Via Bari: in arrivo la scuola “del futuro”

Nel quartiere Don Bosco nel giro di qualche anno sorgerà una scuola che si candida per divenire un luogo di vera avanguardia per tutto l’Alto Adige. In un edificio modernissimo troveranno spazio due sezioni di elementari e medie rispettivamente di lingua italiana e tedesca, che per la prima volta avranno davvero la possibilità di entrare in relazione. Ne abbiamo parlato con l’ex dirigente del Schulsprengel Bozen Europa Heidi NIederkofler, che è stata una delle principali promotrici del progetto. 

Heidi Niederkofler, com’è nato il progetto della scuola di Via Bari? 

Quando alle Pestalozzi hanno cominciato a mancare le aule perché la popolazione scolastica stava crescendo, l’intendenza italiana ci ha proposto di inserire una sezione di lingua tedesca nell’edificio della scuola Langer nel rione Firmian. La scuola Langer era già stato costruita, ma abbiamo cercato di fare in modo che non si trattasse solo di “buon vicinato” tra la sezione italiana e quella tedesca. La scuola dunque è stata impostata sulla base di un’idea di collaborazione e cooperazione. Non è stato semplice, i concetti erano diversi così come gli orari. Ma sono state fatte tante cose insieme, impossibili in altre scuole. Ci sono stati ad esempio collegi docenti e corsi di aggiornamento comuni due volte all’anno. 

In realtà come diceva lei alle Langer c’erano diversi limiti, infatti a un certo punto si sono dovuti impegnare anche i genitori, per cercare di promuovere reali momenti comuni di condivisione tra i ragazzi, specie nelle attività ludiche.

Ci sono voluti anni perché all’inizio c’era una sorta di corazza, ma abbiamo comunque avuto diverse sane contaminazioni. Poi però si è cominciato a parlare di un possibile progetto in via Bari. 

Lì c’era una matassa burocratica da sbrogliare…

Sì, tra Ipes e Comune. Il terreno era dell’Ipes ma era indicato come “area scolastica”. L’Ipes dunque non poteva costruirvi e finché il Comune non acquisiva il terreno non era possibile nemmeno l’edificazione della scuola. Quando la situazione si è risolta i due intendenti e l’allora assessore alla scuola mi hanno chiesto di vedere cosa si poteva fare. L’idea di fondo era quella di trasferire in via Bari i bambini tedeschi della Langer. Io li ho sconsigliati in merito: le nuove linee guida dell’edilizia scolastica dicono infatti oggi che là dove c’è una popolazione con diverse lingue non si fa più una scuola per i tedeschi e una per gli italiani, ma si fa invece una scuola unica per la popolazione.

Si tratta di un bel cambiamento, non c’è che dire.

Sì. Ai promotori ho detto che se avessimo fatto di nuovo scuole divise per lingua, sarebbe anche andata a cadere l’esperienza maturata alla Langer. E inoltre spostando bambini dalle Langer a via Bari ci sarebbe stata anche troppa distanza per alcuni di loro dalla loro abitazione. Ho quindi proposto una scuola per la popolazione del rione con otto classi di lingua tedesca e otto di lingua italiana, dalla prima elementare alla terza media. Ho anche suggerito che il progetto venisse impostato sulla base del concetto dei “tre incontri”. Innanzitutto “tra le generazioni”, con protagonisti ragazzi e bambini, in un contesto architettonicamente predisposto. La seconda categoria di incontro era ovviamente quella delle lingue, considerando non solo italiani e tedeschi ma anche stranieri. Il terzo livello era quello, moderno, dell’incontro tra scuola e natura. 

Per incontro tra generazioni si intendono anche gli insegnanti?

Sì, ma nel senso del far incontrare e lavorare insieme insegnanti delle elementari e delle medie, soprattutto nel momento del passaggio tra la quinta elementare e la prima media. L’idea in ogni caso era quella che ogni classe avesse una sua partner naturale, potendo lavorare (grazie all’architettura ad hoc) anche attraverso “gruppi aperti”. Ad esempio in diverse materie come inglese, scienze, musica, ecc.  

Si tratta di un concetto di scuola molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati…

Sì, e in cui non esiste un corridoio con le porte che vi si affacciano, ma piuttosto atrii con intorno le classi messe in comunicazione visivamente attraverso delle vetrate. Il progetto è stato approvato all’unanimità dalle tre intendenze, il Comune e la Provincia. 

Per quanto riguarda la contaminazione tra uomo e natura cosa ci può dire?

Tanto verde nella scuola e possibilità di lavorare fino al fiume. La scuola poi è vicina al Parco Semirurali che ha anche una valenza storica, oltre che naturalistica. A fianco ci sono anche gli orti delle donne Nissà, molto significativi. Su questa scia dunque è stato lanciato un bando di concorso per gli architetti. 36 di loro hanno inoltrato un progetto e in due giornate piene abbiamo scelto il migliore. La decisione è stata presa all’unanimità due anni fa. Il bando è stato vinto da un progetto presentato da due architetti di Padova. Nel progetto la mensa è all’ultimo piano e sul tetto ci sono sia orti che spazi ricreativi, separati tra elementari e medie. Siamo stati anche criticati: ci hanno detto che sembra un Hotel Riz. E noi abbiamo detto che questa era propria la nostra intenzione: offrire una cosa davvero preziosa ai ragazzi e al quartiere Don Bosco.

Sono progetti che traggono ispirazione da esperienze all’estero?

Sì, soprattutto in Olanda. 

La scuola quando verrà costruita?

I lavori dovevano iniziare nel 2021, ma per via del Covid e dei finanziamenti necessari i tempi saranno un po’ più lunghi. Ma sono già in corso di realizzazione i sondaggi geologici nel terreno.

Passione animazione

Massimo D’Amico è meranese d’adozione da circa 10 anni, ma è nato in Puglia a San Vito dei Normanni, uno degli splendidi borghi pugliesi in provincia di Brindisi. Oggi lavora come vice direttore di un negozio di alimentari. Per 20 anni è stato animatore turistico, professione che gli ha permesso di girare l’Italia. Le sue passioni sono rimaste il ballo e la recitazione, che continua a coltivare anche a Merano.

La cosa che mi piace di me.

Il mio essere sensibile, ma nello stesso tempo volitivo.

Il mio principale difetto.

Per mia natura mi fido troppo delle persone, il che non sempre è un bene.

La volta che sono stato più felice.

Da capovillaggio ho interpretato la commedia di Vincenzo Salemme “E Fuori Nevica”. L’apprezzamento del pubblico che mi ha tributato una standing ovation a fine spettacolo mi ha davvero commosso.

La persona che ammiro di più.

I miei genitori, Francesco e Giovanna, che insieme hanno saputo tirar su 10 figli affrontando ogni difficoltà.

Un libro sull’isola deserta.

“La cena di Natale”, di Luca Bianchini.

La mia occupazione preferita.

Animatore turistico. L’ho fatto per 20 anni ed è un’esperienza che mi ha cambiato fortemente. Per il resto sono un patito di Top crime, starei delle ore a guardarli.

Il paese dove vorrei vivere.

Nella nostra Italia, un posto che non scambierei con nessun altro luogo.

Il mio piatto preferito.

Parmigiana di melanzane e polpette al sugo, quelle che mi preparava sempre mia madre.

Non sopporto…

La gente falsa e l’ipocrisia. 

Per un giorno vorrei essere…

Dotato di poteri soprannaturali per sistemare alcune “cosine” a livello planetario.

La mia paura maggiore.

Ammalarmi e vivere nella sofferenza..

Nel mio frigo non manca…

Verdura, yogurt e peperoncino piccante.

Se fossi un animale sarei…

Sicuramente un leone.

Mi sono sentito orgoglioso quando…

Sono riuscito a far ballare più di 2000 persone in un villaggio inCalabria, quando ero capo villaggio.

Il mio motto.

Vivi e lascia vivere, volere è potere.

Il capriccio che non mi sono mai tolto.

Mi piacerebbe regalarmi una crociera con la persona che amo.

Il giocattolo che ho amato di più.

Una riproduzione di Capitan Harlock, regalatomi a Natale da mia sorella Rita.

I miei artisti preferiti.

Renato Zero, Maroon 5, Lady Gaga, Michael Jackson, Mina.

Il dono di natura che vorrei avere.

Saper cantare.

Autore: Francesca Morrone

Una vita tra gli animali

Marco Mariotti nasce nel 1962 e si laurea in medicina veterinaria nel 1990 a Parma. Svolge la sua attività di clinico e chirurgo dei piccoli animali presso il suo ambulatorio a Egna. Negli anni, frequenta numerosi corsi in diversi ambiti della sua professione per approfondire le proprie conoscenze. Nel 2016 consegue il master in medicina del comportamento degli animali da compagnia, ampliando le sue competenze al loro benessere psico-fisico.

La cosa che mi piace di più di me.

Agisco con passione e intensità per raggiungere obbiettivi prefissati. 

Il mio principale difetto.

Sono un “testone”.

La volta che sono stato più felice.

Alla nascita di mia figlia Giulia. 

La volta che sono stato più infelice.

Il distacco dalle persone care mi piega.

Da bambino sognavo di diventare….

Un veterinario.

La persona che invidio di più.

Sono competitivo e ambizioso, ma l’invidia è un sentimento che non mi coinvolge. Poi la vita mi ha dato e mi dà tantissimo.

La persona che ammiro di più.

Ammiro chi riesce a esprimere la propria personalità e chi sa vivere emozioni con passione e coraggio.

Un libro da portare su un’isola deserta. 

“Al di là delle parole”, di Carl Safina.

L’ultima volta che ho perso la calma.

La perdo naturalmente! Importante per me è ritrovare l’equilibrio.

L’ultima volta che ho pianto.

Sono sentimentale ed emotivo. A volte mi lascio andare. 

La mia occupazione preferita. 

Il mio lavoro, la buona compagnia, i miei cani, lo sport e le camminate nella natura.

Il Paese/luogo in cui vorrei vivere.

Più che viverci vorrei esplorare e conoscere ogni anfratto di questo mondo. Amo viaggiare.

Il mio piatto preferito.

Carciofi, cucinati in qualsiasi modo.

Non sopporto…

L’arroganza e la presunzione.

Dico bugie solo…

Per scherzare.

La disgrazia più grande.

La perdita di Elda. Una carissima cugina che significava molto per me.

L’oggetto a cui sono più legato.

Mi lego agli oggetti che mi riportano alle persone care. Ho un piccolo gattino di ceramica (1 cm) che mi aveva regalato una carissima conoscente quando avevo 15-16 anni. 

La stravaganza più grande.

A Berlino, chiamato casualmente da un comico, sono salito sul palco durante il suo spettacolo. C’era tantissima gente e inizialmente mi chiedevo perché avessi accettato, ma poi mi sono lasciato trascinare ed è stato esilarante.

Per un giorno vorrei essere…

…in Africa ad ammirare gli elefanti.

Nel mio frigo non manca mai…

Qualche genere di conforto.

Una scatola in cambio di un sorriso

La prima edizione meranese dell’iniziativa solidale “Scatole di Natale per i più bisognosi” ha avuto un grande successo ed è inutile descrivere la gioia di bambini e bambine, uomini e donne che inaspettatamente hanno ricevuto un pacchetto da scartare come segno del Natale. L’ideatrice di tutto questo è una cittadina meranese: Deborah Polla, che attraverso il suo entusiasmo è riuscita a coinvolgere moltissimi meranesi. A descrivere meglio il progetto c’è Valentina Vizzi, la coordinatrice del centro giovani Tilt di Merano. 

Valentina Vizzi, in che cosa consiste questa generosa iniziativa?L’iniziativa esisteva già in altre regioni italiane, come Lombardia e Veneto, e consiste nel creare pacchi regalo per i più bisognosi, inserendo in una scatola di scarpe un indumento caldo, un passatempo, una dolcezza e un prodotto per la cura del corpo, il tutto accompagnato da un gentile biglietto d’auguri. 

Come si è realizzato a Merano il progetto?
Grazie alla generosità di una cittadina meranese, Deborah Polla, che un giorno ha condiviso un post sul suo profilo Facebook domandando ai suoi amici se avessero piacere di realizzare un’iniziativa simile. Dopo un ricco riscontro, si è rivolta a me e così insieme abbiamo valutato come poter organizzare la raccolta. Abbiamo condiviso la proposta con la rete dei centri giovani Youth Meran, che ha subito ben accolto l’iniziativa, mettendo a disposizione i propri centri giovani per la raccolta dei pacchi. 

Chi ha partecipato? 
L’iniziativa è stata accolta con grande generosità da cittadine e cittadini meranesi, famiglie, gruppi di amici, insegnanti, alcune classi delle scuole Deflorian, Galilei e le classi terze delle Negrelli, ma anche da gruppi sportivi come l’Asm Bike. È stato sorprendente: non ci aspettavamo una  partecipazione così numerosa!

Quante scatole siete riusciti a raccogliere?
In tutto siamo riusciti a raccogliere 216 pacchi: un successone!

A chi erano destinate le scatole?
Il giorno 24 dicembre grazie alla collaborazione di Caritas, Young Caritas e dei centri giovani, i pacchi sono stati raccolti e distribuiti alle famiglie ospiti presso casa Arnica, casa Sara, casa Ruben e presso il Centro Aiuto Vita.

Cosa vuol dire organizzare iniziative del genere soprattutto in un anno particolare come questo 2020 appena trascorso?
Significa ricordarsi degli altri, vuol dire partecipazione, impegno civile e comunità. Con questa iniziativa abbiamo voluto donare un sorriso a chi davvero non si aspetta più nulla e con esso anche una speranza di cambiamento. Il mondo potrebbe divenire un luogo migliore per molti, anche semplicemente attraverso piccolissimi gesti. Per far partire tutto questo è bastato un niente e ciò dimostra che ci può essere speranza per un futuro più solidale.

Autore: Chiara Caobelli

Una rockstar nell’Ottocento

Ludwig Van Beethoven: un nome noto a chiunque, anche a chi non capisce niente di musica classica;  quel “ta da da daaaan” è entrato nella coscienza popolare, due note che rappresentano anche nel linguaggio parlato il simbolo della suspance. 

Già, la famosa Quinta di Beethoven. La Quinta, non la Nona: la Nona è – per intenderci – una composizione più “gentile”: è quella scelta (dopo essere stata reinterpretata da Herbert Von Karajan) come Inno Europeo, e si ricorda chiaramente anche come colonna sonora nelle scene in cui Alex DeLarge, capo dei Drughi, viene “rieducato”  in carcere nell’”Arancia Meccanica” di Kubrick.

La Quinta sinfonia è quella che venne usata come sigla delle trasmissioni in italiano di Radio Londra durante la Seconda guerra mondiale, in quanto in codice Morse tre punti e una linea formano l’iniziale V di Victory. Ed è anche probabilmente lo stesso motivo per cui venne utilizzata per la graphic novel ed il film “V per Vendetta”. 

Una composizione che negli anni, in tempi moderni, è stata riadattata e modernizzata, operazione che ha aiutato chiunque a memorizzarla: fu riarrangiata anche in versione disco da Walter Murphy per il film “La febbre del sabato sera”, brano ripreso come cover dagli Elio e le Storie Tese che l’hanno riadattata ne “Il quinto ripensamento”. 

Se Bach è jazz (basta ascoltarsi le reinterpretazioni di Jacques Loussier o di Glenn Gould per rendersene conto), Beethoven è rock: a dare forza a questa teoria ci aveva pensato Steve Vai, guru della chitarra distorta e degli “shredder”, i virtuosi delle sei corde, che verso la fine degli anni 90 l’aveva registrata in chiave neometal. Una versione che fa parte (seppur modificata a suo piacimento) del repertorio del sex symbol del violino, David Garret.

Il nome del grande compositore appare anche altri contesti musicali; nel 1956 Chuck Berry compose “Roll over Beethoven”, grande classico del rock’n’roll. Pare che Berry scrisse la canzone in risposta a sua sorella Lucy che occupava sempre il pianoforte di famiglia per suonare la classica mentre lui voleva scrivere i suoi pezzi. 

Anche gli Eurythmics nel 1987 pubblicarono un pezzo intitolato “Beethoven (I love to listen to)”, un brano particolare, molto elettronico e parlato, che raccoglie sonorità tutte anni Ottanta, ma decisamente innovativo per l’epoca.

Ma Beethoven è celebre al grande pubblico anche per altre composizioni, come “Al chiaro di luna”, per esempio: romantica, delicata, arpeggiata, colonna sonora di innumerevoli pellicole fra cui “Il pianista”, “Misery non deve morire”, “Confessioni di una mente pericolosa”, “Psycho II” e “L’uomo che non c’era”. Un’opera che dedicò alla sua alunna prediletta, la giovane contessa Giulietta Guicciardi, di cui lui era tanto innamorato.

A proposito di amore, come non citare “Per Elisa”, forse il primo spartito vero che incrocia la strada di ogni aspirante pianista? A chi era dedicata? Non si sa, ma esistono diverse affascinanti teorie a riguardo. Quasi quarant’anni dopo la morte del compositore, il musicologo tedesco Ludwig Nohl scoprì in una collezione privata una copia di un manoscritto del brano, con su scritto “Für Therese”; ma Nohl, che lo copiò a sua volta, si sbagliò a trascrivere il nome e la intitolò “Für Elise”. La musa in questione sarebbe la baronessa Therese Malfatti, di cui il maestro era profondamente innamorato.

C’è chi invece sostiene che questa breve bagatella sia dedicata a una giovane e bella soprano, tale Elisabeth Roeckel, che alla fine sposò un amico del compositore tedesco. Anche Theresie Malfatti non ricambiò l’amore di Ludwig, né Giulietta Guicciardi né nessun’altra: Ludwig van Beethoven morì giovane e single, corroso dalla cirrosi epatica, e al suo funerale venne salutato da un corteo di oltre 20 mila persone: come ogni rockstar che si rispetti.

Autore: Luca Masiello

La marcia degli Schützen si inciampa sul rap

Sorprendendo molti nei giorni scorsi il comandante degli Schützen sudtirolesi Jürgen Wirth Anderlan ha pubblicato su youtube un videoclip in stile rap che ha suscitato moltissime reazioni. Nel giro di poco il Kommandant è stato costretto alle dimissioni e il video è stato ritirato. Ma noi giornalisti QuiMedia abbiamo pensato di prendere posizione in merito, con un commento a sei mani che vi proponiamo.

Con la realizzazione del brano Mamma Tirol il comandante Anderlan con ogni probabilità si era posto l’obiettivo di richiamare i valori, attualizzando nel presente il catalogo dei disvalori e dei nemici. Ma la lista con ogni probabilità è risultata troppo estesa e articolata, spingendo troppo il piede sul pedale della provocazione. Particolarmente azzardato è apparso in particolare il richiamo alle radici cristiane, attraverso una professione religiosa per lo meno “svuotata”, visto il contesto di “chiusura” quasi totale. Ma a mio avviso la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la musica. L’idea di accostare gli Schützen a una musica “altra” rispetto alle marce delle Musikkapellen deve aver innescato un cortocircuito insanabile. Insomma: anche in musica esistono dei limiti che non vanno superati nella declinazione della tradizione in un contesto di modernità, altrimenti si inceppa il meccanismo. 

Autore: Luca Sticcotti

Ma lo sanno dov’è nato l’hiphop?

…ma c’è almeno un altro “chissà”. Se per quanto riguarda lo stile “Mamma Tirol” è senz’altro un pezzo rap (benché qualitativamente scadente e senz’altro poco al passo coi tempi), ci si potrebbe chiedere quanto rimanga, in un brano come questo, della storia del genere musicale di riferimento. Mentre si ascolta un testo separatista come quello di “Mamma Tirol”, infatti, fa quantomeno sorridere (ma amaramente) pensare a come, quando e dove ha avuto origine il movimento hiphop, a cui il rap appartiene. E allora chissà se gli autori – così legati alla “tradizione” – sapevano che il rap, oggi in cima alle classifiche, è nato nel 1973 nel Bronx, facendo propria l’eredità della black music e dei canti dei neri nelle piantagioni e offrendo un’alternativa alla violenza e un megafono alla parte più povera e invisibile della società; raccontando una situazione di disagio per rivendicare il diritto al suo contrario, così come l’importanza dell’unità e della vicinanza sociale; e dando origine a quello che venne definito “edutainment”, l’intrattenimento educativo. Verrebbe da rispondere di no.

Autore: Alex Piovan

Papi, che cosa sono gli Schützen?

“Papi, che cosa sono gli Schützen?”, mi chiede il mio bambino mentre in famiglia stiamo parlando del rap dei cappelli piumati. Gli snocciolo storia e folklore di questa associazione, stupendolo. Poi passo alla parte “politica”, e il motivo per cui mamma e io non apprezziamo quel video. “Ma se loro vogliono solo il Tirol, dove vanno al mare?”, è la sua prima reazione. Beata innocenza, beata quell’intelligenza che nasce dalla spontaneità di una mente pura. Perché i bambini non mentono, a se stessi né agli altri; i bambini non odiano, i bambini non vedono colori e differenze, i bambini apprezzano le diversità, se qualcuno riesce a spiegargliele. I bambini non hanno paura, gli adulti hanno paura. Ed è paura quella che trapela dal testo dello Schützen-rap: paura del diverso, che sia esso un Walsch, un sudtirolese traditore della Heimat, un nero, un musulmano o un omosessuale. Paura di perdere le proprie radici, che ancora non si riesce a capire quali siano. Perché anche solo leggendo il testo di questo pezzo è difficile trovare una coerenza o almeno una logica fra le parole che lo popolano. 
Ce l’hanno con tutti: si dichiarano democratici e cristiani, ma il loro amore per il prossimo sembra sbattere contro una barriera quando incrociano gay o ambientalisti: “non conoscono Ander, ma Greta, e davanti a casa mia Dieter ama Peter”, cantano. “Non siamo razzisti né populisti di sinistra, e odiamo tutti i neofascisti”, continuano. Poi le donne, oggetti decorativi che è meglio lasciare a casa a fare i mestieri, nel migliore dei casi, e addirittura gli studenti, “die  Studierten”, “die Gscheiden”, quelli non hanno mai lavorato in vita loro e poi si ergono a profeti, un po’ come “i professoroni” di salviniana memoria, insomma. 
Democratici e cristiani. Chissà cosa ne penserebbe Gesù, a riguardo; chissà cosa ne penserebbe don Sturzo nel sentire queste due parole affiancate pronunciate… da loro! 
“Mamma Tirol è un progetto nato da una grande ispirazione, creatività e tre bottiglie di Lagrein Riserva, che porterà i nostri fan a ballare sui tavoli”, scrivono gli Schützen sul loro sito istituzionale, e poi citano una canzone della band “Oi!” Böhse Onkelz:  “Dove genio e follia si combinano / Le parole non puzzano di bugie”.  
Chissà, forse la parte geniale del tutto sarà che da qualche parte balleranno davvero sui tavoli quando qualcuno intonerà questo rap. E chissà se questi si sentiranno dei geni mentre lo faranno…

Autore: Luca Masiello

Il coach di atletica

Angelo Nobile è conosciuto in città per la sua passione sportiva. È allenatore di atletica leggera e la salute delle ragazze e dei ragazzi gli sta molto a cuore.

La cosa che mi piace di me.

La lealtà intellettuale.

Il mio principale difetto.

La poca pazienza nei rapporti interpersonali.

La volta in cui sono stato più felice.

Alla nascita di mio figlio Ivan.

Un libro da portare sull’isola deserta.

Un libro di atletica leggera.

L’occupazione preferita.

Stare al campo di atletica.

Il paese dove vorrei vivere.

In Norvegia, oppure in Svezia.

Il mio piatto preferito.

La zuppa d’orzo.

Non sopporto… 

Chi non è leale ed onesto.

Per un giorno vorrei essere.

Antonio Conte, l’allenatore di calcio.

La mia paura maggiore.

Morire.

Nel mio frigo non manca… 

Una bibita fresca.

Se fossi un animale sarei… 

Uno squalo.

Mi sono sentito orgoglioso quando…

Quando sono diventato allenatore di atletica leggera di secondo livello.

Il mio motto.

Trovare soluzioni, anziché problemi.

Il capriccio che non mi sono mai tolto.

Un viaggio intercontinentale. 

Il giocattolo che ho amato di più.

Una macchinina gialla.

I miei artisti preferiti. 

Tutti gli attori del cinema italiano.

Il dono di natura che vorrei avere.

Più autorevolezza.

La qualità che preferisco in una donna… 

La simpatia e l’affidabilità. 

…e in un uomo.

La coerenza e l’affidabilità

Dico bugie solo… 

In caso di estremo aiuto.

Dove mi vedo fra dieci anni.

In un altro paese.

Il colore che preferisco.

Il giallo.

L’ultima volta che ho perso la calma.

Ad agosto.

Da bambino sognavo.

Di fare il calciatore.

Un sogno nel cassetto ancora da realizzare.

Partecipare alle Olimpiadi come allenatore.

Autore: Francesca Morrone

“Orgogliosa? Quando mi sono laureata!”

Nicole Heuschreck nasce a Bolzano il 5 giugno 1996. Cresce a Laives, ma studia al liceo linguistico G. Carducci di Bolzano. Dopo il diploma si iscrive al corso di Infermieristica della Claudiana e nel 2019 consegue il titolo di laurea. Oggi lavora come infermiera all’ospedale di Bolzano. “Al momento la mia vita si divide tra casa e lavoro”, racconta, “ma mi ritengo fortunata, perché è un lavoro che amo”.

La cosa che mi piace di più di me.

La capacità di trovare il lato positivo anche in situazioni difficili. 

Il mio principale difetto.

A volte parlo troppo. 

La volta che sono stata più felice.

Quando ho trovato la mia indipendenza andando a vivere da sola. 

La volta che sono stata più infelice.

Quando ho perso mio nonno. 

Da bambina sognavo di diventare…

Una dottoressa.

L’errore che non rifarei.

Lasciare che il giudizio della gente influisca sulle mie decisioni. 

La persona che invidio di più.

Non invidio nessuno, mi piace prendere come esempio alcune persone. 

La persona che ammiro di più.

Tutte le donne che lottano per i loro diritti. 

Un libro da portare su un’isola deserta. 

“Come sopravvivere su un’isola deserta”. 

Il capriccio che non mi sono mai tolta. 

Comprare un biglietto aereo di sola andata. 

L’ultima volta che ho pianto.

Piango spesso, mi aiuta a scaricare lo stress. 

La mia occupazione preferita. 

Fotografare i tramonti. 

Il colore che preferisco.

Lilla.

Il fiore che amo.

Il glicine. 

Il mio piatto preferito.

Purée e polpette fatte da mia nonna. 

Del mio aspetto non mi piace.

Mi impegno a piacermi ogni giorno. 

Non sopporto…

I ritardatari. 

La mia paura più grande.

Perdere qualcuno che amo. 

L’oggetto a cui sono più legata.

Cerco di non legarmi alle cose materiali. 

Il giocattolo che ho amato di più.

Il mio peluche Leo. 

La disgrazia più grande.

Dover dipendere da qualcuno. 

Il mio più grande rimpianto.

Penso che, nella vita, la cosa peggiore sia avere rimpianti. 

Nel mio frigorifero non manca mai…

Il latte fresco. 

Se fossi un animale, sarei…

Un’aquila.

Mi sono sentita orgogliosa quando…

Mi sono laureata!

Il mio motto.

Se vuoi, puoi.

Essere benvenute, nonostante tutto

Una giovane studentessa dell’Università di Bolzano ha incentrato la sua tesi di laurea sulla vita delle donne senza fissa dimora che gravitano presso la Casa Conte Forni di Bolzano. Raccogliendo uno spaccato di grande umanità, al di là degli stereotipi.

Prima il freddo e poi la neve. E la pandemia. Nei giorni scorsi a Bolzano è tornato di stretta atualità il tema delle decine e decine di persone (quasi 200, secondo le stime) che vengono sbrigativamente indicate “senza fissa dimora”. In realtà si tratta di un universo variegato, come è facile immaginare, che comprende homeless tradizionali di origine locale o meno, richiedenti asilo, profughi e persone che si trovano in una situazione di disagio per svariati motivi. 
In questi giorni il capoluogo è tornato a interrogarsi – purtroppo con il consueto rimpallo di responsabilità tra Comune, Provincia e rappresentanti dello stato (Commissiariato del Governo e forze dell’ordine) – sul tipo di soluzioni da adottare per dare un riparo e un minimo di conforto a queste persone. 

Tra di loro le più fragili, è inutile dirlo, sono le donne, presenti in un numero importante e spesso con bimbi a carico. È dunque a loro – e in un modo singolare – che abbiamo pensato di dedicare l’articolo principale nel nostro numero di Avvento e Natale, con il quale salutiamo i lettori dando poi loro appuntamento all’inizio del 2021. Nei mesi scorsi infatti ci è capitato di incontrare una giovane studentessa della Libera Università di Bolzano che proprio alle donne senza fissa dimora di Bolzano ha scelto di dedicare la sua tesi di laurea.

IL LAVORO DI TESI
Giada Avi ha 23 anni ed è di Pergine Valsugana, in provincia di Trento. Si è appena laureata presso la facolta di Design e Arti dell’Università di Bolzano discutendo una tesi basata sulla realizzazione di un libro d’arte, dedicato in particolare alle donne senza fissa dimora che hanno come punto di riferimento la Casa Conte Forni di Bolzano, un centro di accoglienza che ha sede in via Renon, a due passi dalla stazione ferroviaria. Per 4 mesi – da luglio a ottobre, giusto nella “pausa” tra la prima e la seconda ondata della pandemia – Giada ha frequentato la struttura, stringendo relazioni e raccogliendo materiali, soprattuto singole frasi e immagini dal forte contenuto evocativo. Ci è sembrato molto interessante valorizzare la stretta connessione che si è creata, nell’esperienza di questa giovanissima, tra arte e sociale, due mondi che siamo abituati a pensare distanti, quasi agli antipodi. È altrettanto significativo – come ci dice la stessa studentessa nell’intervista che abbiamo realizzato – l’obiettivo che questo lavoro si è proposto cercando di “allontanare il più possibile queste donne dalle etichette che spesso vengono loro affibbiate, generalizzando, criminalizzando e vittimizzando”. Il libro d’arte realizzato da Giada Avi, al momento stampato in poche copie, forse in futuro verrà anche pubblicato. Auspichiamo davvero che questo possa accadere, magari anche grazie a un editore altoatesino, perché si tratta di uno sforzo davvero significativo di pacificazione. Sarebbe davvero un bel segnale.

L’INTERVISTA


Com’è nata l’idea di realizzare questa tesi di laurea così particolare?
Sia artisticamente che personalmente sono sempre stata attratta dal sociale. Mi interessa, penso che la società ne abbia bisogno. Vediamo tanto odio in giro, per le strade e sui social, mi piace l’idea di usare l’arte per cambiare il mondo. Pretendo troppo?

Come hai proceduto?
Avendo a che fare con persone “emotivamente fragili”, sono andata step by step. Avendo quattro mesi per fare la tesi, ho iniziato con molta calma, andando tre volte a settimana a Casa Forni. Per i primi due mesi non ho neanche portato la macchina fotografica, volevo prendere confidenza, lasciare che si fidassero di me in maniera naturale, senza pressioni o spinte. Non è così facile farsi fotografare da una completa sconosciuta, e allo stesso tempo non era facile per me fotografare sconosciute, senza “sfruttare” in qualche modo la loro condizione.

Dal punto di vista umano com’è stato incontrare queste persone?
Molto più facile di quello che pensassi. Come ho scritto tante volte nel mio libro, sono molto più simili a me di quanto pensassi. Sì, le nostre realtà sono incredibilmente distanti, ma allo stesso tempo molto molto simili. Per la mia personalità e il modo che ho di vedere e capire il mondo, è stato molto semplice conoscerle, instaurare un rapporto, volergli bene e farmi voler loro bene.

Quando pensiamo alle donne senza fissa dimora facciamo fatica a sfuggire da una serie di stereotipi. Quali sono i principali?
Il mio progetto si basa proprio su questo: allontanare più possibile queste donne dalle etichette che la società affibbia loro, generalizzando, criminalizzando, vittimizzando. Quante volte abbiamo sentito che sono pigre, che non hanno voglia di fare niente? Che se la sono cercate? Facciamo fatica a capirle perché non abbiamo tempo e voglia di farlo. Inoltre, i media hanno un grande ruolo nella nostra percezione dell’”altro”. Ogni giorno siamo letteralmente bombardati da immagini che ovviamente influenzano la nostra visione del mondo. Al contempo possiamo accusare queste immagini stereotipate di continuare ad alimentare stereotipi negativi. è un po’ come un cane che si mangia la coda.

Le storie delle donne che hai incontrato nel tuo lavoro spesso sono condensate in brevi frasi e fotografie di grande forza espressiva. è stata una scelta tua fin dall’inizio o una cosa che è scaturita man mano?
In realtà no. Soprattutto perché ho avuto a che fare con delle persone, lavorando con loro e su di loro, inizialmente volevo essere il più aperta possibile. Il mio progetto si sarebbe sviluppato in base a loro: alle loro esigenze, a quanto loro si sarebbero aperte con me, alle suggestioni che avrei avuto relazionandomi con loro. Mi ero data carta bianca. Avendo poi fotografie e testo, che considero essere egualmente importanti, ho capito che un libro sarebbe stato il medium migliore.

Marginalità e disagio, ma comunque cittadinanza. In questa fase così delicata ancora una volta siamo invitati a “restare a casa”. Per le donne che hai incontrato si tratta di un’indicazione che appare quanto mai paradossale…
Il Covid ha sicuramente dato una sfumatura diversa al progetto. Ha creato ancora più disparità tra “noi” e “loro”, se possiamo davvero parlare di due categorie distinte. Basti immaginare ai pompieri che giravano per le strade con le sirene “state a casa”, sfrecciando a pochi metri da persone che si chiedevano “e noi dove andiamo?”.

Aver conosciuto questo mondo che tipo di porte aprirà sul tuo futuro? Dopo la triennale quali sono i tuoi progetti?
Voglio lavorare nel mondo della comunicazione visiva e mi piacerebbe rimanere su temi sociali più che commerciali. Forse sono troppo ambiziosa, ma mi piacerebbe che il mio lavoro cambiasse anche solo di poco la visione che abbiamo sul mondo.

Niko Fyah Rastaman

Nicola Gasperi, in arte Niko Fyah, lavora da una decina di anni come collaboratore all’integrazione nelle scuole di Merano con grande soddisfazione personale. Nel tempo libero coltiva una grande passione: la musica. Suona la chitarra e il basso ed è molto conosciuto nella scena reggae locale. 

La cosa che mi piace di me. 

La pazienza e la consapevolezza che cerco di mettere in quello che faccio. 

Il mio principale difetto.

La pazienza e l’ansia che mi prende in determinate situazioni. 

La volta che sono stato più felice.

Quando è nata mia sorella.

La persona che ammiro.

Mia sorella.

Un libro da portare sull’isola deserta.

“Radici” di Alex Haley.

L’occupazione preferita.

Suonare reggae e preferibilmente live.

Il paese dove vorrei vivere.

Casa mia.  

Il piatto preferito.

Pizza e Paella (da mangiare in Spagna).

Non sopporto.

L’arroganza, l’incoerenza il discutere senza senso.

Per un giorno vorrei essere…

Un musicista di una backing band per vari artisti del Reggae Sunsplash Jamaica o del Rototom in Spagna. 

Nel mio frigo non manca…

Pane, latte e birra.

Mi sono sentito orgoglioso quando…

quando ho vinto l’Italian Reggae Contest con il gruppo “Myztic Lion and the Juggernaut Nation”. 

Il mio motto.

“Don’t worry about the thing, ‘cause every little thing gonna be alright“. 

Il giocattolo che ho amato di più.

Un pupazzo a forma di panino, uno di coniglietto, e il pallone da calcio. 

I miei artisti preferiti.

La lista è lunghissima, ma dico Bob Marley per l’influenza che ha avutosulla mia vita. 

La qualità che preferisco in una donna…

La gentilezza e il rispetto.

…e in un uomo.

La gentilezza e il rispetto.

Dove mi vedo fra dieci anni.

Spero di fare bene e con piacere il mio lavoro, e magari di togliermi qualche soddisfazione con la musica.

Il colore che preferisco.

Il verde.

L’ultima volta che ho perso la calma.

Ogni settimana.

Da bambino sognavo…

Di diventare un calciatore.

Autore: Francesca Morrone