Melissa: “ecco cos’è l’emigrazione”

Questa è la storia di Melissa De la Caridad Rodriguez Ortiz, donna che è dovuta scappare da Cuba a ventitré anni con il piccolo bambino, verso l’Italia. Dalla Russia alla rotta Balcanica con il pensiero costante di dover portare suo figlio al sicuro e con la paura di non riuscire a sopravvivere, lasciando dietro di sé le persone care senza sapere se un giorno le potrà rivedere.

Quando si parla di emigrazione e immigrazione a livello di opinione pubblica spesso ci si ferma alle problematiche relative alla sicurezza e all’impossibilità di gestire questi flussi che diventano incontrollati nella maggior parte dei casi solo a causa di precise scelte (o non scelte) politiche.
Abbiamo dunque pensato che potesse essere interessante raccontare la storia vera di una giovane donna che lavora come badante in Alto Adige e che è arrivata qui in maniera a dir poco rocambolesca (e pericolosa) assieme a suo figlio di tre anni. Interessante è anche la sua provenienza: non si tratta né di Africa né di Medio Oriente, ma del Centro America.

L’INTERVISTA

Melissa, ci dice in breve la sua origine?
Sono di L’Avana. Io e mio figlio Adriano siamo in Italia da due anni. A Cuba mi sono laureata in infermieristica e lavoravo in terapia intensiva pediatrica. Qui invece, a causa di problemi di equiparazione dei titoli, faccio la badante.

Perché è scappata da Cuba?
A Cuba mancava quasi tutto, ma dopo la pandemia anche beni di prima necessità, come medicine e alimenti per i bambini che sono diventati introvabili. L’11 luglio 2021 le persone hanno iniziato a manifestare prendendo di mira tutto ciò che potesse far pressione sullo Stato. In ospedale sentivamo le persone che lanciavano i sassi alle finestre e sono iniziati ad arrivare molti bambini feriti. Il governo ha attuato una repressione violenta. Ho smesso di sentirmi sicura, ho iniziato a pensare a mio figlio che doveva crescere e, in novembre, ho deciso di andare via. Ho venduto tutto per comprare i biglietti aerei per la Russia: l’unico Paese per il quale non avremmo dovuto aspettare costosi visti. Sono partita con il mio allora marito e Adriano.

Com’è arrivata in Italia?
Ho viaggiato per sette mesi. Come detto la prima tappa è stata la Russia. Da lì abbiamo preso un aereo per la Serbia. In seguito siamo arrivati in Bosnia pagando 300€ a persona per un trasporto in barca. Arrivati lì, ci siamo spostati nella capitale Sarajevo, nel centro di accoglienza Ušival, che si trova sulla rotta Balcanica. Lì le persone sono state bravissime con noi. Poi abbiamo preso un bus per il confine croato da cui abbiamo continuato a piedi in montagna lungo la rotta che molti conoscono perché su di essa è stato creato il videogioco “The Game”. Mi ricordo benissimo, siamo partiti alle 23 e siamo arrivati alle 6 di mattina. Mio figlio per tutto quel tempo non ha potuto mangiare o bere ed era impaurito dal buio totale. Non potevamo farci vedere mentre attraversavamo il confine: c’erano i poliziotti con i cani. In Croazia un’associazione ha mandato un minivan per portarci in un hotel a Zagabria, dove ho dovuto richiedere Protezione Internazionale per poter restare. Per arrivare al confine sloveno abbiamo quindi preso un bus. Alle 18 abbiamo iniziato a camminare e abbiamo dormito in un bosco fino alle 6 del mattino. Sentivamo i lupi e vedevamo le impronte degli orsi. Avevamo molta paura. Abbiamo dormito in un buco con delle pietre appuntite sperando che avrebbero tenuto lontani gli animali. La mattina abbiamo iniziato a scendere da una collina. Era così ripida che scivolavamo e l’unico freno erano gli alberi. Il bambino mi preoccupava tantissimo, ma mi ripetevo che eravamo lì per il suo bene. In Slovenia eravamo finalmente nell’Unione Europea e allora abbiamo chiamato i poliziotti che ci hanno portato in un centro di accoglienza dove siamo rimasti in attesa di un documento per poter uscire. Una volta ottenuto il documento abbiamo raggiunto il confine italiano e mio fratello è venuto a prenderci per portarci a Bolzano. Mi ha fatto sentire benissimo vedere il confine italo-sloveno: c’era solo un binario, lo passavi ed eri arrivata.

Qual è stato il momento più difficile?
In Russia. È un Paese molto freddo, le persone sono denigranti e razziste. Un giorno mi è stato richiesto di pagare per dormire la notte: sono andata a un bancomat, ma al ritorno mi sono persa e mi si è spento il cellulare. Due poliziotti allora mi hanno fermata e chiesto cosa stessi facendo; non parlando la lingua ho risposto in spagnolo dicendo che mi ero persa. Allora loro hanno utilizzato il telefono per usare il traduttore e così ho potuto spiegare chi ero e che mi ero persa. Loro si sono messi a ridere e a prendermi in giro, si sono accesi una sigaretta e mi hanno ordinato di spogliarmi. La temperatura segnava -28°. Mi hanno anche fatto togliere le scarpe e mettere i piedi nella neve. È stata una delle esperienze più traumatiche della mia vita. Ma ora tutto è passato, mi sento meglio. Tutto ciò che sono riuscita a fare, anche da sola, mi rende orgogliosa: ho iniziato a lavorare, ho sempre lavorato senza sosta, ho trovato casa e mio figlio va a scuola.

Qual è stato il suo pensiero più costante?
Il mio pensiero più costante è stato se sarei arrivata e se sarei arrivata viva. Anche perché scendendo dalla collina in Slovenia ho visto alcune mamme che si buttavano con i figli e che quindi morivano. Con mio figlio sulle spalle vedevo questo e mi chiedevo se, invece, io ce l’avrei fatta.

L’accoglienza a Bolzano com’è stata?
Negli uffici dove sono dovuta andare non sono riuscita a ricevere tutte le informazioni necessarie e mi sono sentita emarginata. Nel centro di accoglienza i bagni non erano divisi e le persone aprivano la tenda quando mi lavavo, è stato traumatico. La Caritas invece mi ha aiutato tantissimo. Così come l’associazione GEA che quando sono stata vittima di violenza domestica mi ha fornito supporto psicologico, un appartamento e assistenza legale nel caso avessi voluto denunciare. Tra le persone “comuni” invece ho incontrato sia persone razziste che persone molto belle.

Suo figlio Andriano come ha vissuto tutte queste cose?
Adriano è stato bravissimo, ogni tanto mi chiedeva dove fossimo e quanto mancava alla destinazione, ma in generale non mi chiedeva niente di più di quanto non gli dessi. Aveva molta paura del buio, non mangiava e non beveva come avrebbe dovuto, io mi preoccupavo, ma lui mi abbracciava. Per tutta quella strada lui mi ha sempre abbracciato. Non so se gli sia rimasto qualcosa di indelebile nella sua memoria. La paura di stare da solo gli è passata, ma quella di dover “tornare lì in montagna” ancora torna. Ciò che mi ha fatto soffrire di più è stato fargli attraversare queste difficoltà, ma so che l’ho fatto per lui. Non avevo altra scelta.

Autrice: Anna Michelazzi

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