“Laives? No grazie!”: con questo titolo “rubato” alla campagna contro l’energia atomica, il periodico degli studenti universitari sudtirolesi “Skolast” pubblicò un articolo piuttosto critico sul comune di Laives e le prospettive della sua gioventù.
Correva l’anno 1991. Il ’68 e il ’77 barricadieri erano un lontano ricordo, qualche protagonista di quel periodo storico era rientrato nei ranghi “dell’arco costituzionale”, altri si erano definitivamente persi. La militanza politica giovanile aveva ammainato bandiera e il futuro delle nuove generazioni era tutto da inventare. L’autore del testo, Ugo Pozzi, sintetizzo così la situazione sociale della cittadina: “Realtà paesana, problematiche cittadine”. Ormai da qualche decennio Laives, che dal 1985 poteva fregiarsi del titolo di città dovuto a una crescita demografica abnorme, si trascinava un problema “esistenziale” per così dire grosso come una casa. Grazie ad una politica urbanistica a dir poco generosa e alla contestuale “chiusura” della città di Bolzano imposta dall’allora potente assessore Benedikter, il paese continuò a lievitare in modo sciagurato. Gli abitanti crescevano di anno in anno, non c’era campo o vigneto che non cadesse nelle mani degli speculatori edilizi bolzanini e locali – che peraltro non hanno mai smesso di comportarsi da padroni del vapore. Intere vie erano nate o nacquero in quegli anni: via Marconi, via Andreas Hofer e Galizia, via Nazario Sauro, la zona 46 (ex-Fuchser) e così via. Gli abitanti passarono dai 5000 del dopoguerra ai quasi 15000 degli anni ‘90. Un salto nel buio, uno choc identitario che nessuna realtà sociale può superare indenne. Scriveva giustamente Pozzi: “Infatti, al di là del volume sociale del comune, che si aggira all’incirca sulle 15-16000 unità, la mentalità è ancora fortemente agricola o più propriamente paesana. Bar alla sera e chiesa alla domenica sono le attività principali della popolazione, attività queste che nascondono problemi da sobborgo metropolitano come la violenza, la delinquenza giovanile e la droga tra tutte”. In effetti, se lo strato più antico della popolazione continuava a vivere come sempre, seguendo i riti e i ritmi della vita contadina, i nuovi arrivati, “spaesati” nel verso senso della parola, stentavano ad integrarsi. Del resto, non bisogna dimenticare che questa non era la prima violenza demografica che questo luogo subiva: basti ricordare che nel 1823 contava 736 abitanti e 95 case, viveva di agricoltura e di quel che offriva l’economia legata alla navigazione sull’Adige. Nel 1900 gli abitanti erano già 2513, l’immigrazione dal Welschtirol e da alcune zone lombardo-venete avevano stravolto le fondamenta sociali del paese. Il fascismo diede il colpo di grazia alla vecchia Laives, che in breve tempo raddoppiò gli abitanti. Furono soprattutto operai della zona industriale di Bolzano a insediarsi in paese. Ma il vero botto alle strutture sociali avvenne dagli anni ‘70 in poi: pur conservando il nucleo contadino di epoca asburgica, Laives divenne la classica località di periferia – con tutte le conseguenze. Scrisse ancora Pozzi: “Non a caso Laives è uno dei principali mercati per il traffico di stupefacenti altoatesino. Sembra addirittura che la droga vada da Laives a Bolzano e non viceversa! Coinvolti in questa spirale senza fine sono chiaramente i giovani che mal si adattano alle paesane abitudini e cercano in tutti i modi l’evasione”. Tra le mancate “possibilità di evasione” Pozzi cita: “Niente cinema, niente locali adatti dove poter suonare o ritrovarsi al di là del circolo “FENALC” inadatto a soddisfare le sempre maggiori richieste e in procinto di abbattimento”.
E allora? Laives si trasforma in dormitorio, le grida dei giovani, “che reclamano sempre più un luogo proprio ove poter finalmente vivere la propria vita con modalità meno conformistiche e alienanti” incontrano un comune “sordo che mena il can per l’aia citando a intervalli regolari il progetto Laives 2000 comprendente una stupenda casa della cultura”.
“Sarà utile che il comune di Laives pensi a tutto ciò e tenga conto che in futuro ci potrà essere qualcuno che dirà basta …” conclude l’articolo Pozzi. Forse non sapeva che prima o poi anche il disagio si trasforma in normalità.
Autore: Reinhard Christanell