Da sempre quando si avvicinano le festività di fine anno il mio pensiero va all’origine etimologica della parola auguri. Nell’antica Roma e fra gli Etruschi esisteva un tipo di sacerdote il cui compito era interpretare la volontà degli dèi dal volo degli uccelli. E proprio questi erano gli àuguri.
Leggere il volo degli uccelli… si tratta di un’immagine davvero piena di poesia.
E oggi, quando da millenni ormai nessuno più contempla il volo degli uccelli per trarne auspici, l’augurio rimane comunque un desiderio, una buona speranza che si esprime in occasioni speciali. Quasi come se già si conoscesse il volere delle divinità, corrispondente a ciò che si augura.
Il mio pensiero torna però lì: osservare il volo degli uccelli non ci farebbe male anche oggi. Ci servirebbe per liberare la mente da stress, ansie e – magari – pensieri negativi. Si tratterebbe di una sorta di meditazione che – facendoci volgere lo sguardo verso l’alto – potrebbe aiutarci a dimenticare, per qualche secondo, le miserie del nostro… “basso”.
In ogni caso fa impressione pensare che qui, proprio dove siamo adesso, persone come noi ma con credenze diverse ci abbiano lasciato in eredità idee e modi di dire così duraturi.
Questa cosa ci fa percepire – nell’augurare buon anno, o buon Natale – una radice profondissima. Facendoci rendere conto che le nostre parole non sono che l’antica sedimentazione di altre parole pronunciate da chi, tanti anni fa, condivideva la nostra stessa terra e… il nostro stesso cielo.
A ciò va aggiunto che l’etimologia della parola auguri nella nostra provincia si può inoltre combinare con quella dell’analogo verbo in lingua tedesca. Nello specifico “wünschen” sposta l’attenzione sul desiderio che ci anima quando facciamo gli auguri, compiendo una vera e propria “scelta” di fondo, legata – mi dicono – ad un termine Proto-IndoEuropeo che significa anche amare.
Il cerchio si chiude, insomma.
Buone feste!