Ötzi – nome della mummia dell’età del rame ritrovata nel 1991 –, l’uomo più noto e studiato della preistoria altoatesina (e non solo), non era ancora nato e l’era della lavorazione dei metalli era molto lontana. Pietre, in particolare selce, legno e ossa animali fornivano la materia prima per armi da caccia e utensili domestici. La ceramica, testimone prezioso delle fasi successive, sarebbe apparsa solo millenni più tardi con l’attività agricola e la necessità della conservazione dei cibi. Comunque, va detto che la scoperta di diversi siti relativi al periodo postglaciale soprattutto in Anatolia (Gobekli Tepe su tutti) ha rivoluzionato la nostra conoscenza di quelle “primitive” società umane, capaci, nonostante la vita nomade e la scarsità dei mezzi, di realizzare opere monumentali di grande rilievo. D’altronde, che l’ambito artistico-magico-religioso fosse parte integrante già di quelle culture arcaiche è noto fin dal ritrovamento delle pitture rupestri.
I ghiacciai che per millenni avevano ricoperto la valle dell’Adige, rialzandone il piano di circa 200 metri e rendendola inabitabile e impossibili gli scambi tra popolazioni stanziate di qua e di là delle Alpi, si stavano rapidamente ritirando grazie al miglioramento delle condizioni climatiche. La Val d’Adige e le catene montuose che la delimitavano a oriente e occidente divenne perciò meta di cacciatori e raccoglitori provenienti dall’area trentino-lombardo-veneta. Gli studiosi degli insediamenti e dei movimenti dei cacciatori-raccoglitori mesolitici sono riusciti a individuare molti vecchi percorsi in alta quota con i relativi ripari occasionali e stagionali. Nulla era lasciato al caso ma ogni particolare doveva rispondere a precise esigenze. Sorprende – o forse no – che i percorsi corrispondano in gran parte a quelli ancora oggi frequentati da pastori o escursionisti. Per quanto riguarda i campi in altura, ovviamente finalizzati all’attività venatoria in particolare di cervi, stambecchi e camosci, venivano scelti in base a criteri ben precisi: vicinanza a fonti idriche, buona visibilità per poter seguire i movimenti della selvaggina, vicinanza ai principali percorsi di caccia. Si calcola che i cacciatori “piantassero le tende” in luoghi che permettessero di sfruttare un territorio percorribile a piedi in un tempo massimo di quattro ore.
Nel fondovalle, sono stati individuati alcuni siti – quasi sempre lungo corsi d’acqua – sul Dos Trento, a Mezzocorona e Zambana, al Dos della Forca a Salorno, ai laghi di Monticolo, a S. Giacomo di Laives (uno dei primi, ne riparleremo), a Castel Firmiano e a Cornedo. Tutto sommato pochi rispetto a quelli molto più numerosi in altura tra i 1800 e i 2300 metri.
Due i percorsi principali seguiti dai cacciatori mesolitici: sul versante orientale, dal Lago Santo al Passo Oclini e Lavazè e da qui verso l’Alpe di Siusi, il Passo Gardena fino all’Alpe di Rodengo. Sul versante occidentale, la salita iniziava al Bus del Spin e arrivava a Favogna e sulla Mendola, per terminare poi al Passo Palade e sul monte Luco. Non è escluso che i cacciatori compissero con i propri famigliari al seguito un vero e proprio tour di alcuni mesi con soste non più lunghe di una settimana in ogni sito.
La catena della Mendola, raggiunta sicuramente attraverso la Val di Non, che poi nella stagione fredda offriva ottimi ripari, era frequentata lungo tutta la dorsale, dal Macaion a Malga Romeno, dal Rifugio Mezzavia al Penegal. Moltissimi siti nei pressi di ruscelli, rocce sporgenti o pietre erratiche testimoniano la presenza di gruppi di nomadi e i resti ritrovati nel terreno carbonizzato riguardano soprattutto schegge di selce, a dimostrazione del fatto che i cacciatori utilizzavano la selce della Val di Non e la lavoravano sul posto. La caccia avveniva preferibilmente tra le praterie alpine e le zone boschive. Sul dosso del Monte Campana, tra Cavareno e Caldaro, i ritrovamenti presso un rogo votivo testimoniano la continuità del sito fino all’età del Bronzo finale.
Autore: Reinhard Christanell