Un evento intimo, meno di dieci persone tra amici e addetti ai lavori, così il poliedrico Peter Burchia ha presentato il suo primo disco da solista, nella cabina di regia del suo studio atelier, un ascolto privilegiato sul piatto di un vecchio giradischi, come una volta, quando a casa degli amici si ascoltava il nuovo ellepì di questo o di quell’artista, per condividere prime impressioni e sensazioni.
Peter Burchia non è un novellino, è noto per essere uno degli Shanti Powa, per aver fatto parte dei Color Colectif e, perché no, anche per il suo essere un busker che non disdegna (anzi!) di suonare agli angoli delle strade.
Look Back, questo il titolo del lavoro solista, è frutto di una selezione tra molte canzoni scritte da Burchia negli ultimi anni, canzoni suonate e risuonate nelle situazioni più disparate che non avevano però trovato spazio fisico su un supporto e che lui non voleva assolutamente andassero perdute: uno sguardo al passato per potersi poi dedicare al futuro senza correre il rischio che il passato passi in cavalleria.
“Negli ultimi dieci anni ho scritto davvero molte canzoni – ci racconta tra l’ascolto del primo e del secondo lato del disco –, e le ho spesso cantate nei concerti, ma non le avevo mai registrate. Rischiavano di finire nel dimenticatoio per fare spazio a nuove idee, a nuovi brani. Così ho deciso che era venuto il momento di fermarle. Ma dovevo farlo in un modo che mi fosse congegnale, naturale, dovevo essere attrezzato in ogni momento per non perdere la scintilla, così ho cominciato a pensarmi il disco, la scaletta, i suoni. La cosa principale è che tutto doveva essere essenziale, senza troppi artifici. Così ne ho parlato con Jürgen Winkler, ci siamo sondati a vicenda per capire se c’era il feeling giusto, poi lui ha installato un po’ di apparecchiature nel mio atelier in modo che quando ci fosse stata l’ispirazione, giorno o notte che fosse, mi bastasse schiacciare un pulsante per registrarmi. Avevamo considerato l’idea di usare come studio la cabina di regia, ma poi è stato naturale dirottarsi sullo spazio dove dipingo, lì è il mio habitat, il posto in cui mi trovo in assoluto più a mio agio.”
Ci sono voluti cinque mesi, ma ora, ascoltato e riascoltato il disco ha dell’incredibile, un vinile (ma in formato digitale è sulle classiche piattaforme) dal sapore antico ma fresco, incredibilmente contemporaneo. Burchia e Winkler sono riusciti ad assemblare un piccolo miracolo, un disco senza trucchi in cui i brani sono suonati dall’inizio alla fine, e le poche sopraincisioni sono integralmente dal vivo, niente copia e incolla, niente loop, niente inganni. Non sono moltissimi i musicisti che sanno già come un brano debba suonare prima ancora di cominciare a registrarlo, ne conosciamo qualcuno, e Burchia è uno di questi. La sua voce ne esce ottimamente, una voce ricca di colori, sfumature, umori, senza bisogno di autotuner e altre diavolerie.
Jürgen Winkler, architetto e musicista (è il chitarrista degli eclettici Eseleptitun) si è occupato di trovare i microfoni giusti: “Peter – ci dice – aveva le idee molto chiare su quello e il disco lo abbiamo fatto nel rispetto di queste idee, la voce avanti rispetto agli strumenti, e gli strumenti che si possono ascoltare in maniera distinta ma al tempo stesso compatta. È tutta farina del suo sacco, prima ha fatto i take con chitarra acustica e voce, tutto d’un fiato, poi le altre chitarre, acustiche o elettriche, io mi sono limitato al basso e all’organo, sempre in accordo con lui, e a dare qualche consiglio sulla take da scegliere.”
Il risultato è un disco con sonorità elettroacustiche che talvolta riconducono ai dischi Nick Drake, senza quella coltre di pessimismo e malinconia che è il marchio di fabbrica del songwriter britannico, ci sono richiami agli anni settanta, ma nel contempo citazioni ragamuffin fanno più che capolino in Those Days of Love, in cui la vena del Burchia cantautore si miscela con i suoi trascorsi negli Shanti Powa, complice il compare Berise nella stesura del rap. Unica ospite del disco (oltre al coproduttore Winkler) è Nina Duschek, busker meranese la cui voce si mescola perfettamente e senza esagerare con quella del titolare nel brano Things To Change; tra gli altri titoli da tenere presenti anche Black Countryside e The Wind, oltre al brano d’apertura Walking Threw e alla title track in chiusura, entrambi rigorosamente in versione acustica: “Una cosa su cui non ho mai avuto dubbi – conclude Burchia – è che il disco dovesse cominciare e finire senza null’altro che la mia voce e la mia chitarra acustica”.
Autore: Paolo Crazy Carnevale