“Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”. Queste parole, dopo oltre ottant’anni, suonano oggi di tragica attualità.
È l’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) che continua così: l’individuo “ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
Se ci fermiamo al “diritto all’abitazione” non possiamo non pensare alle persone cosiddette “senza dimora” che in questi giorni, in cui è fatto obbligo di rimanere a casa, una casa non ce l’hanno. In realtà non è proprio così. Molte di queste persone vivono in strutture messe a disposizione da comuni e comunità comprensoriali. Solo la Caritas diocesana ne sta accogliendo circa duecento (oltre alle varie altre forme di housing, per i profughi, per famiglie in difficoltà, i lavoratori ecc.).
Il diritto alla casa ispira un approccio (sviluppatosi negli Stati Uniti e in Europa) che va sotto il nome di “Housing first” (la casa prima di tutto). Secondo questo modello l’abitazione, nei percorsi di integrazione/inclusione sociale, non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. È il riconoscimento di quella dignità sulla quale (ri)costruire tutto il resto.
Già nel 2017 le Linee guida provinciali – “Interventi per persone senza dimora” – hanno definito “un passo fondamentale” l’avvio “di un progetto pilota Housing first”. L’assessorato al Sociale (W. Deeg), malgrado le difficoltà di ordine finanziario legate all’attuale crisi, intende ora “offrire, oltre a un sostegno economico, anche un aiuto strutturale rafforzando ulteriormente il progetto Housing first” e in tal modo dare concretezza al diritto alla casa.
Autore: Paolo Bill Valente