L’assonanza fra “polenta” e “Caldaro”

La storia, si sa, spesso si nasconde nelle parole. Una di queste è “Plent”, con la quale a Caldaro (e poi nel dialetto sudtirolese in generale) si definisce la polenta di mais, pietanza tipica del Veneto, della Lombardia e del Trentino. “Plentnkessl” è invece il paiolo di rame in cui la vivanda viene cucinata e che compare nello stemma comunale di Caldaro. Non è dunque un caso se gli abitanti di questo comune venivano sopranominati “Plentnfresser”, mangiatori di polenta.

In effetti, la polenta, reminiscenza culinaria e lessicale per certi versi paragonabile alla famosa madeleine proustiana,  era la padrona incontrastata della tavola caldarese fino alla metà del secolo scorso e veniva consumata al posto del pane a colazione, pranzo e cena. 

Poi dai campi attorno al lago scomparvero le piantagioni di granturco (Tirggn) e la tradizionale polenta cotta sotto le vigne cedette il posto ad altri alimenti. 

Plent, vivanda e termine, furono “importati” dal vicino Trentino, in particolare dalla Val di Non. Come pure quel “Tschink”, storpiatura di  sindaco, appellativo del capo del “Rigl”, ossia della regola. 

Del resto, i strettissimi legami tra Caldaro e la Val di Non, tipici di ogni confine linguistico, risalgono alla notte dei tempi e tradizionalmente molti contadini nonesi possedevano vigneti tra Caldaro e Termeno. Secondo alcuni storici è probabile che fino al XIV secolo Caldaro fosse un comune quasi completamente abitato da popolazione di lingua romanza originaria, per l’appunto, dei paesi oltre il passo della Mendola. Oggi  la presenza italiana si limita ad un 7% dei cittadini. 

Nella famosa lettera di S. Vigilio, risalente a un periodo tra il IX e il XII secolo, si narrano le vicende della nascita della parrocchia di Caldaro, che sarebbe stata fondata dallo stesso vescovo trentino vissuto nel IV secolo. 

Nei boschi di Castelvecchio ancora oggi troviamo i ruderi della basilico di San Pietro, raro esempio di edificio religioso risalente agli albori del cristianesimo in Tirolo. Nel documento e in molti altri atti notarili successivi la località compare sempre con il nome di Caldare. 

A partire dal XIV secolo, inizio della lenta tedeschizzazione di Caldaro, il nome viene latinizzato in Caldarium, con possibile riferimento al paiolo che ancora oggi compare nello stemma comunale. Da quel periodo in poi iniziò la lenta trasformazione del nome. Da Chaldar e Chaltar si passò a Chalter,  finché in un atto notarile redatto a Merano troviamo un significativo “vinea iuxta Calderem, quod in vulgo dicitur Chalter”. La -n finale di Kaltern può invece essere interpretata come la desinenza al dativo di Chalter, ossia “a Caldaro” o “di Caldaro”. 

Non è escluso che Caldaro, come sostiene il linguista originario della Val di Non Carlo Battisti, nel periodo longobardo facesse parte della gastaldia di Romeno. Certo è che Caldaro e Termeno erano occupate dagli arimanni del ducato di Trento, tanto che le leggi longobarde rimasero in vigore anche molti secoli dopo la scomparsa dei Longobardi stessi. 

Tra i proprietari terrieri di Caldaro, a partire dall’epoca in cui questi vennero registrati, troviamo molti nomi di origine romanza accanto ad altri provenienti prevalentemente dalla Baviera. Singolare anche il fatto che molti nomi siano orgogliosamente accompagnati dall’indicazione della località di provenienza della persona, per cui abbiamo proprietari originari “de Cavareno, de Romeno, de Malusco, de Sarnonico, de Roncuno, de Segio, de Castro Fundo, de Melango (Castelfondo). La stessa parrocchia di Romeno possedeva molti terreni nel territorio di Caldaro. Nel XIII secolo Caldaro venne occupata da Mainardo II che la sottrasse al Vescovo di Trento Enrico. Mainardo mise a capo del comune i conti di Rottenburg, originari di Jenbach in Tirolo. Nel 1308 il territorio fu restituito al vescovo ma i Rottenburg rimasero al loro posto. 

Autore: Reinhard Chrstanell

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