Una delle cose più difficili da capire, in questo inizio del 2021, è come mai una percentuale non bassa di persone non stia aderendo alla campagna vaccinale a protezione dal coronavirus. Si fa fatica a comprendere dopo un anno tragico per i disagi, le sofferenze, la morte, causati dal contagio che tiene in scacco il mondo intero.
Il vaccino è l’unico strumento per contrastare e fermare il Covid-19, a meno che non si pensi che il morbo se ne andrà così come è arrivato o che non si voglia continuare a passare da un lockdown all’altro, sacrificando la vita sociale, le relazioni, il buon lavoro e l’economia.
Nessuno, al momento, intende togliere alle persone la libertà di vaccinarsi, anche se è inconcepibile che chi opera a contatto con persone che potrebbero ammalarsi e morire non sia tenuto a darsi questa forma di protezione. È stato detto giustamente che “comunicare i vaccini è una sfida ardua, che va a impattare sulla sfera emotiva delle persone, sulle loro paure”. Ciò però non vale certo per gli addetti ai lavori. Il vaccino serve soprattutto per tutelare le fasce deboli della società e coloro che, per motivi medici, il vaccino non possono farlo davvero. Ma questo non sembra ovvio, tanto che sono dovuti scendere in campo, tra gli altri, il presidente Mattarella (“Dal vaccino segnali di speranza”) e papa Francesco (“È un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri”).
Il rifiuto del vaccino è anche, almeno in parte, espressione di quell’individualismo esasperato che è, a sua volta, un virus difficile da sradicare. È l’atteggiamento che induce a pensare di poter vivere come se gli altri non ci fossero. Al contrario le nostre scelte hanno sempre una ricaduta sugli altri. Come il vaccino: posso farlo per proteggere me stesso, ma anche pensando di proteggere gli altri. In tal caso ho capito di avere una responsabilità in più (che non vuol dire meno libertà).
Autore: Paolo Bill Valente