Con Anna Bernard di OutBox facciamo il punto sul progetto Breathe! che ha fatto sbarcare l’arte urbana in Alto Adige. Con lei delineiamo la dimensione “comunitaria”, elemento fondante di questo tipo di espressione che durante la pandemia ha svolto un importante ruolo di “valvola di sfogo”.
Quella dell’arte urbana è un’esperienza ancora giovane, nuova in provincia di Bolzano, ma che sta prendendo sempre più piede, facendo parlare molto di sé soprattutto dopo le prime opere realizzate a Bolzano, Merano e Laives.
Giusto lo scorso 14 giugno l’artista Egeon ha presentato l’ultimo step del progetto Breathe!, un’opera realizzata a Laives e intitolata “Punto di fuga”. Nello scorso mese di maggio era toccato a “Sera”, realizzato a Merano dalla giovane artista catalana Elisa Capdevila, mentre in aprile era stato il sardo Tellas ad intervenire sulla parete cieca di un edificio in via Brennero a Bolzano.
L’INTERVISTA
Anna Bernard, com’è nato il progetto Breathe! ?
L’idea ha cominciato a girare a fine 2018. E la scintilla che ha fatto partire il tutto è stato il murale di Egeon in via Roen a Bolzano, che ho curato personalmente come operatrice culturale. In origine è stata una sfida per me: ero tornata da poco dall’estero e volevo portare questo tipo di arte in Alto Adige. Si trattava di un territorio completamente inesplorato, graffitismo a parte.
I graffiti sono in realtà un’altra cosa…
L’origine è comune, ma in realtà l’arte urbana si sta evolvendo davvero in un’altra direzione rispetto ad esperienze come quella di MurArte a Bolzano.
Insomma: il murale “Ricorda la bellezza” di Egeon in via Roen a Bolzano in sostanza è stata una porta che si apriva su un’esperienza nuova.
Sì. E il tutto è nato proprio dall’incontro con lui, che da anni voleva realizzare un’opera di grandi dimensioni. Per questi artisti è molto difficile fare “palestra” e lo è in particolare per le donne, perché spesso possono individuare le loro superfici solo in contesti non del tutto legali. Egeon in particolare nel suo studio aveva una parete su cui faceva i suoi esperimenti, ma naturalmente è un’altra cosa avere a disposizione la grande facciata di un palazzo in città. In via Roen è stato molto difficile riuscire a partire, ma poi la cosa ha suscitato un grandissimo interesse a livello comunitario.
L’arte urbana viene definita “arte pubblica”. Cosa significa?
In realtà si tratta della sua natura principale. Nasce tra le persone e attraverso una performance in cui anche la comunità diventa attrice, lo abbiamo visto recentemente anche a Merano e Laives. Le persone commentano durante la realizzazione e noi cerchiamo di essere presenti per instaurare un dialogo. Per noi è molto importante sapere cosa ne pensano le persone. Di per sé si tratta di un esperimento sociale, in tutto e per tutto. è molto affascinante: l’opera resta visibile a tutti e anche negli anni, anche se non durerà per sempre. Con gli anni infatti gli agenti atmosferici la deterioreranno, così come succede con ogni facciata dipinta dei palazzi.
Nelle opere vengono previsti riferimenti alle realtà socio culturali in cui vengono realizzate?
Non è detto, ma può anche essere. In ogni caso l’arte non ha il ruolo di “dare” alla comunità quello che si aspetta. L’arte urbana non ha nulla a che vedere con la pubblicità, ne abbiamo già tantissima, siamo bombardati. L’arte deve andare oltre, altrimenti non sarebbe arte. Non sto parlando di massimi sistemi, anzi. Ma noi vogliamo che il messaggio lanciato dall’artista arrivi in modo chiaro e anche a chi non ha uno specifico background culturale.
Parliamo della vostra organizzazione. OutBox è un nome profetico. “Fuori dalla scatola” aveva senso già prima, figuriamoci ora, dopo più di un anno di pandemia…
E’ una finestra che si apre, il messaggio è quello dell’arte che vuole arrivare alle persone e non il contrario. Di solito diciamo alle persone di andare alla mostra, a teatro, al cinema. In questo caso invece siamo noi che andiamo da loro.
La realizzazione delle opere è preceduta da una mappatura sul territorio e poi con i residenti voi impostate un vero e proprio percorso. Come funziona tutto ciò?
Ogni situazione è diversa. A Merano ci siamo rapportati addirittura con un quartiere e con i suoi rappresentanti, ed abbiamo coinvolto anche i giovani del posto. Anche nel caso di Via Brennero a Bolzano abbiamo coinvolto le realtà giovanili interessate alla natura, all’arte urbana o più in generale alle “azioni pubbliche”. Con i giovani abbiamo anche parlato della street art e del suo rapporto tra legalità e illegalità.
In Via Brennero a Bolzano siete intervenuti in una zona del centro storico. è stato più complicato?
Ci abbiamo lavorato per ben due anni e abbiamo dovuto partecipare a diverse riunioni condominiali. Una delle cose più complicate è far capire alle persone che pur venendo realizzata su una parete privata, poi l’opera ha una funzione pubblica e diventa una sorta di regalo che viene consegnato alla comunità. Un altro aspetto complesso riguarda la questione che l’opera deve ricevere sì il via definitivo da parte del condominio (che in ogni caso non possono imporre un loro soggetto), ma davvero non ha alcun senso pensare che l’opera debba per forza piacere a tutti.
Questi interventi artistici nella realtà urbana non per forza servono per abbellire, ma piuttosto ad intervenire sui cosiddetti “non luoghi” della città.
L’arte urbana non ha lo scopo di rendere bello un luogo, ma piuttosto di incontrarlo, quasi come fosse una tela per un pittore. Il tessuto urbano ha il suo fascino ed è bello di per sé, spesso anche quello più scarno e degradato. Il linguaggio dell’estetica va ben oltre il solo concetto di “abbellire”.
Non c’è nemmeno la necessità di creare una nuova identità per il luogo interessato. Si tratta piuttosto di portare lì l’attenzione. E va anche detto che l’arte urbana non ha il magico potere di sistemare i problemi, riqualificando. L’arte non ha questo ruolo e di questo c’è consapevolezza in Alto Adige, non ci è mai stato chiesto di fare ciò.
Il progetto Breath!, come abbiamo detto, è nato in un periodo pandemico. Cos’ha voluto dire?
E’ stata una vera e propria valvola di sfogo: questa forma d’arte era una delle poche che potevano essere praticate con una certa facilità. C’era senz’altro l’idea di lasciare anche un segno di quanto è successo per gli anni a venire, però senza essere troppo didascalici. Siamo stufi di vedere mascherine nelle opere ed io personalmente questa cosa la trovo stucchevole. Volevamo creare comunque qualcosa di positivo, d’altronde Breathe! contiene una chiara sollecitazione per tornare a respirare. Come dire: “respira, cammina per le strade e guarda in alto”. In questo senso abbiamo ricevuto fin dall’inizio un grande sostegno da parte dell’Ufficio Politiche Giovanili della Provincia.
Come vengono selezionati gli artisti?
Il lavoro in questo senso è molto simile a quello che viene fatto da una direzione artistica e da una curatela. Conosco molti altri curatori e ho girato, partecipando anche a dei festival che si occupano di queste cose. Ci sono anche gallerie che seguono proprio l’arte urbana e molti libri in merito. E da qui vengono le idee che portano a stabilire i contatti con gli artisti.
Nel manifesto del progetto si parla di “promozione della ricerca artistica, delle professionalità artistiche e anche del know how di produzione, progettazione e manutenzione delle opere”.
L’arte urbana economicamente è abbastanza accessibile, ma con Outbox vogliamo anche far capire che dietro c’è un impegno importante. Se si vuole fare un buon lavoro bisogna organizzare le cose per bene e sostenere gli artisti anche nel lavoro di ricerca e preparazione che precede l’opera. Noi siamo il tramite tra la parete, i privati, la comunità, le istituzioni pubbliche e l’arte stessa. Una bellissima scommessa.
Foto servizio: Tiberio Sorvillo curated by OUTBOX
Autore: Luca Sticcotti