Martedì 10 settembre alle ore 17.30 presso la Biblioteca Claudia Augusta di Via Cappuccini a Bolzano avrà luogo la presentazione aperta al pubblico (ingresso libero e gratuito) del nuovo volume edito da alphabeta, dedicato all’universo dell’immigrazione in provincia di Bolzano. La presentazione del libro vedrà la partecipazione del curatore Adel Jabbar in dialogo con Giorgio Mezzalira (storico).
Da circa tre decadi l’Alto Adige/Südtirol è divenuto meta, non solo area di transito, di movimenti migratori e luogo di residenza per persone provenienti da numerosi Paesi del mondo. Enti locali, associazioni, istituti di ricerca e soggetti privati si sono attivati in diversi ambiti non solo per dare risposte ai bisogni primari di una particolare fascia di popolazione in continuo aumento, ma per individuare percorsi finalizzati all’inserimento dei nuovi cittadini nel tessuto sociale e nella vita quotidiana. Sono maturate così interessanti riflessioni volte a mettere a fuoco da un lato le dinamiche migratorie in quanto tali, dall’altro le trasformazioni determinate dal loro impatto sugli equilibri di una comunità autoctona che ha di per sé marcati connotati storici e culturali. Questo volume a più voci offre uno sguardo interdisciplinare e multiprospettico, e illustra un ampio ventaglio di approcci e interventi che hanno caratterizzato la gestione dell’immigrazione sul territorio provinciale, indagando la situazione attuale ed evidenziando le problematiche che rimangono fatalmente aperte: dal quadro normativo alle politiche d’inclusione o di malcelata discriminazione, dai processi partecipativi ai problemi sanitari e abitativi, dal mondo del lavoro e della scuola a luoghi e iniziative interculturali, fino alle sfide poste dalla seconda o terza generazione di cittadini con background migratorio. Tra modelli innovativi di integrazione e puri “effetti tampone” prodotti dalle perduranti logiche dell’emergenza – che tuttora guidano l’Europa, i governi nazionali e, a caduta, le amministrazioni locali – il “sistema Alto Adige”, fondato di per sé sulla convivenza etnica, mostra alcune aree di eccellenza, ma anche difficoltà e ritardi che riflettono l’assenza di una vera strategia davanti a un fenomeno globale del nostro tempo.
Con contributi di: Ana Agolli, Gianni Bertoncello, Licia Casagrande, Giusy Diquattro, Salvatore Falcomatà, Luigi Gallo, Marina Gousia, Barbara Gramegna, Mari Jensen-Carlén, Roberta Medda-Windischer, Johanna Mitterhofer, Rita Moreschini, Tanja Nienstedt, Matthias Oberbacher, Sophia Schönthaler, Hilary Solly, Verena Wisthaler, Giorgia Zogu.
Il rapper bolzanino torna con un nuovo album “Roba Vecchia EP” e ci racconta un po’ di sé. Come hai intrapreso la carriera da rapper a Bolzano?
È nato tutto un pomeriggio estivo del 2007. Ero di ritorno verso casa dopo una giornata al campetto di basket, ho visto un gruppetto di ragazzi sotto casa mia che facevano freestyle e fino ad allora non avevo mai conosciuto altri coetanei con il mio stesso interesse. Se dovessi dare una precisa collocazione temporale dell’inizio della mia carriera, quel pomeriggio estivo nel quartiere Don Bosco è stato il giorno 1 di Nardo Dee.
Chi o cosa ti ispira a fare musica e scrivere canzoni?
Una volta in un brano ho scritto: “Il rap è musica per disagiati fatta da poeti mezzi pazzi”. Ovviamente è il mio punto di vista, però penso che saper fare liriche, sfogarsi e creare allo stesso tempo del buon rap, sia un toccasana per la mente. Nel mio percorso artistico ho trovato ispirazione ascoltando dischi di rapper come Bassi Maestro, Zampa e Ghemon.
Questo nuovo album di cosa tratta?
È un Album in collaborazione con Dj fede, storico produttore e dj di rap italiano, composto da 4 tracce dal suono inconfondibilmente “classico”, con ritornelli e strofe, senza autotune per intenderci. Ogni canzone all’interno dell’Ep ha una sua storia e un suo preciso messaggio. Le atmosfere variano di brano in brano, così come le collaborazioni, che sono molte, ma indispensabili per confezionare un prodotto unico.
Il titolo “Roba Vecchia EP” da cosa è nato?
Il titolo è una provocazione, ma allo stesso tempo una meravigliosa etichetta sulla musica che produciamo. Per certi versi viviamo in un momento storico dove anche la musica è “fast-food”. Se un brano non diventa un tormentone, può durare anche solo un giorno. Gli album tendenzialmente non si fanno più, perché una volta usciti hanno una data di scadenza molto corta. “Roba Vecchia Ep” è decisamente contro corrente, essendo un disco che non è stato fatto per entrare in questa logica, ma anzi, la sua realizzazione è stata dettata solo dal piacere di fare musica come piace a noi.
Di questo album c’è una canzone alla quale sei particolarmente legato?
Ovviamente tutte, ma se devo sceglierne una in particolare scelgo “capo di sto gioco” perché finalmente posso dire di aver fatto una canzone con il mio rapper preferito di sempre.
Qual è un posto dove ti piacerebbe esibirti?
Mi piacerebbe esibirmi in piazza Tribunale, dove anni fa si teneva “Playground”, il festival del rap regionale per eccellenza. Vorrei vedere un festival simile, ma nuovo allo stesso tempo; organizzato da giovani con entusiasmo. Un festival dove i locals che si esibiscono parlino solo attraverso la propria musica, il proprio talento e soprattutto che portino avanti i valori della cultura hip-hop.
Poco più di venti anni fa moriva Aldo Porcaro. Artista, anima inquieta, folle e irregolare: Porcaro attraversò la composta Bolzano, talvolta disturbando. Insieme a chi l’ha conosciuto, lo ricordiamo in alcuni frammenti di vita.
“Vi saluta e vi attende nello studio più bello Aldo Porcaro, fu Nunzio, pittore parigino” così recita il necrologio di Aldo Porcaro sull’Alto Adige del 31 ottobre 1991. Aldo Porcaro: molti bolzanini lo ricorderanno, forse. O perlomeno ricorderanno il suo nome, scritto in calce alle sue frasi provocatorie, che lasciava sui muri della città: corso Libertà e Piazza Vittoria, ma anche il centro, via Argentieri e via Leonardo da Vinci. Aldo Porcaro è stato un artista, un’anima inquieta, un folle e un irregolare, che tra gli anni ’70 e ’90 attraversò, talvolta disturbando, Bolzano. Ne abbiamo parlato con Lukas Zanotti, anch’egli artista. “Ci siamo conosciuti in maniera strana: io marinavo la scuola andare in Tessmann a leggere libri di arte (sic!). La biblioteca apriva alle nove e allora mi fermavo sul Talvera. Quel giorno ero seduto su una panchina e stavo guardando un catalogo di Paul Klee. Lui mi ha visto, prima è passato, poi si è girato, è venuto a sedersi e abbiamo comunicato a parlare di arte”.
Che tipo era? Era alto, un bell’uomo, il tipico meridionale, con profondi occhi neri. Dimostrava meno anni”
E poi? Era stato a Parigi e si sentiva francese. Ci incontravamo spesso sulle passeggiate, poi mi invitava al bar a colazione-dai, offro io, insisteva- ma alla fine però toccava sempre a me pagare”- racconta Zanotti con una punta d’affetto nel sorriso.
Che faceva Aldo allora? Era verso la fine degli anni ’80. Non so se avesse una casa, da quello che so viveva sotto il ponte, o si faceva ospitare magari da qualche donna. Aveva sempre con sé un taccuino/cartellina, si metteva a disegnare, dipingere, faceva acquerelli, acrilici. Diceva che gli sarebbe piaciuto avere un posto, ma non tanto, perché era convinto che sarebbe ripartito presto per Parigi. Ci chiamava “bolzanesi”, amava storpiare il nome. Ci considerava tutti borghesi venduti, mentre lui si sentiva francese.
E gli accessi d’ira? Andava tutto bene finché non si parlava di politica: li finiva su un binario tutto suo e si scaldava. Si sentiva una vittima, che tutti ce l’avevano con lui, anche nella realtà altoatesina, che allora era molto chiusa e da cui si sentiva un escluso. Faceva discorsi farneticanti e cominciava a urlare.. allora era il momento di pagare e andarsene.
Com’era la sua arte? Gli piacevano la grafica e le litografie. Partiva dal figurativo e poi lo scomponeva in frammenti, per arrivare all’astratto, forse ispirato dalle vetrate gotiche delle chiese francesi. I suoi lavori più maturi sembrano mosaici.
E a proposito della sua arte, Arnold Tribus, direttore della Neue Südtiroler Tageszeitung ed esperto d’arte, ci ha raccontato “Aldo Porcaro era una di quelle personalità artistiche con una testa tutta sua, credeva di potercela fare senza una galleria, e in effetti per un certo periodo andò bene. Negli anni ’70 era attivo sulla scena artistica, insieme ad altri colleghi come Florio Vecellio. Le opere nate al suo ritorno dalla Somalia ebbero successo, e non c’era collezionista a Bolzano che non avesse un Porcaro in casa. Poi qualcosa si ruppe e i suoi lavori non funzionavano più come prima”. E le scritte sui muri? “Per lui erano arte”- precisa Tribus” le considerava un’evoluzione del suo lavoro. Con le scritte e le provocazioni voleva scuotere quella società bolzanina che gli aveva voltato le spalle” così Tribus. Artista, imbrattatore di muri, voce sguaiata e nota stonata tra le vie ordinate di una città composta e ingessata: Aldo Porcaro è stato questo e molto di più. La sua presenza poetica e disturbante saprebbe scapigliare bene molti bolzanini di oggi.
ALDO PORCARO
La biografia di Aldo Porcaro somiglia a quella di tanti artisti “maledetti”: dopo la scuola commerciale a Bolzano lavora per una banca italiana a Mogadiscio, dove conosce la sua prima moglie Asli. La pittura e il disegno sono la sua vita e, tornato dall’Africa a Bolzano, negli anni ‘70 riesce a vendere bene i suoi dipinti “africani” dai colori accesi. Porcaro ha una vita sentimentale vivace, è un personaggio charmant. All’inizio degli anni ‘80 trascorre un anno a Parigi, ma, costretto a tornare per motivi economici, non troverà mai una sua dimensione. Instabile mentalmente, negli ultimi anni di vita vive vagabondando; muore all’ospedale di Bolzano per una malattia cardiaca il 30 ottobre 1991. La sua storia è stata raccolta da Dietrich Reinstadler nel volumetto “Aldo Porcaro fu Nunzio Pittore Parigino”, Matzneller Editions.
Da quasi mezzo secolo, Othmar Seehauser ci racconta l’Alto Adige con le sue fotografie. La mostra “Kein schöner Land/Immagini”al Kunstforum di Egna presenta una selezione degli scatti del noto fotografo altoatesino, tra la bellezza sfacciata e le tante contraddizioni della nostra provincia.
Da quasi mezzo secolo, Othmar Seehauser ci racconta l’Alto Adige con le sue fotografie. La mostra “Kein schöner Land/Immagini”al Kunstforum di Egna presenta una selezione degli scatti del noto fotografo altoatesino, tra la bellezza sfacciata e le tante contraddizioni della nostra provincia. L’impresa non era semplice: selezionare poche decine di fotografie tra oltre un milione – tante sono quelle che compongono lo sconfinato archivio fotografico di Othmar Seehauser. Nato nel 1955 a Nova Levante, Seehauser può considerarsi tra i più importanti testimoni visivi della nostra provincia. Dagli anni ’80 ha lavorato per i media locali e come autore di libri illustrati, restituendo in immagini spettacolari la natura, le persone, i fatti e i monumenti del Sudtirolo. Seehauser ha l’occhio, l’energia e la “fame” di storie del fotoreporter fuoriclasse. Non a caso ha iniziato la sua carriera realizzando servizi dall’America latina per la stampa nazionale e internazionale, come “Der Spiegel” Tra i reportage per la prestigiosa rivista tedesca ricordiamo in particolare quello sugli effetti del disboscamento in Amazzonia.
Anche l’immagine scelta per l’invito della mostra a Egna è un paesaggio avvolto da nebbie invernali, un’atmosfera i cui non sfigurerebbe il Bates Hotel del film Psycho, ma che in realtà ritrae uno scorcio di Renon verso Santa Maria Assunta, luogo storico della villeggiatura della ricca borghesia altoatesina. Coperti dalle nebbie, anche i posti noti appaino sotto una luce diversa, insolita. Un po’ quello che provano a fare le immagini di Seehauser: svelare quei tratti inaspettati della nostra provincia, mostrarne la bellezza, ma anche i contrasti e le contraddizioni che fanno riflettere, pensare, a volte anche sorridere. è un Alto Adige “smascherato”, quello della mostra, “Il colore abbellisce, distrae: per questo ho scelto il bianco e nero per la maggior parte delle fotografie esposte”, ci racconta Seehauser. Il percorso non segue uno svolgimento cronologico; le immagini sono raccolte in gruppi di tre, quattro, in base ai temi e ai momenti che raccontano. Sono abbinamenti che non gridano, ma suggeriscono: sta a noi fermarci ad ascoltare, a guardare. Ecco allora che la fotografia dei boschi devastati dalla tempesta Vaia è accostata alla possente bellezza del paesaggio d’alta quota del gruppo Tessa; il venditore ambulante tra le vie di Bolzano all’arrivo dei rifugiati albanesi a Monguelfo, nel 1991. Ma c’è anche l’Alto Adige tradizionale e un po’ borioso, di uomini nei tipici Lederhosen in un momento di festoso cameratismo e quello delle architetture ipermoderne del museo Corones di Zaha Hadid e di Museion. C’è la vendita all’asta dei buoi a san Lorenzo e il trasporto del fieno su filo, sotto il Catinaccio – “che ormai non esiste più” racconta Seehauser, “perché quei campi non sono più coltivati”. Quando gli chiediamo quali sono i cambiamenti che negli anni ha visto scorrere sotto i suoi occhi, Seehauser invita a puntare il nostro sguardo sul turismo e la smania di nuove e più grandi costruzioni, che hanno sconvolto paesi e paesaggio. “Anche nelle valli che si dicono più tradizionali, come la Val Sarentino e la Val Passiria, si fatica a trovare un maso storico – si è preferito abbatterli per ricostruire edifici nuovi” constata Seehauser. Interessante contraddizione, in una terra che spesso ama identificare la tradizione con la cultura. E che vale anche per i monumenti naturali: “mi capita che solo quando vedono l’immagine del pino maestoso stampata nei miei libri le persone si rendono conto di quanto sia bello e prezioso – eppure lo hanno sotto gli occhi ogni giorno, nel prato di casa”. In questo senso, non è un caso se il titolo scelto per la mostra, “Kein schöner Land” si riferisce ad un antico canto popolare tedesco che evoca armonia, natura e pace, a dispetto della prima impressione. La mostra è visitabile da martedì a sabato, ore 10-12 e 16-18, Kunstforum Unterland, Portici 26, Egna. Ingresso libero, green pass obbligatorio. Fino al 18 dicembre.
Il termine tecnico per descriverlo è “weird western”, che in italiano di potrebbe tradurre con “Fantawestern”, un filone letterario che mescola western e fantasy, horror o fantascienza. Un genere che lo scrittore bolzanino Andrea Zanotti ha utilizzato per il suo ultimo libro, “Inno cannibale” (edizioni Dark Zone): quasi trecento pagine fresche di tipografia che sembrano destinate a diventare un cult fra gli appassionati del genere. Zanotti non è nuovo a questo tipo di scrittura: ha sfruttato le atmosfere western con “Voodoo”, e il fantasy – horror sembra quasi un filo conduttore che unisce le sue tante opere (“Dracophobia” in primis, giusto per fare un esempio). Ma con “Inno cannibale” Andrea Zanotti compie un passo in più, e nel narrare una storia avvincente regala ai suoi lettori uno spaccato degli Stati Uniti in un periodo storico poco conosciuto, o comunque poco studiato da questa parte dell’Oceano: quello dopo la guerra di Secessione. L’autore snocciola nomi di personaggi che sono entrati nell’immaginario collettivo, da Toro Seduto al generale Custer, dal presidente Johnson a Geronimo, li fa interagire e ambienta dunque la trama del libro in una precisa dimensione spazio temporale, descrivendo in sottofondo i fatti storici realmente accaduti. E la trama è pane per i denti degli appassionati del genere. Black Mamba, donna-medicina a capo della tribù dei Senza-lingua, ha convocato il cerchio degli Elders, gli anziani capi di tutte le genti pellerossa. Nuovi alleati sono disposti ad aiutare le tribù contro i visi pallidi, è sufficiente unirle per innalzare l’inno cannibale, anche se l’intero ordine del creato verrà sconvolto dal rito, dato che Black Mamba vuole risveglierà Yužáža, “Colui che sgozza gli Dei”. Ma le grandi manovre dei selvaggi non passano inosservate al colonnello Souther, gerente della Clinica psichiatrica federale nr. 51. Sta a lui risolvere il problema dei “musi rossi”. Ma chi spedire in Sierra Nevada, nel covo della sciamana? La scelta cade su Marc Trementina De La Cruz, il suo compare Jo Occhiomoscio e il resto della loro improbabile banda di antieroi. Solo serpi di quella risma potranno resistere a ciò che li attende in quelle lande infestate: Wendigo, Skinwalker, Si-Te-Caha e tutte le leggende da incubo dei nativi, riportate in vita dalle malie di Black Mamba.
Inserzione pubblicitaria – Al Puccini di Merano lo Stabile presenta 10 spettacoli. Anna Foglietta e Paola Minaccioni, Natalino Balasso, Elio, Marco Paolini, Leo Gullotta E Silvio Orlando Tra I Protagonisti Della Nuova Stagione Del Teatro Stabile a Merano.
30 titoli in sei cartelloni indipendenti per un totale di 112 alzate di sipario in tutta la provincia. A Merano, Bressanone, Brunico e Vipiteno il Teatro Stabile presenta una stagione ad ampio raggio, sia dal punto di vista della varietà di sguardi artistici, sia per il numero di spettacoli che vengono presentati nel corso dell’anno teatrale 21/22.
Dieci gli spettacoli pensati per Merano, che si svolgeranno tutti al Puccini alle 20.30.
Ad aprire la stagione il 23 novembre è “L’attesa” con Anna Foglietta e Paola Minaccioni. Il testo di Remo Binosi con la regia di Michela Cescon, ha avuto modo di calcare il palco già quest’estate all’Arena TSB sui Prati del Talvera in versione di lettura scenica durante la rassegna FUORI! e ora è pronto per i palcoscenici.
“L’attesa” racconta del confronto, prima astioso, poi complice, infine conflittuale, di due donne. Cornelia, nobile veneta promessa in sposa al duca di Francia, è segregata in campagna dalla famiglia perché resa gravida da un altro uomo durante una festa di Carnevale. Sola, in una stanza buia, può contare soltanto sui servizi di una vecchia nutrice, finché non le viene affiancata Rosa, donna popolana e tuttofare…
Il 27 novembre Elio, funambolico musicista, indiscusso leader della band “Elio e le storie tese” sarà l’interprete dello spettacolo “Il Grigio” la più importante opera di prosa scritta da Giorgio Gaber e Sandro Luporini. “Il Grigio” racconta di un uomo di cinquant’anni in crisi da una vita e di una casa in campagna dove vorrebbe starsene in pace a riflettere sui propri problemi esistenziali. Ma a disturbarlo arriva un misterioso topo, il Grigio per l’appunto…
Il 5 dicembre giunge a Merano una delle nuove produzioni del Teatro Stabile: “Balasso fa Ruzante (Amori disperati in tempo di guerre), che nasce dalla riscrittura di Balasso dell’opera di Angelo Beolco detto il Ruzante. Ad interpretare questa nuova commedia troviamo lo stesso Balasso affiancato da Andrea Collavino e Marta Cortellazzo Wiel. A dirigerli Marta Dalla Via, raffinata caratterista e profonda conoscitrice delle corde espressive di Balasso/ Ruzante.
Il 12 dicembre sul palco del Puccini irromperà “il Misantropo” di Molière, nella nuova versione diretta e interpretata da Fabrizio Falco, assieme a un giovane compagnia di attori del Teatro Biondo di Palermo. Il 19 dicembre sarà il momento della danza, che vede protagonista la Compagnia Artemis fondata da Monica Casadei alle prese con “Circus”, uno spettacolo arricchito da sorprendenti abilità fisiche e da un immaginario che riporta il pubblico alla magia del circo e dei suoi abitanti.
Il nuovo anno di teatro si apre il 21 gennaio nel segno di Marco Paolini e del suo “Teatro fra parentesi. Le mie storie per questo tempo”, un recital che nasce dalla necessità di immaginare un ruolo per lo spettacolo dal vivo che sia a tutto campo. Uno spettacolo fondato su un canovaccio autobiografico, che cuce insieme storie vecchie e nuove, impreziosite dalle canzoni e dalle musiche di Saba Anglana e Lorenzo Monguzzi.
Il 18 febbraio un travolgente Leo Gullotta veste i panni di “Bartleby lo scrivano” nello spettacolo ispirato al racconto di Melville. Bartleby è uno scrivano ligio e cordiale impiegato in un grande studio di avvocati a Wall Street, amato e apprezzato da tutti. Un giorno, improvvisamente Bartleby decide di rispondere a qualsiasi richiesta con una frase che è rimasta nella storia: «Avrei preferenza di no». Il silenzio inspiegabile di Bartleby ci turba e ci accompagna da più di un secolo.
Il 26 febbraio Silvio Orlando porta in scena “La vita davanti a sé”, spettacolo ispirato al romanzo di Romain Gary. Un autentico capolavoro “per tutti” dove la commozione e il divertimento si inseguono senza respiro. Accompagnato da quattro musicisti, Orlando conduce il pubblico – con leggerezza e poesia – alla scoperta delle vite sgangherate del piccolo Momò e di Madame Rosa.
Graffiante e pungente è la riscrittura di Andrea Pennacchi del capolavoro shakespeariano “La bisbetica domata” che trasla le vicende dei due amanti Petruccio e Caterina dalla Padova di fine Cinquecento a quella degli anni ’90 del Novecento. Anna Tringali, Giacomo Rossetto e Massimiliano Mastroeni interpretano la commedia che verrà presentata il 5 marzo al Puccini.
La stagione si conclude il 23 aprile con il secondo capitolo della trilogia In nome del padre, della madre, dei figli di Mario Perrotta. Autore, attore sensibile e duttile, Perrotta sposta la lente di ingrandimento sulla figura “Della Madre”. Ad accompagnarlo nella sua indagine teatrale sulla figura materna troviamo lo psicanalista Massimo Recalcati e Paola Roscioli, attrice che lo affiancherà in scena.
I BIGLIETTI
Le normative relative al riempimento delle sale sono in continua evoluzione e anche per questa stagione il TSB vende i biglietti singoli per gli spettacoli in cartellone. In accordo con i principali enti teatrali della città (VBB, Fondazione Orchestra Haydn e Teatro Cristallo), il TSB ha adottato una politica di prezzi semplificata che accentua ulteriormente l’accessibilità da parte di un vasto pubblico: le fasce di prezzo sono solo tre: 15 euro biglietto intero, 10 euro ridotto, 6 euro Under 26. Agli abbonati 2019/2020 riserva il prezzo ridotto di 10 euro. A Merano i biglietti sono in vendita presso le casse del Teatro Puccini il 25 ottobre dalle 17.30 alle 19.30. Nelle date di spettacolo a partire da un’ora prima della rappresentazione I biglietti per tutti gli spettacoli sono inoltre in vendita alle casse del Teatro Comunale di Bolzano, sul sito www.teatro-bolzano.it e si possono acquistare inoltre scaricando l’APP Teatro Stabile di Bolzano (iOs e Android). Coloro che si assicureranno entro il 5 dicembre i biglietti per i 10 spettacoli avranno diritto a un prezzo scontato pari a 80 euro.
“Anche i cani feroci ridono (quando nevica)” di Maxi Obexer e tradotto e curato da Cristina Vezzaro, è l’ultimo romanzo uscito per Edizioni Alphabeta Verlag di Merano nella collana Travenbooks. Un volume che esprime nel profondo lo spirito dell’editore e ne coglie la vocazione più autentica, di “territorio di frontiera”: un ponte (a volte molto complesso) e un incrocio tra lingue e culture differenti. Ispirato alle storie vere delle donne raccontate dal progetto tedesco “Women in Exile”, l’autrice descrive, in forma letteraria, le vicende di una donna nigeriana che fugge dal suo paese, alla ricerca di un futuro diverso. Obexer prova a restituire una sorta di memoria collettiva delle tantissime ragazze che condividono la stessa sorte, e dà a tutte loro il volto di Helen, protagonista del racconto. Una narrazione teatrale per raccontare un fenomeno che sta segnando drammaticamente la nostra storia, quello delle migrazioni attraverso il Mediterraneo. L’autore lancia un appello alla coscienza individuale, che “deve andare oltre le ragioni di Stato, oltre la narrazione mediatica”, e fa luce sul reale fatto che spesso tendiamo a dimenticare: che ciascuno tra le tante migliaia di migranti morti (14.768 ufficialmente, tra il 2016 e il 2018) è un essere umano e porta con sé la sua storia. La trama “Anche i cani feroci ridono (quando nevica)” narra di Helen, una giovane nigeriana che decide di migrare in Europa non in fuga da conflitti o persecuzioni, ma per una legittima aspirazione a una vita migliore. Il lungo viaggio attraverso il continente africano si rivela ben presto un incubo: ostaggio di spietati trafficanti di esseri umani, si trova a sottostare a un’inenarrabile serie di violenze fisiche e psicologiche, a continue estorsioni di denaro, a terrore e umiliazioni. In questa lenta e inesorabile discesa agli inferi, in cui la stessa sopravvivenza è perennemente appesa a un filo, anche la fiducia nei compagni di destino finisce per vacillare, persino quando hanno le parvenze di angeli custodi. Sempre più prostrata e rassegnata, Helen resiste grazie a un mondo parallelo che ricrea nei contatti epistolari con la famiglia, immaginando uno sguardo esterno che le permette di prendere le distanze da ciò che è costretta a subire. Tra attese spossanti e amare disillusioni, la ragazza riesce infine ad approdare in Europa, fiduciosa di trovare accoglienza e pieno riconoscimento di una propria identità e dignità. Ma nuove e impensabili traversie la aspettano. Così Cristina Vezzaro, traduttrice e curatrice del romanzo, riflette sul messaggio di Obexer nella sua Postfazione al volume. Obexer pone in evidenza, attraverso il suo personaggio, una società condizionata dai media alla continua ricerca di pericolosi sensazionalismi che instillano paura e restituiscono visioni spesso fuorvianti del fenomeno migratorio. La minaccia dell’“invasione”, sia in chiave economica sia culturale e religiosa, è il frutto di una scorretta comunicazione e di un dilagante bisogno di difesa che si trasforma spesso in indifferenza, quando non in cinismo. E a pagare le spese più pesanti sono, anche in questo caso, le donne. L’autrice contrappone, grazie allo spirito visionario di Helen, l’importanza della comprensione reciproca e del sentirsi profondamente esseri umani e comunità, uniti da un destino comune. La traduzione Nella postfazione al libro “Anche i cani feroci ridono (quando nevica)”, Cristina Vezzaro riflette sulla traduzione del romanzo, e ribadisce l’importanza dell’interpretazione del messaggio. Nell’opera di Maxi Obexer, la lingua si fa mezzo per esprimere un impegno, guidato da ideali umanitari e contrario ai particolarismi nazionalistici. La stessa Vezzaro afferma: “In questa chiave, quindi, va interpretato il lavoro di traduzione delle sue opere: nel caso dell’italiano, una trasposizione che è anche e necessariamente “ritorno”, proprio per le origini italiane da cui Obexer ha preso le mosse per inserirsi nel contesto europeo che più anima le sue corde di artista”. L’interazione tra lingua originale e traduzione richiede quindi di “andare oltre”, quasi una sola lingua non potesse bastare a contenere tutto ciò che l’autrice desidera esprimere.
L’AUTRICE E LA TRADUTTRICE
Maxi Obexer (1970) è nata a Bressanone e vive a Berlino. Drammaturga e saggista, è stata visiting professor presso la Georgetown University di Washington e il Dartmouth College (NH), quindi docente all’Università delle Arti di Berlino e al Deutsches Literaturinstitut di Lipsia. Vincitrice del Premio Robert Geisendörfer (2016) per i suoi saggi politici e del Potsdamer Theaterpreis per la piéce Gehen und Bleiben (2017), nel 2014 ha fondato il NIDS (Neues Institut für dramatisches Schreiben). Il suo precedente romanzo pubblicato in italiano, “La prima estate dell’Europa” (alpha- beta, 2020), è stato finalista al Premio Bachmann (2017). Cristina Vezzaro (Bolzano, 1972) ha studiato Traduzione all’Università di Ginevra. Ha iniziato a occuparsi di traduzione editoriale nel 1997, collaborando con la rivista “Internazionale”. Dal 2005 si dedica alla traduzione di narrativa, poesia e saggistica. Attualmente è dottoranda in Translation Studies all’Università di Gent in Belgio e si occupa in particolare di traduzione dell’ironia e trasposizione della multiculturalità.
“Il surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone in quell’armadio in cui si voleva prendere una camicia” – così spiegava la celebre artista Frida Kahlo l’essenza del surrealismo, uno dei movimenti artistici e letterari più vivaci del novecento. Nella mostra dell’artista Alexander Dellantonio, che inaugura sabato otto settembre al Kunstforum Unterland di Egna (visibile fino al 18.9), non troveremo bestie feroci, ma sicuramente molte magiche sorprese. “Surrealist Escapades”, vie di fuga surrealiste, è il titolo dell’esposizione, che presenta cento collage in bianco e nero, di cui molti inediti, realizzati dall’artista negli ultimi tre anni. Bolzanino di nascita, classe 1986, dopo il liceo artistico Dellantonio ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze e ha vissuto a Berlino, esponendo le sue opere in mostre personali e collettive in Germania, Norvegia e Italia. Quest’anno ha fatto ritorno in Alto Adige. “Portare alla luce l’anarchia dei sentimenti e dei sogni, sulla linea sottile tra desiderio e realtà, regolata attraverso l’arte dell’assemblaggio.”- questa l’idea che Dellantonio ha del surrealismo. La sua ricerca è originale e insolita perchè punta l’attenzione sul surrealismo cèco, che solo recentemente si sta guadagnando considerazione nelle università americane e in Germania. Con passione e spirito da archeologo Dellantonio ha scavato nelle profondità delle opere di artisti e artiste come Toyen, Jindrich Styrski e Karel Teige, riportandone a galla visioni, tecniche e soprattutto quelle sottili strategie di fuga dalla realtà tipiche di tanta arte e lettura cèca. In questo senso, le opere di Dellantonio emanano un’eleganza dal fascino storico e sono capaci di ammaliare e inquietare. Ne abbiamo parlato con lui, inziando dal ritorno a Bolzano.
Come è stato il ritorno in Alto Adige dopo gli anni a Berlino? Berlino è sexy ma povera! Dopo tanti anni, mi mancavano le montagne e il sole dell’Alto Adige. E per assurdo credo di trovare qui maggiori possibilità di proporre il mio lavoro artistico.
Come nascono le “vie di fuga surrealiste” che danno il titolo alla mostra “Surrealist Escapades”? Il mio lavoro ha spesso avuto una connotazione politica e impegnata. Le opere nella mostra a Egna guardano agli artisti dell’avanguardia ceca, che sono stati isolati e perseguitati o perché considerati troppo avanguardisti o perché troppo borghesi, a seconda di chi li criticava (il protettorato nazionalsocialista di Boemia e Moravia prima e l’apparato stalinista della Repubblica Ceca poi). Gli artisti trovarono una via di fuga da questa realtà rifugiandosi verso qualcosa di diverso, l’arte surrealista.
Perché hai scelto di orientarti agli artisti del surrealismo ceco? Ho scoperto i surrealisti cechi grazie a un libro trovato per caso al mercatino dell’usato sulle passeggiate del Talvera, una quindicina di anni fa, il “Mercato dell’arte” di Karel Teige. Mi sono appassionato alla figura di questo artista praghese, al suo credere nell’arte e perseguire la sua strada nonostante le difficoltà: mi piace l’immagine evocata dalla Devestil, il gruppo ceco di artisti a cui aderiva. La parola Devestil indica il farfaraccio, una pianta non particolarmente bella, ma tra le prime a fiorire in primavera con un fiore incantevole. Teige è anche autore del manifesto del “poetismo”, un movimento artistico che, negli anni ’20 del novecento, voleva trasformare l’arte in divertimento fantastico, inneggiando alla gioia di vivere dopo gli orrori della prima guerra mondiale. Nonostante l’isolamento da parte del Partito Comunista, fino alla sua morte, nel 1951, egli creò oltre 400 collage fotografici surrealisti, a cui mi sono ispirato per la mia serie.
Cosa deve aspettarsi il pubblico dalla mostra? Senza svelare troppo, credo che chiunque potrà trovare qualcosa che incontra il suo gusto, sicuramente c’è un’attenzione al corpo e al bello comunemente inteso, ma anche aspetti nuovi e magari non molto visti in Alto Adige, che potranno sorprendere. Hai scelto di lavorare con una tecnica tradizionale come il collage e la carta oggi, nel 2021… come mai questa scelta? Qual è la tua posizione rispetto al digitale? Ho sempre amato la carta come materiale: mi piace la dimensione analogica, le persone, le sensazioni tattili. Per anni ho lavorato anche con il decollage strappando manifesti dai muri a metri! La carta è un materiale semplice, facile da utilizzare, da tagliare. Per certi versi, è come se il taglierino fosse il mio “pennello”… è come disegnare delle geometrie.
“Surrealist Escapades” è al Kunstforum Unterland di Egna dal 7 al 18 settembre. Ingresso libero e gratuito.
“Agli anni ’70 e ’80 in Alto Adige – fecondi, tumultuosi, interessanti – non dobbiamo guardare con nostalgia, ma piuttosto attingere a quei fermenti per trovare nuova forza nell’affrontare il nostro presente e il nostro futuro”. Queste sono le parole utilizzate da Maria Grazia Barbiero – insegnante e politica a lungo attiva nelle principali istituzioni altoatesine – in un’intervista rilasciata alla Rai, dedicata al suo libro “Scenari in movimento”, uscito recentemente per la casa editrice Raetia. La strada scelta da Barbiero per il suo saggio è quella di una sorta di biografia collettiva, densa, in grado di mettere al centro le numerose persone ma anche i luoghi e i “movimenti” che diedero una forte spinta nei 20 anni che – da sinistra – avvicinarono tra loro “italiani” e “tedeschi” in un’esperienza di convivenza definita dall’autrice “vera e proficua”. Ma si tratta anche di anni che seppero affermare un nuovo ruolo per le donne, in un contesto in cui le esperienze di cultura alternativa si susseguivano in vari contesti e scenari. Il racconto messo in atto da Maria Grazia Barbiero è una lettura irrinunciabile per tutti coloro che hanno partecipato in un modo o nell’altro a quella stagione, cogliendo l’occasione per storicizzare quanto avvenne, attraverso istantanee virtualmente scattate su un esperienza in perenne movimento. La sinistra altoatesina degli anni ’70 e ’80 in Alto Adige è un’esperienza che resta, sotto traccia, anche nei giorni nostri. Una maggiore consapevolezza degli eventi, dei contenuti e delle eredità di quella stagione, può contribuire senz’altro a dare un senso anche alle scommesse dell’oggi, non meno pressanti di quelle di allora, anche se inevitabilmente diverse. “Scenari in Movimento” può dunque essere una lettura molto interessante anche per i tanti giovani che oggi guardano all’impegno civile, sociale e politico, come ad un orizzonte irrinunciabile per il loro presente e futuro. Nel libro di Barbiero è infatti sequenziato il DNA della sensibilità che sta all’origine anche delle “battaglie” di oggi, nella loro declinazione specifica nostra complessa terra fra i monti.
Occuparsi di spiritualità critica e attiva, perché ricercata attraverso un approccio laico. Tornare a parlare di responsabilità e semplicità. Ma soprattutto dedicare un libro intero alla tenerezza, dimensione preziosa quanto impalpabile. Questo è il compito che si è posto Fabio Bonafè, genovese di nascita, ma da tanti anni altoatesino di adozione. Insegnante, pubblicista, operatore culturale, attento osservatore e promotore di iniziative culturali. Il volume di Bonafè – intitolato “Senza perdere la tenerezza” e significativamente pubblicato per la collana Equilibri precari dall’editrice Il Pozzo di Giacobbe – è interamente volto a scandagliare una categoria oggi necessaria quanto mai. La tenerezza è una sfumatura, come sintetizza molto bene lo stesso autore, nelle prime pagine del libro.
“Non ci sono eroi nella tenerezza. La tenerezza non è una virtù. Certo è sempre una cosa buona e molto migliore dell’ottusità, che partorisce la durezza instancabilmente insieme a diverse altre forze disgreganti. Come la paura, la rabbia, l’infelicità, e molte altre ancora. Anche se possiamo coltivare la tenerezza e creare le condizioni per favorirla ed espanderne la presenza, in realtà noi non produciamo volontariamente la tenerezza, ne siamo affetti. Scaturisce da noi.”
La nostra è un’epoca sovente fondata su certezze per lo meno discutibili e su atteggiamenti che spesso mostrano di aver dimenticato e messo in secondo piano ogni più basilare principio e valore. E quella alle porte è un’estate in cui molti di noi si metteranno alla ricerca di un nuovo equilibrio, volto a relativizzare le delusioni accumulate attraverso l’osservazione della schizofrenia generalizzata emersa durante la pandemia. In questo senso il libro di Bonafè consente di fornire una guida, un piccolo arcipelago di riflessioni in grado di predisporci al meglio nell’ottica di ricostruire rapporti, relazioni, empatie. Da appassionato e acuto promotore di momenti culturali, Bonafè ci dona l’occasione per riprendere un percorso, innanzitutto dentro noi stessi, facendo emergere la tenerezza che ognuno di noi ha in sé, ma che spesso non viene messa nelle condizioni di emergere. Ma che quanto riappare è poi davvero bello poterla lasciarla “andare” nella direzione di un positivo contagio verso l’altro.