Ricordando i gloriosi e rissosi Funkwagen

Trovano spazio anche i meranesi Funkwagen in un doppio vinile recentemente pubblicato per ricordare la gloriosa etichetta underground chiamata Rockgarage, attiva in Italia negli anni ‘80. Ecco il ricordo dell’esperienza jazzrock e progressive di Funkwagen, nelle parole del bassista e fondatore del gruppo Max Carbone. 

Nei mesi scorsi è stato pubblicato un doppio vinile dedicato a una gloriosa etichetta underground chiamata Rockgarage, attiva in Italia nei primi anni ottanta e dedicata alla diffusione di gruppi allora sconosciuti legati alla scena post-punk/new wave del nostro paese. L’etichetta, nata attorno alla redazione dell’omonima fanzine, in principio allegava degli EP da 7” al giornale, l’interesse attorno a queste produzioni  portò poi a un’esperienza più lungimirante, anche se sempre in totale autogestione.
Tra gli artisti pubblicati su questi EP, raccolti ora nel disco in questione, c’erano i meranesi Funkwagen, uno dei gruppi più interessanti e importanti della scena altoatesina di allora, cosa che ci offre l’occasione per ricordarli attraverso i racconti del bassista Max Carbone: “In origine erano gli Urbanoide, un quartetto ibrido. Io provenivo da un’esperienza piuttosto forte ai tempi del movimento del 1977 bolognese ed ero arrivato alla conclusione che la mia presa di coscienza politica volevo continuarla, ma in un altro modo, con la musica. Andrea Giglio, sassofonista nei Funkwagen, studiava a Venezia ed era arrivato alle stesse conclusioni, così insieme decidemmo di formare un gruppo, coinvolgendo il chitarrista Ezio Masotto e il batterista Roberto Romardi, che avevano un’impostazione rock, mentre Andrea e io volevamo fare dell’improvvisazione. Il risultato furono dei magma assoluti che erano lontanissimi dalle cose che si ascoltavano allora. Il debutto fu spiazzante per il pubblico, era un festival al dopolavoro Montecatini di Sinigo dove gli altri gruppi suonavano rock classico e west coast, qualcuno ci ha odiati, qualcun altro ci ha amati”.
Con l’arrivo di altri musicisti, dapprima Mariano Keller e poi Sandro Giudici alla batteria, mentre alla chitarra si aggiunse Gregor Marini, alla tromba Giancarlo il fratello di Andrea e alle percussioni Ugo Mustaffi, il gruppo finì per divenire Funkwagen e nel 1983 (proprio poco dopo il cambio di nome) sulla terza compilation di Rockgarage, insieme ai Diaframma di Federico Fiumani, trovò posto anche il loro brano Ebdòmero, il cui titolo era preso in prestito da un romanzo di Giorgio De Chirico.
“In origine – ci dice Carbone – dovendo registrare per un disco, avevamo preparato il brano in un certo modo, con melodia, struttura, ritornelli, ma quando ci siamo trovati in sala prove per registrarlo non riuscivamo a concretizzare. Dopo due giorni, allo stremo, ho detto agli altri: basta, cambiamo, improvvisiamo, questi sono gli accordi, questa la linea di basso e via. Al secondo tentativo il brano era pronto per il disco”.
Il nome del gruppo, che in italiano significa carro-radio, derivava dal fatto che i ragazzi s’immaginavano di essere un veicolo che s’introduceva nelle lande desolate della sperimentazione e che come una radio ne trasmetteva il risultato. Il tutto riducendo la parte improvvisata e prendendo possesso di altri linguaggi: “Quando Mariano è uscito dal gruppo – prosegue il bassista – abbiamo avuto la grande fortuna di trovare Sandro Giudici, la macchina ritmica di cui avevamo bisogno. Lui ci ha presi a due mani sollevandoci. Non è stata una storia lunga, eravamo troppo conflittuali, si discuteva molto, si litigava senza mezzi termini, offendendosi anche. Ma in sala prove e quando salivamo sul palco tutta questa conflittualità si sprigionava in energia. Poi, giù dal palco di nuovo a litigare”.
Grazie all’appoggio di Marco Pandin di Rockgarage, incontrato grazie ai contatti veneziani e mestrini di Andrea Giglio, i Funkwagen registrarono per l’etichetta legata alla fanzine un intero LP intitolato il caso Funkwagen, tenuti a battesimo nientemeno che da Ares Tavolazzi degli Area, ed ebbero occasione di esibirsi in giro per il Norditalia insieme al Politrio (in cui militava il futuro CSI Giogio Canali), un altro gruppo legato a quel circuito. Il disco ricevette recensioni positive su riviste come Fare Musica e i Funkwagen a Torino parteciparono anche al grande festival Il suono della metropoli, su un palco all’ingresso di Mirafiori: “C’era molta attesa – ricorda ancora Carbone – e quando salimmo sul palco il brusio si bloccò di colpo, tutti si zittirono come se fossero in attesa che accadesse qualcosa. Mi vengono ancora i brividi a parlarne, come se la nostra fama ci avesse preceduti. Fu un’esibizione perfetta. Anche se oggettivamente avevamo dei limiti tecnici: Gregor e Sandro erano già dei musicisti fatti e completi, ma per il resto eravamo su altri livelli. Ed è stato un po’ il motivo per cui poi il discorso si è presto esaurito, anche perché non abbiamo avuto il coraggio di andare oltre, di dedicarci solo a questo e studiare per colmare i limiti tecnici”.
Carbone, che nel corso degli anni non ha mai smesso di fare musica, fa attualmente parte di progetto chiamato Miles Ahead (con Sandro Giudici e col chitarrista trentino Enrico Merlin) che prendendo le mosse dalla musica di Miles Davis si espande verso prog e hard rock: prima di doversi fermare a causa del Covid-19, si sono esibiti a Milano e al Festival Jazz di Pompei, destando notevole interesse.

In foto principale: I Funkwagen al Foro Borio di Bolzano nel 1983
Copyright: Enrico Kikki Larice

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Nient’altro che “Noi 3”

Non è una novità: i lunghi mesi del lockdown della scorsa primavera, la pallida estate che le ha fatto seguito e il ritorno delle limitazioni in autunno hanno dato una sonora mazzata al mondo della cultura, e con essa al mondo musicale.
Abbiamo in un primo tempo visto e apprezzato gli sforzi dei musicisti per non finire nel dimenticatoio e per dimostrare che c’era la volontà di non arrendersi e di non farsi tarpare le ali da una situazione surreale.
Dapprima sono arrivati i concerti al balcone, poi i meeting via zoom o skype e le produzioni musicali casalinghe, con ottimi risultati anche, ma pur sempre limitati per via dell’assenza del pubblico, soprattutto nei casi dei concerti in streaming, e non ci riferiamo solo alla scena di casa nostra, ovviamente.


Il lungo periodo di assenza dai palchi ha però permesso a molti di portare a termine dei lavori che erano in cantiere e verso fine anno abbiamo visto le uscite discografiche di parecchi dei nostri musicisti: e non ci riferiamo solo alle uscite digitali o liquide (come si usa dire per la musica che non è fruibile in formato solido).
Tra le varie produzioni figlie di questo periodo balengo, a metà gennaio è stata realizzata una piccola chicca musicale realizzata con amore da un trio che per questa sua uscita ha deciso di usare la denominazione Noi 3, che è poi anche il titolo del lavoro: si tratta di Franco Mugliari, Tony Gazzignato e Walter Pitscheider, che hanno infilato in questo disco, realizzato con tutti i crismi, con stampa professionale e tanto di bollino SIAE, tutta la loro passione per un certo modo di fare jazz, molto tradizionale e d’atmosfera, basato sugli standard, come si usava una volta. Il tutto senza fini commerciali o aspirazioni di gloria, soprattutto per il piacere di farlo, ad uso e consumo proprio e degli amici.
“Il titolo Noi 3 – ci racconta il bassista e cantante del trio, Franco Mugliari – è stato discusso a lungo, soprattutto da me, tra me e me, perché in realtà il significato avrebbe voluto essere ‘noi in tre’, che sarebbe stato poco chiaro: per intenderci, nel CD ci sono dei brani in cui compaiono tre chitarre, due sassofoni, cinque percussioni, voce e basso, ma il tutto è suonato da noi tre, appunto, solo noi tre, visto che possiamo contare su Walter che suona ugualmente bene sia la chitarra che il sax ed è sicuramente il punto di forza del trio. Però ognuno ha la sua peculiarità; Tony, ad esempio, si occupa di tutta la parte tecnica: noi per registrare usiamo la sala prove dei King’s Friends, di cui Tony è il batterista, ed è lui che sa smanettare con i programmi di registrazione. Per di più si occupa anche della parte grafica del disco”.
Mugliari si schermisce sminuendo la propria importanza all’interno della formazione, relegandosi nel ruolo di un bassista non virtuoso, ma in realtà in questo disco – rispetto al CD solista pubblicato da Mugliari un paio d’anni fa, in cui il trio compariva con la medesima formazione sotto il nome di Cantina Band Trio – oltre ai suoi progressi allo strumento, ascoltate ad esempio la ripresa dello standard Fly Me To The Moon, in cui il nostro si concede anche un assolo, non è possibile non prendere atto della novità della voce.
“In realtà – prosegue Mugliari – i brani sono concepiti per poter essere suonati o ascoltati anche in versione strumentale, Walter col sax, in corrispondenza con la parte cantata, esegue anche il tema, prima dello spazio riservato all’assolo. Questo perché non ero sicuro di tenere le parti che avevo cantato. Perché io non sono un cantante . Sono nato come cantante, da teenager, con grandi aspirazioni forse, ma, diciamocelo, non con grandi capacità. Non ho voce, non ho estensione, soprattutto non ho volume. Come se non bastasse, in questo disco il cantato non era da sottovalutare, ho cantato in portoghese, lingua che non conosco e di cui mi sono fatto aiutare con fonemi e accenti, in tedesco, in francese, in italiano. Si è trattato di un impegno non da poco”.
Comunque stiano le cose, riguardo al cantato di Mugliari, ascoltando il disco del trio è evidente che la voce è invece fondamentale nell’economia del prodotto, a riprova che non sempre la tecnica è fondamentale quando c’è un grande sentimento: provate ad ascoltare la versione della contiana Via con me (It’s Wonderful), Bei Dir War Es Immer So Schön o la classica Les Feuilles Mortes: il cantato del nostro ci sta alla perfezione proprio perché ci sono il mood e la partecipazione necessari.
Certo, probabilmente siamo lontani dal disco perfetto, ma per quanto riguarda il fatto in casa – e durante il lockdown gli italiani si sono davvero sbizzarriti a riguardo, in particolare a livello gastronomico – Noi 3 o, se vogliamo, Noi in tre, ha il gusto, il sapore e l’aroma giusti.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Il bolzanino Alex Vittorio, gli Stereokimono e Syd Barrett

Non capita di rado che nella nostra rubrica ci occupiamo di bolzanini che hanno messo radici altrove pur rimanendo attivi in ambito musicale: parliamo oggi di un musicista bolzanino di stanza a Bologna e che proprio poche settimane fa, insieme al gruppo di cui fa parte, gli Stereokimono, è finito in un ricco tributo a Syd Barrett, fondatore dei Pink Floyd nonché principale artefice del primo disco del gruppo nel lontano 1967.
Alex Vittorio degli Stereokimono è il bassista (insieme a lui ci sono la batterista Cristina Atzori e il chitarrista Antonio Severi), ne è uno dei fondatori e componenti da quasi venticinque anni, e con loro ha realizzato tre CD.
I suoi trascorsi musicali sono cominciati a Bolzano, nella cella frigorifera di fronte alla sala dove provavano La Stanza e altri gruppi storici del capoluogo.
“Eravamo alcuni amici appassionati della musica che girava intorno in quegli anni – ci racconta Alex –, tutti più o meno alle prime armi, ma facevamo ostinatamente pezzi nostri. Poi c’è stata l’esperienza un po’ più seria con gli Zarah, nei primi anni Ottanta. Quello alla Eule fu il mio primo vero concerto in un locale pieno, e non per i soliti dieci amici, con pubblico pagante. Ricordo ancora che ero terrorizzato! Poi ci fu l’Altrockio: Eule e fiera, posti che oggi non esistono più, ma indelebili per noi ex ragazzi dell’epoca. Come Zarah abbiamo anche partecipato a un progetto di Ricky Gobbo, mio amico d’infanzia e di cortile.” Alex ha mantenuto i contatti con alcuni amici dell’epoca, in particolare con Enrico Visintin, con cui ricorda con piacere le jam ai tempi dei Gegia Miranda, e con Marco Dalle Luche di cui ha pubblicato sulla propria etichetta (Peter’s Music Castle) il disco di debutto dei Satelliti. Alex è uno di quelli che sono rimasti davvero fedeli alla linea; se il prog rock e certa musica d’avanguardia britannica erano i modelli dei suoi esordi, con gli Stereokimono si muove in direzione analoga, con una spruzzata di psichedelia colta e Canterbury sound. “Hai ragione – commenta – il Prog è entrato nel mio DNA musicale quand’ero ragazzino, insieme però a tanti altri stimoli come wave, elettronica, jazz. È anche vero che certi barocchismi o ipertecnicismi fini a sé stessi di parte di quella musica mi annoiano. Tra le band mi hanno influenzato molto i mitici Gong: spaziali, psichedelici e folli, con quella loro personalissima vena surreale, ironica e totalmente bizzarra. Abbiamo definito la nostra musica rock psicofonico obliquo perché non ci volevamo riconoscere in un genere preciso, ma spaziare liberamente senza preclusioni, ci piace molto scherzare anche attraverso la musica, quello che ci importa è riuscire a portare il nostro pubblico a sognare in una dimensione di viaggio immaginifico, facendo musica in totale libertà, magari con un pizzico di autoironia.” E basta ascoltare i dischi degli Stereokimono per rendersene conto, fin dalle copertine il richiamo ai Gong è palese. Il gruppo è anche andato molto vicino al diventare professionista, ma Alex orgogliosamente ci racconta che comunque per vent’anni, fino a poco tempo fa è davvero riuscito a vivere di musica lavorando a tempo pieno al centro musicale Ca’ Vaina di Imola. Il contributo al disco Love You, A Tribute To Syd Barrett uscito per l’etichetta inglese Gonzo Multimedia lo scorso 6 gennaio, giorno del compleanno di Barrett, vede gli Stereokimono alle prese con una riuscita versione di It’s Obvious. Gruppi da diverse parti del mondo (dagli USA al Messico al Giappone) hanno riarrangiato liberamente i brani di Barrett. “Anni fa – conclude il musicista – partecipammo a Vegetable Man Project, sempre dedicato a Syd e uscito su vinile per un’etichetta italiana. Siamo stati invitati a partecipare al nuovo progetto dai produttori artistici che già conoscevano i nostri trascorsi. Per prima cosa abbiamo tirato giù dal disco accordi e temi del brano originale e poi abbiamo cominciato a improvvisare in libertà, l’idea era di fingere che gli Stereokimono, entrati in una macchina del tempo, fossero lì a provare il pezzo con Syd, insomma abbiamo semplicemente stereokimonizzato il brano cercando di mantenerne intatto lo spirito di fondo ma giocando sulle forme a modo nostro. Per il cantato abbiamo scelto il cantautore psichedelico Dario Antonetti.”

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Vent’anni dietro il mixer e un album nuovo di zecca

Il cantante e fonico di Laives recentemente ha pubblicato un lavoro che lo vede protagonista come autore, attorniato da un gran numero di musicisti della scena locale. Il risultato è un disco vario, ben fatto, partecipato. Citare dei titoli vorrebbe dire trascurarne ingiustamente altri, ma è l’insieme il punto forte di questo progetto il cui trait d’union è proprio Carmelo Giacchino, con le sue idee abbozzate e col suo grande spirito sciamanico che sovrintende sapientemente l’insieme.

Qualche anno fa, Carmelo Giacchino ha realizzato che erano ormai quasi vent’anni che aveva deciso di passare la barricata nel mondo musicale, da membro di un gruppo a fonico, specializzandosi in particolare in produzioni indie, ma senza mai rifiutare i propri servigi e la propria esperienza a nessuno e ospitando nel proprio studio (nelle sue varie mutazioni geografiche e eponime) un sacco di artisti di ogni estrazione ed età.
“Gli inizi sono stati davvero avventurosi – ci racconta Giacchino – con i miei amici Luca Predenz e Michele Zambai nello studiolo allestito dentro un garage di viale Europa. Ci eravamo sbattuti parecchio per insonorizzarlo e renderlo idoneo alla bisogna, solo che in un garage vicino aveva fatto la sala prove un gruppo che non si era minimamente preoccupato di fare lo stesso, così il condominio soprastante li fece sloggiare in men che non si dica. E per non saper né leggere né scrivere, fecero sloggiare anche noi”.
Dopo di allora Giacchino e soci rilevarono il vecchio studio di Loredano Andreasi, a Oltrisarco, poi ci fu lo ZEM Studio ai Piani, ed ora, da un bel po’ di tempo e col nome di NoLogo, la sede del fonico/produttore è stabile a Laives, dove lavora con Fabione Sforza, occupandosi non solo di musica, ma questa è un’altra storia, pur se strettamente collegata.
Complici le nuove tecnologie, che permettono di metter giù una traccia per un brano anche col solo uso di uno smartphone, Giacchino ha cominciato a – per così dire – prendere appunti, strimpellandoli con la chitarra mano a mano che gli venivano idee da poter condividere con gli amici e gli artisti con cui e per cui ha lavorato nei suoi vent’anni di attività dietro il banco di regia. Tra una cosa e l’altra però, anche se le bozze c’erano quasi tutte allo scadere dei fatidici vent’anni, il lavoro ha richiesto molto più tempo del previsto, complici gli impegni di ciascuno. Ora però il lavoro è terminato e disponibile, in forma download e di chiavetta USB con tanto di booklet, col titolo di 21 Years, con riferimento alle ventun tracce di cui si compone e col fatto che è stato deciso di farlo uscire il primo gennaio 2021.
“Ho girato a diversi cantanti – prosegue il soundman – i file con gli abbozzi delle canzoni, chiedendo a loro di sviluppare dei testi e di contribuire all’arrangiamento, sfidandoli a trovare una dimensione più interiore, un qualcosa che recuperassero da un’emozione o da un sentimento. Da ex cantante, anche se in questo lavoro sono tornato anche a cantare in un paio di occasioni, riesco a sviluppare una certa empatia con chi sta dietro al microfono al di là del vetro. Con certe cantanti come Annika Borsetto, Tea Ducato, Petra Dotti, Monika Callegaro è stato davvero molto naturale portare a termine i brani. Con Monika ci eravamo anche riproposti di fare un intero disco assieme. Con qualcuno la lavorazione si è protratta quasi fino all’ultimo momento: con Tea e con Bertrand Risè ci siamo ritrovati a terminare le registrazioni poco prima di Natale”.
Il parterre di 21 Years è immenso, Carmelo è riuscito a coinvolgere davvero una schiera di amici e colleghi senza fine, nominarli tutti prenderebbe troppo spazio, ma possiamo almeno fare qualche nome: Akku, Bombardato, Luca Sticcotti, Rino Cavalli, Sandro Giudici, Michael Monteleone, Lorenzo Barzon, Gabriele Stegher, Katrin Tartarotti, Ictus Trentini.
“Mi è venuto naturale di pensare a delle collaborazioni – continua Giacchino – perché l’aver fatto parte per anni di varie band era dovuto al fatto che mi piaceva lavorare con gli altri. Sia con gli Ansia che con gli Jagoda, e poi coi Mida, ho sempre partecipato al team creativo, anche non essendo necessariamente sempre il cantante. Nel disco, chiamiamolo così, ci sono cose diverse, da intuizioni metal ai Massive Attack, musica etnica, reggae, rock. Facendo il fonico lavori con tanta gente e inevitabilmente allarghi i tuoi orizzonti musicali. In particolare comunque sono stati fondamentali le presenze di Lorenzo Scrinzi, che fino ad un paio di anni fa lavorava nello studio come arrangiatore e produttore e quindi era sempre lì, disponibile a piazzare un intervento di chitarra in un brano o nell’altro, e di Fabio Sforza, che in un brano suona quasi tutto e canta: loro due appaiono in molti brani e mi hanno dato una grossa mano. E poi c’è la sezione ritmica di Mirko Giocondo e Thiago Accarrino, che abbiamo usato più volte nel progetto”.
Il risultato è un disco vario, ben fatto, partecipato. Citare dei titoli vorrebbe dire trascurarne ingiustamente altri, ma è l’insieme il punto forte di questo progetto il cui trait d’union è Carmelo Giacchino, con le sue idee abbozzate e col suo grande spirito sciamanico che sovrintende sapientemente l’insieme.

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo

Mad Puppet: con Between un ritorno in grande stile

Se ne parlava da più di un anno del settimo disco dei Mad Puppet, una delle formazioni più longeve e creative della scena musicale rock altoatesina: Between, questo il titolo dell’opera, uscita esclusivamente in vinile – per quanto riguarda il formato solido – e in download digitale, si colloca perfettamente a cavallo tra le sonorità prog degli esordi e quelle più ricercate di Cube, come a voler sottolineare il fatto che i Mad Puppet non rinnegano nulla e al tempo stesso hanno sempre voglia di sperimentare.

Lo si può evincere anche dal titolo del primo brano del disco “New Start”, una nuova partenza, ma anche una ripartenza, visto che nel frattempo è tornato in seno alla formazione il cantante originale Manfred Schweigkofler, che ha portato a tre il numero dei componenti originali del quintetto attuale.
“Il disco – ci racconta Manni Kaufmann, il tastierista – si è sviluppato dalle session in sala prove, dove cerchiamo di trovarci almeno una volta alla settimana, o ogni due, perché anche se le occasioni per fare concerti non sono molte, non abbiamo mai smesso di suonare e produrre. Registriamo quasi tutto quello che esce dalle prove e ci divertiamo sempre un sacco. Altri gruppi con una decina di idee farebbero dieci brani, noi ne facciamo uno. E in questo Fred deve destreggiarsi a ritagliare degli spazi in cui inserire i testi che canta.”


“Secondo qualcuno – aggiunge il cantante – fare le voci sui brani dei Mad Puppet è molto difficile, ma invece è semplicissimo, nella struttura dei brani c’è un buco libero e lì devo inserirmi…”
Oltre a Kaufmann e Schweigkofler, i Mad Puppet del 2020 comprendono il chitarrista storico Christoph “Sane” Senoner, il bassista e clarinettista Thomas A. Pichler, in formazione da quasi trent’anni e il batterista Michael “Much” Mock, ma per i concerti, quando si potrà tornare a farne, sarà della partita anche Michael “Gadget” Gadner, che era la voce sul disco precedente.
“Il batterista – è Senoner ora a raccontare – si occupa di registrare tutto quando siamo nella sala prove che si trova a San Giorgio, sotto San Genesio, e poi riascoltando vengono fuori tracce che magari vengono riprese pari pari nel disco, con pochi overdubs. Se vogliamo un po’ come faceva Frank Zappa. Prendi ad esempio Foggy Day, la parte finale è un’improvvisazione presa direttamente dalla sala prove.”
Ognuno dei componenti dei Mad Puppet ha la sua importanza, il gruppo è un collettivo vero e proprio in cui ognuno ha le proprie peculiarità. Se Kaufmann e Senoner sono quelli che con i loro strumenti caratterizzano il suono, Mock è l’uomo in cabina di regia e Pichler è un po’ il direttore d’orchestra. Schweigkofler è poi l’artefice dei testi, che in questo disco sono attraversati da un sottile filo rosso che conduce dal menzionato desiderio di una nuova partenza (sviluppato su una base sonora in odor di hard rock contemporaneo) alla conclusione della fantastica “Tomorrow”, con un cameo della sezione fiati degli Shanti Powa, in cui l’agognata ripartenza è posticipata a domani o a dopodomani.
“Quando mi arrivano le tracce sonore – ci spiega Schweigkofler – comincio a pensare a che storia mi raccontino questi suoni, così comincio a lavorare sulle parole. In certi casi scopro che le cose che vorrei dire sono già state espresse, e questo è il motivo per cui nel disco ci sono alcune canzoni in cui le liriche sono ispirate da altri, dai Creedence a Brian Eno, passando per Ayodeji, un ragazzo sconosciuto che pubblica i suoi video in rete. Se il disco si compone di otto brani, bisogna fare in modo che tutto sia collegato, senza essere per forza un concept album, perché il nostro non lo è. Il fil rouge è nel titolo, Between, in mezzo: tutte le canzoni trattano di qualcosa che è in mezzo, tra una cosa e l’altra. Anche con ironia, nei confronti delle ripartenze, e per estensione anche delle start up, che in realtà la maggior parte delle volte a poco servono, se non sono del tutto fallimentari.”
Purtroppo, a causa del Covid-19, i concerti di presentazione sono rinviati a data da destinarsi; per ora gustiamoci il disco, che ha i suoi punti forti in composizioni come la menzionata “Tomorrow”, “Black Swan”, la teatrale “Fail Again” (in cui spiccano i trascorsi attoriali del cantante) e la lunga “Won’t Lose My Way”, una sorta di prog-blues che grazie agli spunti del clarinetto suonato da Pichler, nel finale sfocia in atmosfere jazz. Il disco è stato mixato da Fabian Pichler, figlio del bassista, e masterizzato da Jürgen Winkler degli Eseleptitun.

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo

Skankin’ Drops: non tutti i contagi vengono per nuocere

Di questi tempi, in cui la parola contagioso mette sempre addosso un po’ di apprensione, c’è un caso in cui invece non può che rallegrare e far piacere: si tratta del contagioso esordio discografico degli Skankin’ Drops, formazione appartenente alla grande famiglia del reggae che, dopo alcuni anni di collaudate performance, ha trovato finalmente il tempo e la voglia di registrare la propria musica, e lo ha fatto con esiti davvero entusiasmanti.

Do The Skankin’ è un disco godibilissimo, con nove brani originali composti dai vari componenti del numeroso ensemble che per questo suo debutto è tenuto a battesimo dall’etichetta dei cugini Shanti Powa, un disco pubblicato in vinile per quanto riguarda la forma solida e che in versione liquida è naturalmente ascoltabile e acquistabile tramite il sito bandcamp.
“Ci è voluto un po’ per portarlo a termine – ci racconta il sassofonista, autore e cantante Angelo Ippati – perché in un primo momento abbiamo cominciato a lavorarci in sala prove, alla fine però abbiamo deciso di affidarci al Beat Studio di Alessandro Damian e Andrea Polato, che ci hanno registrato. Il mix invece lo hanno fatto Thomas Maniacco, che nel disco suona anche la tromba, e Florian Gamper a Fiè, nello studio degli Shanti Powa. Il master lo abbiamo affidato a uno studio londinese che si è anche occupato della stampa dei vinili.”
Rispetto ai menzionati Shanti Powa, orientati verso un reggae più vicino al ragamuffin e al mondo hip hop – ma le differenze sono davvero sottili – gli Skankin’ Drops hanno un background più orientato verso il roots reggae e lo ska e anche loro contano su una formazione molto consistente: nel disco oltre a Ippati ci sono le due cantanti Enrica Pedrotti e Michela Campaner, le chitarre di Igor Pallaver e Arturo Zilli, il basso di Michele Giancola, le tastiere di Marco Pellin (autore della maggior parte dei brani), la batteria di Fabio Scatolini e le percussioni di Matteo Moretti e tutti contribuiscono a sviluppare una base musicale molto affiatata e coinvolgente su cui spiccano i testi (scritti da Pellin, Ippati e Campaner) che non sono mai scontati ma affrontano, salvo un paio di casi in cui l’argomento è la loro musica, tematiche sempre attuali da quelle ambientali a quelle sociali.
“Il batterista e il chitarrista – ci spiega Giancola – provengono da esperienze roots e quindi è stato naturale per noi partire da lì, poi però ci siamo evoluti, contaminati, ci sono stati vari innesti, basati anche su quello che abbiamo cominciato ad ascoltare, lo stile si è affinato. C’è anche il ragamuffin in dialetto salentino che fa Angelo ed è una delle altre nostre peculiarità, così come la doppia voce femminile.”
All’ascolto il disco suona davvero bene, l’alternanza del cantato tra inglese e salentino, tra la voce maschile e le due voci femminili, risulta una carta vincente che insieme a tutto il resto contribuisce a far sì che gli intenti di partenza degli Skankin’ Drops giungano a buon fine.
“Non ci siamo detti: vogliamo fare un roots reggae in stile anni settanta e ottanta – è ora il tastierista e autore Marco Pellin a parlare –, alcuni di noi avevano già una buona esperienza con questo genere musicale, all’inizio i singoli gusti magari non coincidevano per tutti, così abbiamo provato a vedere cosa veniva fuori. Sperimentando anche. Non è stato un percorso facile e breve, ci è voluto del tempo. Ed è anche da questo percorso che nasce il discorso sui contenuti, le prime cose abbiamo cominciato a scriverle nel 2015, sempre con l’obiettivo e con la volontà di farne venir fuori qualcosa di nostro. Il disco in questo senso è il punto d’arrivo riguardo al lavoro svolto fin qui, ma anche quello di partenza per quello che vogliamo fare dopo.”
Come prevedibile al momento non sarà possibile promuovere il disco con concerti, ma gli Skankin’ Drops non demordono e sperano che una volta superato il momento d’allerta sarà possibile pensare ad una promozione: “Qualcuno ci aveva suggerito di aspettare a farlo uscire – conclude Ippati – ma era già stato lungo il periodo di gestazione e avevamo voglia che la gente potesse ascoltarlo. E di fatti abbiamo riscontrato subito un grande interesse; l’uscita ufficiale è stata il 20 novembre, intanto il vinile è in vendita online, su bandcamp è ascoltabile in streaming, ed è in uscita anche un primo video. Ovviamente è un ottima idea per un regalo di Natale!”
Oltre al 33 giri e alla versione liquida del disco, è uscito anche un dieci pollici con le versioni dub, una realizzata in provincia di Bolzano e una in Salento, di due delle canzoni incluse nel disco, per la gioia degli amanti dei sound system.

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo

Tracy Merano, un debutto con anima sulla lunga durata

Doveva uscire già lo scorso inverno questo primo disco della cantautrice Tracy Merano, poi le tristemente note vicende legate alla pandemia ne hanno posticipato i tempi, costringendo la giovane meranese, che ha mutuato il nome d’arte dalla sua città, a cambiare i propri programmi, senza però perdersi minimamente d’animo. Così all’inizio dell’autunno Save Your Soul, questo il titolo del disco, ha finalmente visto la luce e in attesa della riapertura dei negozi è disponibile attraverso il sito di Tracy.

La songwriter meranese in realtà ha già altri lavori alle spalle, ma questa è la prima volta che si cimenta con un disco a lunga durata, un long playing si sarebbe detto se fosse un 33 giri, come si usava quando il supporto usato per immagazzinare i suoni aveva una consistenza e un’importanza maggiori.


“In verità – ci racconta la giovane cantautrice – avevo sempre desiderato fare un disco del genere, un disco con stili differenti ma con un sound omogeneo e maturo. La musica pop per me è molto importante, anche se amo e ascolto anche molti altri generi. Mentre lavoravo alla realizzazione di Save Your Soul mi sono resa conto della maturazione che avveniva in me e la cosa fondamentale, per ottenere questo risultato che desideravo, era farlo con dei musicisti veri, lontano dai suoni midi del mio computer usati per i dischi precedenti. Sono convinta che il suono sia più naturale e sincero se lo fai con dei musicisti reali.”
Come darle torto, parole sacrosante, e la riprova balza spontanea dagli altoparlanti, ascoltando questo disco di pop freschissimo e accattivante, lontano dalle sonorità usate negli EP di Tracy usciti in precedenza o nei video/singoli a essi accompagnati. L’aver optato per andare in un vero studio per dare forma al disco ha contribuito poi a valorizzare particolarmente le belle sfumature della voce di Tracy.
“Ho voluto cercare uno studio – prosegue Tracy – in cui oltre a esserci gente con cui mi trovassi bene, fosse un po’ come essere a casa, perché l’ambiente e l’atmosfera sono fondamentali per me e il Bucket hill Studio di Markus MacMayr è stato il luogo giusto in cui trascorrere i diciassette giorni che ci sono voluti ad effettuare le registrazioni. Markus si è occupato anche della produzione, mentre per il mastering ho chiesto ad Armin Rainer, che conoscevo da tempo e con cui avevo già lavorato: lui mi garantisce sicurezza ed ha una grandissima esperienza in questo campo.”
E le scelte di Tracy si sono rivelate decisamente azzeccate, se poi ci si aggiungono i musicisti che l’accompagnano e che contribuiscono al risultato finale, il gioco è fatto. In particolare spicca il lavoro di Michele Bonivento alle tastiere, ma ovviamente gran parte ha anche MacMayr che oltre a produrre cura gli arrangiamenti e suona la batteria, c’è poi l’infallibile sezione fiati con Gigi Grata, Fiorenzo Zeni e Christin Stanchina, Paolo Legramandi è al basso mentre le chitarre sono di Stefano Dallaserra e Valerio De Paola dà una mano a tastiere e cori.
Purtroppo, come si diceva in apertura, il Covid-19 ha messo i pali fra le ruote alla promozione prevista per questo disco e ora Tracy deve un po’ reinventarsi tutte le situazioni, ma entusiasta e dinamica com’è non si perderà certo d’animo.
“Intanto, durante il lockdown – ci spiega – per non rimanere con le mani in mano ho fatto un singolo con Mental, al secolo Alexander Richter, un brano intitolato ‘Time Out’ che contiene impressioni e pensieri sbocciati proprio durante quel periodo. Ho sempre tante idee per le mie canzoni. Quasi ogni giorno me ne vengono in mente e appena ho tempo ci lavoro su. Scrivo in particolare su cose che mi sono successe o esperienze personali. Per promuovere Save Your Soul c’erano in previsione dei concerti, in particolare in Germania, evidentemente cancellati per via del Covid, così intanto oltre che in formato solido sul mio sito, il disco è disponibile sulle classiche piattaforme come Spotify, Youtube e via dicendo.”
Ma non è tutto, per non lasciare nulla di intentato, in attesa che le cose migliorino, il prossimo 27 novembre, Tracy lancerà il primo singolo tratto da questo suo disco.

Copiright foto principale: GerdEder

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo

Paolo Brillo: andare in giro fotografando Bob Dylan

Nei giorni scorsi, (pubblicazione 6 novembre) la passione del bolzanino Paolo Brillo per Dylan e per la fotografia è stata coronata dall’importante pubblicazione di un ricco volume, intitolato No Such Things As Forever consistente in oltre trecento pagine, del formato quasi corrispondente a un disco in vinile: un volume che documenta ben trent’anni di concerti dylaniani in Italia, in Europa e anche in America.

Ci sono artisti che amano stare sotto i riflettori e ce ne sono altri che invece più i riflettori li rifuggono più attizzano le voglie dei fan: Bob Dylan è sicuramente il re di questa seconda categoria; da un certo punto della sua carriera in poi il poeta/rocker/premio Nobel ha cominciato a rifiutare di essere illuminato dai fari durante i concerti e di pari passo ha evitato i fotografi come la peste, per altro curando assai poco la propria immagine pubblica.
Il fotografo bolzanino Paolo Brillo, di tutto questo se n’è sempre infischiato, lui ai concerti di Bob Dylan ci è sempre andato con la macchina fotografica ed è sempre tornato a casa coni suoi bei souvenir fotografici dei concerti, tanto da divenire fotografo ufficiale della rivista inglese Isis, interamente dedicata al musicista americano. Nei giorni scorsi, (pubblicazione 6 novembre) la passione di Brillo per Dylan e per la fotografia è stata coronata dall’importante pubblicazione di un ricco volume, intitolato No Such Things As Forever consistente in oltre trecento pagine, del formato quasi corrispondente a un disco in vinile: un volume che documenta ben trent’anni di concerti dylaniani in Italia, in Europa e anche in America.
“In origine – ci racconta Paolo Brillo – il libro avrebbe dovuto avere anche l’imprimatur dello stesso Dylan… avevo incontrato a New York l’avvocato Jeff Rosen, che è il suo manager, uno degli uomini che ne curano non solo l’immagine ma anche tutti gli interessi commerciali finanziari. Pareva che da parte loro ci fosse interesse, ma poi tutto è rimasto nell’oblio probabilmente perché un libro di foto scattate furtivamente durante i suoi concerti sarebbe andato contro la loro politica sull’assoluto divieto di fotografare l’artista dal vivo.”
D’altra parte anche per il disco uscito la scorsa estate, il management del musicista ha scelto una fotografia del 1996, confermando una costante poca cura, di pari passo col poco interesse, per una promozione d’immagine che potrebbe contare su materiale fotografico di qualità e più recente. Se da un lato, per i dischi d’archivio di Dylan la cura del materiale iconografico è superlativa, negli ultimi trent’anni e forse più i contenuti e la grafica dei dischi e dei programmi dei concerti sono davvero pessimi.
Brillo però, i cui scatti non hanno nulla da invidiare a quelli dei maggiori professionisti della musica fotografata, una volta tramontata l’ipotesi editoriale legata all’incontro con Rosen, forte della sua collaborazione con Isis e con il mensile italiano Buscadero ha presto ricevuto un’offerta relativa al libro fotografico su Dylan dalla Red Planet Books, casa editrice britannica con distribuzione a livello mondiale. Così dopo una lunga gestazione legata alla scelta delle foto, della carta, del formato, dal 6 novembre il volume è distribuito praticamente in tutto il pianeta.
“Derek Barker, l’editore di Isis – prosegue il fotografo – mi ha chiamato un giorno dicendo che c’era un editore di nome Mark Neeter che aveva visto le mie foto e voleva assolutamente propormi di farne un libro. Dopo aver verificato la serietà dell’editore e aver ricevuto le opportune garanzie sulla realizzazione di un libro di qualità, ho deciso di accettare la sua proposta e dopo due anni di lavoro, il libro è finalmente una realtà. Solo lavorando in prevendita ne sono state vendute parecchie copie e questa è naturalmente una grande soddisfazione oltre che una partenza incoraggiante. La cosa a cui tenevo particolarmente è che fosse un bel libro perché quando ti butti in una cosa del genere non puoi sbagliare. A me piace parecchio il tipo di scenografia usata da Dylan sul palco negli ultimi anni, molto in linea con quello che è diventato il suo modo di cantare. è anche parecchio teatrale, cosa che si adatta bene con il fatto che ora tiene molti concerti in grandi teatri.”
Ma Paolo Brillo non è un fotografo monotematico, il suo portfolio include anche un numero incredibile di foto di altri artisti, da quelli come Rolling Stones, Neil Young, Roger Waters, tanto per dirne solo tre, che ha fotografato dal vivo sui grandi palchi europei, a quelli catturati nel suo studio in occasione di esibizioni bolzanine o in location a noi molto familiari, come Castel Roncolo, dove lo scorso anno ha fatto una session fotografica con Scarlet Rivera, guarda caso una musicista che negli anni Settanta ha lavorato con Bob Dylan in uno dei suoi momenti più esaltanti.

In foto principale: a sinistra Bob Dylan e a destra Paolo Brillo

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo

Knurled Chicken Head chiudono in bellezza con un disco

Il gruppo musicale bolzanino ha appena pubblicato un album che suggella un percorso durato ben quattro anni. Caratterizzatisi con i loro testi demenziali e musica frizzante, i Knurled Chicken Head hanno divertito il pubblico cibandosi soprattutto delle dimensione live. E tale approccio traspare anche nell’album che raccoglie il “meglio” della produzione del gruppo.

Quasi quattro anni, trascorsi all’insegna di un rock demenziale garbato ma acuto e di esibizioni dal vivo che hanno fruttato loro un discreto seguito e meritati apprezzamenti: questo il bilancio positivo con cui i Knurled Chicken Head si congedano dal loro pubblico e dalla scena musicale bolzanina in contemporanea con l’uscita del loro primo ed ultimo disco, un CD (ma ne esistono anche tre copie in vinile) intitolato “Peso dunque suono”, secondo un’intuizione cartesiana del loro frontman Luca Nesler.
“A dire il vero – ci racconta il chitarrista e factotum strumentale-tecnico del gruppo Thomas Traversa – ci eravamo sempre concentrati sull’attività live. La sala prove era il luogo dove nascevano le canzoni, poi il lungo periodo di clausura imposto dal lockdown ci ha privati del piacere di suonare in pubblico e abbiamo finito col decidere di registrare le nostre canzoni per farne un disco, visto che non si potevano più fare concerti.”


Rispetto alla formazione a quattro con cui il gruppo si è fatto conoscere e applaudire fin dagli esordi (quando tre di loro erano ancora teenager) e che era composta, oltre che da Nesler e Traversa, dalla bassista Maddy Ansaloni e dal batterista Stefano Costa, i Knurled Chicken Head presenti nel disco sono solo tre: “È la maledizione dei bassisti – scherza Nesler –, tipica della storia della musica… In realtà a un certo punto Maddy aveva altri progetti e altre idee su quello che voleva fare; così abbiamo cercato un altro bassista, ma entrare in un gruppo come il nostro non è automatico, non basta essere un bassista, bisogna entrare nello spirito della band, così alla fine abbiamo deciso di rimanere in tre, Stefano, Thomas e io. Anzi ad un certo punto Thomas ha deciso che fosse meglio che io smettessi di suonare la chitarra e visto che si trattava di fare un disco, a parte la batteria, tutto il resto lo ha suonato lui e si è occupato anche di tutta la parte tecnica relativa alla produzione.”
In realtà oltre a continuare a essere la voce principale del gruppo, Luca Nesler ne è sempre l’anima per quanto riguarda le idee di base e poi si è occupato anche della parte grafica, realizzando il disegno e il logo di copertina. Col risultato, che pur trattandosi di una produzione indipendente (a loro piace definirsi indiemenziali), i Knurled Chicken Head hanno saputo realizzare un prodotto ruspante (come si addice ai polli, visto il loro nome), sincero, immediato, divertente, con dieci canzoni della durata media di quattro minuti, ma talvolta anche più lunghe che propongono un sound schietto, talvolta decisamente rock, talaltra vagamente latineggiante, in un caso persino blues, con testi che vanno da vicende romanticomiche (“Friendzone Blues”) a riflessioni sul cambiamento climatico (“Hot Granita”) al puro divertissement (“La storia di Hoolo”).
“La nostra regola – ci spiega Nesler – è che quando pensiamo a un brano, per prima cosa deve divertire noi, in sala prove ci facciamo delle pazze risate mettendo giù le canzoni. E sarebbe una pretesa esagerata voler divertire gli altri se non fossimo noi i primi a divertirci. Io mi occupo quasi totalmente dei testi, Thomas delle musiche, Stefano sta un po’ nel mezzo perché comunque il metodo che seguiamo è lasciare che ciascuno possa intervenire nel lavoro dell’altro. In due casi, i testi non sono miei: in ‘Solanum Lycopersicum’ ci siamo divertiti a musicare il testo di una definizione di Wikipedia, nella fattispecie quella relativa al pomodoro; in ‘35 nuovi membri’ invece, che è già apparsa nella compilation di Musica Blu Music Journal lo scorso anno, abbiamo preso pari pari e musicato il testo dello spot televisivo per le elezioni provinciali. Ci è stato detto che musicalmente è il pezzo migliore del disco ma che il testo è il peggiore… per forza, non l’ho scritto io!”
Purtroppo, come si diceva in apertura, il disco è anche il capolinea della giovane formazione: “La vita ci ha portato a intraprendere strade diverse – conclude Traversa –, Stefano ce lo aveva sempre detto che sarebbe andato a studiare via da Bolzano, fin che eravamo tutti studenti delle superiori ed eravamo qui, tenere su il gruppo era fattibile. Ma aveva messo le mani avanti dicendo che con l’inizio dell’università avrebbe lasciato il gruppo e così è stato, ha già smontato la batteria e l’ha portata via dalla sala prove… Sala di cui c’è da pagare un affitto e noi siamo rimasti in due… Vorremmo però riuscire a organizzare un concerto finale, per salutare il nostro pubblico. E diciamo pure che comunque si tratta di uno scioglimento ufficioso: se ci fossero le giuste premesse non esiteremmo a tornare!”

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo

Gli angeli ci guardano: ecco la Bolzano beat dei Dedy Cemm

Venerdì 16 ottobre presso il Teatro Cristallo (Sal Giuliani, ore 20) verrà presentato il libro che racconta la storia dei Dedy Cemm, gruppo beat storico nella Bolzano degli anni ‘60. Il libro è stato scritto da Alberto Sigismondi, uno dei membri originari del gruppo musicale ed è stato pubblicato dalla casa editrice Praxis.

Alberto Sigismondi, profondo conoscitore della Bolzano dei quartieri, in particolare quello di Regina Pacis/Don Bosco, in cui è cresciuto quando ancora si usava chiamarlo Sciangai, presenterà venerdì 16 ottobre, alle ore 20 il suo libro dedicato allo storico gruppo beat bolzanino che nel 1967 fu il primo a registrare un 45 giri. La presentazione, con le dovute limitazioni dovute al Covid, si terrà alle ore 20 presso la Sala Giuliani della Parrocchia di Regina Pacis, dove tutto è cominciato, dove i Dedy Cemm hanno avuto la loro prima sala prove.
I Dedy Cemm erano allora Marco Merzi, Mario Gurrisi, Enrico Zottola e Guido “Chris” Perini, quattro giovani bolzanini che tra il 1964 e il 1965 misero in piedi uno dei tanti gruppi beat che animavano le serate bolzanine e della periferia provinciale. Ogni gruppo era particolarmente radicato nel suo quartiere e i Dedy Cemm erano senza ombra di dubbio il complesso più in vista di Sciangai. Per questo, il libro di Sigismondi a loro dedicato diventa particolarmente importante e interessante, perché racconta una Bolzano e un quartiere che a chi non li ha vissuti possono sembrare lontani anni luce, e lo fa raccontandolo attraverso gli occhi di chi allora era giovane e in qualche modo sognava, se non proprio di cambiare il mondo, di dare un piccolo contributo a farlo.
“L’idea di scrivere il libro – ci racconta l’autore – parte dalla figura di Marco Merzi, col quale avevo un grado di parentela che non è mai stato chiaro, ma che so esistere. Una specie di lontano cugino, come si suole dire. Mi piaceva ascoltarlo quando mi parlava di questo suo gruppo, ne ero affascinato e un giorno lui mi disse: ma perché, visto che hai tutta questa parlantina non scrivi un libro su di noi? Marco aveva una vita complicata purtroppo, ed è morto poco dopo che avevamo cominciato a mettere insieme i suoi ricordi. Siccome conoscevo anche Guido, il bassista della formazione, ho proposto a lui di farmi da memoria storica. Ovviamente non si poteva non raccogliere la testimonianza di Enrico, il tastierista, con Guido l’ultimo del gruppo con cui poter parlare.”
Il libro che ne è uscito (edito da Praxis ), il cui titolo completo è “Gli angeli ci guardano – I Dedy Cemm all’ombra dei Beatles da Bolzano a New York” racconta la genesi del gruppo contestualizzandola nello sviluppo del quartiere, che era cresciuto parecchio, divenendo molto di più che non la sola zona delle Semirurali, prosegue coi Dedy Cemm che dopo un’estate pazza in giro per l’Italia in tour per promuovere il loro 45 giri, condividendo i palchi con i big della musica italiana di allora, da Mino Reitano a Patty Pravo, ai Rokes e all’Equipe 84, sbarcarono a New York all’inizio del 1968 per suonare sulle navi da crociera. Il tutto con preziosi ricordi e aneddoti imperdibili, come quello della ragazzina, anzi diciamo pure bambina, che partì in treno per Milano per andare a vedere i Beatles perché aveva saputo che Guido sarebbe andato in Vespa a vedere il concerto!
“Insieme alla storia dei Dedy – prosegue Sigismondi – viene così fuori la storia del quartiere, che da Piazza Matteotti in giù era Sciangai, ma in su era invece Pechino! E vengono fuori anche aneddoti sui locali dell’epoca, tipo il dancing del Virgolo, di cui sono andato a scovare i vecchi gestori, tipo la taverna di Via San Quirino.”
Ma nel libro c’è spazio anche per i bar del quartiere, nei cui retrobottega spesso venivano ricavate sale prove per i complessi, o per le abitudini dei bolzanini di allora, come andare la domenica a pattinare in via Roma e poi a far merenda col castagnaccio, che era il piatto forte della pasticceria Bartolomei.
Unitamente al libro, riccamente illustrato da foto d’epoca, verrà presentato un CD con una nuova canzone dei Dedy Cemm di oggi, la prima dai tempi del primo singolo, intitolata giustamente Sciangai.

Autore: Paolo Crazy Carnevale – musicofilo