scorsa estate, nella nostra rubrica “Altoatesini nel mondo”: nata a Caserta da madre kosovara e papà macedone, oggi ha 24 anni, parla quattro lingue e vive a Vienna, dove si è laureata in Scienze Politiche e, dopo aver trascorso il primo semestre di quest’anno a Singapore, sta per laurearsi in Economia. In questo numero scopriamo qualcosa in più su di lei.
La cosa che mi piace di più di me.
Il mio temperamento.
Il mio principale difetto.
La mia cocciutaggine.
La volta che sono stata più felice.
Rivedere la mia famiglia dopo sei mesi in Asia è stato un momento troppo felice.
Da bambina sognavo di diventare…
Avvocato. Per fortuna mi è passata.
L’errore che non rifarei.
Credere che qualcosa sia irraggiungibile: non lo è.
La persona che invidio di più.
Chi ha sempre saputo veramente chi è.
Il capriccio che non mi sono mai tolta.
Riempire la libreria di grandi classici mai letti, tanto per.
L’ultima volta che ho perso la calma.
A qualsiasi discorso di Trump.
L’ultima volta che ho pianto.
Al discorso di Kamala Harris.
Il luogo dove vorrei vivere.
Vienna e altre città metropolitane caotiche alternate a paesini sperduti in Italia, preferibilmente con molti bar e trattorie.
Il colore che preferisco.
Carribean blue: il colore dell’acqua delle spiagge delle Filippine.
Il fiore che amo.
Non ho preferenze. Se un giorno sarò ricca sogno di avere tantissimi fiori ovunque in casa e con me, sempre.
Il mio piatto preferito.
“Krelan me duqa”: un piatto molto semplice, tipico albanese, che ha sempre cucinato la mia nonna.
Il mio pittore preferito.
Dominique Appia (spesso confuso con Dalì).
Non sopporto…
Le menzogne, e tantomeno chi le dice.
L’ultima volta che ho pregato.
Ero veramente giovane, e disperata. Da quel momento vedo la fede molto lontana da me.
L’oggetto a cui sono più legata.
Un anello “portafortuna”: ovunque vada, mi riporta a casa.
La massima stravaganza della mia vita.
Spero di non averla ancora vissuta!
Il mio primo ricordo.
Dar da mangiare alle pecore con mio nonno, in Germania.
Dove mi vedo tra dieci anni.
Non lo so! E quanta bellezza si nasconde in questo?
Per un giorno vorrei essere…Xi Jimping: potrei finalmente capire i piani della potenza cinese!
Il momento che tanti temevano è arrivato: palestre e piscine chiuse. Ancora una volta gli sportivi e le sportive si trovano a dover fare i conti con un altro stop e a non poter proseguire con gli allenamenti. A raccontare delusione, tristezza, ma anche rabbia, ci sono cinque ragazzi e ragazze di discipline sportive differenti: Sofia Pellegrini, ginnasta, Nicola Balzarini, giocatore di pallanuoto, Chiara Peluso, pallavolista, Alberto Manca, calciatore e Alex Langebner, arrampicatore.
A causa delle nuove misure restrittive per cercare di arginare la pandemia, tanti atleti di tutte le età non possono più praticare il proprio sport. Per molti questo è un grande colpo da digerire: c’è chi si stava preparando per i campionati nazionali, chi stava recuperando proprio adesso con grande fatica la forma fisica a causa del primo lockdown e chi invece aveva appena fatto ritorno in palestra dopo la pausa estiva.
“Nonappena ho saputo che la nostra palestra avrebbe chiuso ho pensato subito alla mia partecipazione ai campionati nazionali di ginnastica artistica di dicembre. Senza l’allenamento sui quattro attrezzi è inimmaginabile poter presentare degli esercizi dignitosi in gara – spiega Sofia Pellegrini –Ero arrabbiata, triste e amareggiata perché dopo mesi di duro lavoro, sudore e costanti sacrifici, sentirsi dire che le palestre avrebbero chiuso un’altra volta mi ha spezzato il cuore”..
Così come la ginnasta, anche per NicolaBalzanini non è stato semplice digerire la notizia: “Per me è una cosa devastante non potermi allenare in piscina, perché a differenza degli sport praticati in palestra o all’aperto, io senz’acqua non posso fare nulla – spiega – il mio è uno sport di contatto, quindi speravo che potessimo almeno continuare con gli allenamenti individuali di nuoto, proprio adesso che stavamo recuperando faticosamente la nostra forma fisica.”
Sport vuol dire anche amicizia, compagnia e condivisione, e questo lo ricorda la pallavolista ChiaraPeluso: “Non potermi più allenare in palestra per me vuol dire che mi mancheranno, oltre al divertimento e al momento di sfogo della giornata, anche gli incontri settimanali con le mie compagne di squadra – spiega – Tra una partita e l’altra era normale scambiare due chiacchiere: questa situazione oltre che portare a un peggioramento della nostra condizione fisica e tecnica, alla lunga si ripercuoterà anche su quella psicologica.”
“Quando mi alleno do il massimo per giocare la domenica – spiega Alberto Manca – ogni settimana aspetto il weekend solo per la mia partita. Non potermi allenare e giocare è una cosa che mi rattrista molto.”
Nonostante la criticità delle circostanze, gli atleti comprendono anche la necessità di queste misure restrittive. D’altra parte però, è molta l’amarezza: “Mi sembra ingiusto tutto questo, perché così viene tolta ai giovani la possibilità di vivere la loro passione, di inseguire i loro sogni, di divertirsi e stare con gli amici. Vengono privati di qualcosa per la quale hanno lavorato per settimane, mesi e anni, mettendoci impegno e dedizione e compiendo molti sacrifici”, sottolinea Sofia. Dopo la prima ondata primaverile, molte sezioni di vari sport si erano organizzate in modo da poter riprendere con gli allenamenti in sicurezza. Disinfettanti, sanificatori, gestione degli spazi, misurazioni delle temperature e molto altre misure sono state adottate, per garantire il diritto allo sport e quello alla salute. “In piscina sono state attuate tantissime misure di sicurezza e degli ottimi protocolli da seguire per evitare i contagi – spiega Nicola – Oggi però questo sembra non essere abbastanza e lo sport viene giorno per giorno messo da parte, insieme a tutti coloro che amano praticarlo. Perché a rimetterci non sono solo i grandi agonisti, ma dietro a ogni sport ci sono anche molti bambini e molte bambine: tanti di loro avevano iniziato da poco e si erano appassionati a una disciplina, altri invece la praticavano già da parecchi anni e stavano crescendo, migliorando. Ognuno di loro ancora una volta dovrà compiere un altro sacrificio e rinunciare al sano movimento.”
Lo sport può essere anche un grande hobby, come l’arrampicata per Alex Langebner: “Da otto anni pratico questa disciplina e sono arrivato al settimo livello. Grazie alla mia passione sono diventato istruttore e ho iniziato a gestire alcuni corsi di arrampicata, facendo così del mio hobby anche il mio lavoro. Oggi, non solo non posso allenarmi, ma in queste condizioni non posso nemmeno guadagnare.”
Gli atleti nonostante ciò non mollano e anche davanti alle difficoltà non si arrendono cercando di trovare delle soluzioni alternative per mantenersi in forma. “I nostri allenatori – spiega Nicola – nei giorni in cui avremmo avuto gli allenamenti, ci mandano degli esercizi da fare a casa o all’aperto individualmente, in modo tale da non farci perdere la forma finora acquisita.”
Così anche il mister di Alberto: “Il nostro allenatore ci ha suggerito di mantenere autonomamente la miglior condizione fisica possibile, sperando in una pronta ripartenza.”
Nel mondo della ginnastica invece, Sofia racconta come le sue allenatrici stiano trovando metodi di allenamento alternativi – a volte anche creativi – per cercare di tenere alto l’umore e per non far perdere la giusta motivazione. “Di certo stare fermi a fare niente e sperare che tutto questo passi in fretta non aiuta affatto. Perciò, anche se non possiamo entrare in palestra, ci manteniamo in forma svolgendo allenamenti alternativi a casa, collegandoci digitalmente con la nostra squadra o andando a fare un workout all’aperto. In questo momento particolare – continua– mi sento di dover ringraziare tutto il team di allenatrici, perché nonostante la situazione negativa, loro ci stanno sempre vicine, si impegnano a trovare nuovi metodi per non farci perdere la voglia, ricordandoci sempre di tenere duro e di non mollare mai.” Anche se il mondo dello sport attualmente è in crisi, di certo sono proprio i ragazzi a insegnare che la passione e la forza di volontà sono la cura migliore in questi tempi. Lo sport è salute, è essenziale.
Nancy Travaglini, conosciuta come la cantante funky soul del gruppo “The Homeless Band”, oltre a essere un’insegnante di musica dirige i cori di due associazioni: Auser e Hands. Ha alle spalle tantissimi concerti, molti dei quali con il chitarrista Luca Pallaver con il quale ha già intrapreso due tour in Sardegna. Laureata presso il conservatorio Monteverdi, spera di concludere presto la specialistica per dedicarsi ad un’altra triennale ed approfondire lo studio del canto pop o jazz.
La cosa che mi piace di più di me stessa. Cerco sempre di sorridere, nonostante tutto.
Il mio principale difetto. Sono sempre stata molto permalosa… ma sto migliorando.
La volta in cui sono stata più felice. Il mio primo giorno di lavoro in una scuola media come insegnante di musica. Uscita da scuola ho capito che è ciò che voglio fare nella vita.
La volta in cui sono stata più infelice. Quando è morto mio papà.
Da bambina sognavo di diventare… Come Whoopi Goldberg nel film “Sister act”. È, ad oggi, ancora uno dei film preferiti.
La persona che invidio di più. Beyoncè. Cioè… che voce!!
La persona che ammiro di più. Tante donne che ho conosciuto e che si fanno in quattro oltre al lavoro e i figli (compresa mia mamma).
Un libro da portare sull’isola deserta. Indubbiamente “Harry Potter”.
L’ultima volta che ho pianto. È successo pochi giorni fa, dopo una lunga serie di bocconi amari mandati giù.
Il paese dove vorrei vivere. Italia e precisamente proprio Bolzano.
Il colore che preferisco. Qualunque sfumatura di blu.
Il mio piatto preferito. Essendo io una buongustaia è difficile indicare un piatto specifico. Mi sbilancio scegliendone due: gli spaghetti alla Sandrona (ricetta di mia mamma Sandra) e la coccoi di cibudda (piatto ogliastrino).
Non sopporto… Quando le persone ti usano senza prestare attenzione ai tuoi sentimenti.
La qualità che preferisco in un uomo. Che sappia cucinare.
La qualità che preferisco in una donna. Quando una donna esce dallo schema della società (o meglio dagli schemi).
La disgrazia più grande. Aver incontrato persone che hanno fatto male a me e alla mia famiglia.
L’oggetto a cui sono più legata. L’orologio.
Mi sono sentita orgogliosa di me stessa quando… Mi sono laureata. Se me lo avessero detto 10 anni fa non ci avrei mai creduto.
Il mio motto. The show must go on!
Il mio primo ricordo… La stanza da letto in cui dormivo con i miei due fratelli.
Dove mi vedo tra dieci anni. Mi vedo come insegnante di musica e direttrice dei miei due cori.
Per un giorno vorrei essere. Un gatto o un cane, per capire quello che provano.
Luisa Bertolini dirige la rivista online “Fillide” che raccoglie saggi e racconti sul tema del comico e dell’umorismo. Ha insegnato per più di quarant’anni storia e filosofia nei licei e all’attività didattica ha sempre affiancato la ricerca filosofica sui temi del kantismo e della critica del linguaggio, scrivendo saggi e traduzioni (Hermann Cohen e Fritz Mauthner). Nel 2002 ha pubblicato per Guerini “Il colore delle cose”, un tema che continua a coltivare per la rivista “Doppiozero”.
La cosa che mi piace di più di me.
L’ostinazione.
Il mio principale difetto.
Non saper raccontare le barzellette.
La volta che sono stata più felice.
Quando ho trovato l’uomo della mia vita.
In famiglia mi chiamano…
Scimmia isterica o maestro zen (più che chiamare, mia figlia mi descrive come…).
L’errore che non rifarei.
Il tempo perso della politica degli anni Settanta.
La persona che invidio di più.
Marilyn Monroe.
La persona che ammiro di più.
L’autore del fumetto “Kelvin & Hobbes”, Bill Watterson.
Un libro da portare sull’isola deserta.
“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda.
Il capriccio che non mi sono mai tolta.
Mettere dei tacchi da 12.
L’ultima volta che ho perso la calma.
Nell’ultimo collegio docenti, come in tutti quelli precedenti.
Mi sono sentita orgogliosa quando…
Mia figlia ha vinto il premio Calvino.
La mia occupazione preferita.
Scrivere di comico e di colori.
Il luogo dove vorrei vivere.
Una casa che dà sul lago.
Il colore che preferisco.
Il giallo di cadmio.
Il fiore che amo.
Il girasole.
Il mio piatto preferito.
La zuppa di pesce.
Il mio musicista preferito.
Ryūichi Sakamoto.
Il mio pittore preferito.
Felice Casorati.
Dico bugie solo…
Purtroppo non ne sono capace, di dire bugie.
La mia paura più grande.
Perdere la vista.
Il giocattolo che ho amato di più.
L’orso.
L’oggetto a cui sono più legata.
L’orso di peluche, quello.
La massima stravaganza della mia vita.
I miei matrimoni.
Il mio primo ricordo.
Una scala che scricchiola in una casa di un medico tedesco che aveva una libreria di libri antichi e che assomigliava a Freud.
Luca Ghinato è un musicista, compositore, polistrumentista e insegnante di Merano. Suona per strada la chitarra acustica e l’irish bouzouki, proponendo un repertorio di musica celtica, folk e medieval, e a volte le sue esibizioni sono impreziosite dalla presenza di sua moglie alla voce in duo acustico. Collabora con diversi insegnanti yoga per eventi speciali, nei quali accompagno dal vivo le pratiche, ed esegue trattamenti sonori con le campane tibetane.
La cosa che mi piace di me.
La tenacia e la determinazione.
Il mio principale difetto.
Cercare di andare d’accordo con tutti.
La volta che sono stato più felice.
Quando sono nati i miei figli e il giorno del mio matrimonio.
La persona che ammiro.
Mia moglie Roberta.
Un libro da portare sull’isola deserta.
“Nelle terre selvagge”.
Il piatto preferito.
La zuppa di pesce.
Non sopporto…
Le frasi fatte, i preconcetti e I luoghi comuni. Perchè limitare la realtà? Tutto può essere.
Per un giorno vorrei essere…
Uno scienziato con una macchina del tempo.
La mia paura maggiore.
Non essere più in grado di sognare, desiderare e amare.
Se fossi un animale sarei…
Non un animale ma un ominide: l’uomo di Neanderthal, ci assomiglio parecchio.
Il mio motto.
Crederci sempre, non arrendersi mai.
Il giocattolo che ho amato di più…
Il mio orsacchiotto Pippo che è ancora intero, anche se con un bottone al posto dell’occhio.
I miei artisti preferiti.
Queen, Iron Maiden, J.S.Bach, Steve Baughmann, Joe Satriani.
La qualità che preferisco in una donna.
Positività, intelligenza, profondità.
…e in un uomo.
Umiltà, profondità, lealtà.
Dove mi vedo fra dieci anni…
Con mia moglie su un furgone camperizzato, in giro per l’Europa a fare I musicisti di strada e visitare nuovi e interessanti luoghi. Considerando i figli, credo proprio che dovremo aspettare un po’…
Arta Ngucaj nasce a Valona (Albania) nel 1978, ma vive e lavora a Bolzano dal 1993. Si è laureata in Pittura all’Accademia delle Belle Arti di Bologna nel 2006. È un’artista poliedrica che espone in Italia e all’estero in mostre personali e collettive, utilizzando diversi media espressivi che spaziano tra pittura, performance, fotografia, installazione e video. Dal 2007, come abbiamo visto nello scorso numero, lavora in coppia insieme all’artista Arben Beqiraj sotto il nome d’arte Scaf.Scaf.
La cosa che mi piace di più di me.
Creatività e determinazione.
Il mio principale difetto.
La schiettezza.
La volta che sono stata più felice.
Lo sono tutti i giorni, sapendo in salute tutte le persone a me care.
La volta che sono stata più infelice.
Quando ho perso amici o persone a me care.
Da bambina sognavo di diventare…
Artista.
L’errore che non rifarei.
Li rifarei tutti, visto che ne ho sempre tratto degli insegnamenti.
La persona che invidio di più.
Non invidio.
La persona che ammiro di più.
I miei genitori.
Un libro da portare sull’isola deserta.
Quelli di mio padre.
Il capriccio che non mi sono mai tolta.
Lanciare una linea di abbigliamento.
L’ultima volta che ho perso la calma.
Purtroppo ogni volta che mi vengono attribuite cose non dette o fatte.
La mia occupazione preferita.
Essere d’aiuto al prossimo.
Il luogo dove vorrei vivere.
Ovunque c’è la mia famiglia.
Il colore che preferisco.
Rosso.
Il fiore che amo.
Le rose profumate.
Il mio piatto preferito.
Pesce.
Il mio musicista preferito.
Fabrizio de André.
Il mio pittore preferito.
Edward Munch.
Del mio aspetto non mi piace.
La statura.
Non sopporto…
La falsità e l’ipocrisia.
Dico bugie solo…
Preferisco non dirle. Per dirle servirebbe una buona memoria.
La mia paura più grande.
Quando la morte busserà alla porta della mia famiglia.