Bolzano ricorda il santo Freinademetz

Nella zona di Aslago esiste dal 1960 una Casa dei Missionari Verbiti, la Casa Freinademetz; si trova in via Ujöp Freinademetz, intitolata al missionario che dalla nativa Val Badia raggiunse la Cina, dove svolse finché visse la sua attività missionaria. Nato a Ojes in Val Badia il 15 aprile 1852, frequentato il Ginnasio a Bressanone, nel 1872 entrò nel seminario diocesano. Fu ordinato sacerdote il 15 luglio 1875 dal principe vescovo di Bressanone, Vinzenz Gasser; era l’anno di fondazione, da parte del sacerdote tedesco Arnold Janssen (1837-1909), della Società del Verbo Divino (SVD), la società dei Missionari Verbiti. Cooperatore alla cura d’anime dal 1875 al 1878 in Val Badia, il 28 febbraio 1878 Freinademetz chiese di essere ammesso alla Casa missionaria di Steyl (Tirolo). Arnold Janssen esaudì tale desiderio. Il 15 marzo fu inviato come primo Missionario Verbita in Cina, assieme al futuro vescovo J.B. Anzer. Dopo un periodo di inserimento, nella zona di Hong Kong, ambedue nel 1881 assunsero la missione nello Shantung meridionale, che a quel tempo contava 158 cristiani, e nella quale Freinademetz operò circa 30 anni. Dal 1900 al 1903 fu anche Superiore dei Missionari Verbiti della zona; fu per cinque volte Amministratore della Missione e dal 1904 al 1908 collaboratore del vescovo Henninghaus, successore di Anzer, deceduto il 24 novembre 1903. In Freinademetz ci fu un processo di profonda trasformazione interiore; il tirolese degli inizi fece posto a un Giuseppe Freinademetz genuinamente cinese; la sua fiorente opera fu interrotta nel 1889 dalla rivolta nazionalista dei Boxer; fu maltrattato e dovette fuggire. Ritornato alla missione nello Shantung, si impegnò sopratutto nel campo sociale e scolastico. Come Superiore del territorio missionario si consumò per i suoi amati cinesi, morendo per un’epidemia di tifo il 28 gennaio 1908.

Leone Sticcotti

Trovare casa è un impresa?Non sempre. Ecco la storia di K.

K. è un giovane lavoratore, che fino ai 18 anni è stato seguito e ospitato in una comunità residenziale socio pedagogica di una nota Associazione con sede a Bolzano.
Già lì si distingue per la sua caparbietà, l’impegno nel rispetto delle regole, l’attitudine a stabilire buoni rapporti con gli altri ospiti della struttura.
Raggiunta la maggiore età deve lasciare la comunità. Viene inserito con successo in un’altra struttura, gestita dalla medesima Associazione che da diversi anni si occupa di problematiche giovanili e non solo.
Si tratta di una struttura per lavoratori, residenti nel comune di Bolzano, maggiorenni. Requisiti per accedere a questa opportunità abitativa sono avere un lavoro e una forte motivazione nella ricerca di una situazione più stabile. La struttura è in grado di ospitare ventiquattro persone, in camere doppie e triple, con cucina e bagni in comune. K. è stato ammesso a fine novembre 2022.
Riesce subito ad ambientarsi e a fare amicizia con gli altri ospiti.Collabora alla routine della casa, svolge i suoi compiti (pulizia e quant’altro) senza intoppi e con solerzia. Lui lavora da McDonald’s ma sogna di fare il parrucchiere. In struttura sono in atto più progetti: uno socio-abitativo e uno socio-lavorativo, per aiutare rispettivamente a trovare casa e lavoro. Collaborando con gli operatori di questi servizi K., dopo soli due mesi, trova lavoro come parrucchiere a Bressanone. Caso vuole che alcune persone che già conosce vivano a Bressanone e abbiano una stanza libera nell’appartamento in cui abitano. È fatta! Per K. si apre una nuova strada: a inizio febbraio 2023 lascia la struttura a Bolzano, si trasferisce nella nuova casa a Bressanone e per intraprendere il lavoro dei suoi sogni, grazie anche all’aiuto e al supporto ricevuto dagli operatori della struttura.

Luca Sticcotti

Anche in Alto Adige si esplorano le architetture abbandonate

In questo numero di QuiBolzano, parliamo di fotografia Urbex, nome contratto derivato dall’espressione angolofona urban exploration, che consiste nell’esplorazione di architetture urbane spesso abbandonate. Per capire meglio il fenomeno abbiamo incontrato il fotografo bolzanino Andrea Pozza, che ha adattato la fotografia Urbex ai suoi progetti con la dama mascherate (fino al 31 agosto è presente a Castel Presule con una sua mostra personale).

Come ti sei avvicinato all’Urbex?
Urbex è la riscoperta dei luoghi dimenticati, dei luoghi abbandonati. Io stesso ho cominciato con la documentazione dei vecchi bunker militari presenti in Alto Adige. Poi sono passato a documentare le strade militari di confine e i rifugi antiaerei di Bolzano, per arrivare a documentare infine le ville e i castelli abbandonati. Nel caso degli ambienti militari, mi interessava fare un lavoro di documentazione e ricerca di cosa è successo realmente; da quando mi sono appassionato alle ville e ai castelli, nel mio lavoro fotografico, gioco più con la fantasia, cercando con uno scatto di evocare quello che mi immagino possa esservi successo un tempo, come feste e balli. Quindi è nata in me la voglia di interpretare i luoghi con la mia fotografia.
Come si esplorano gli edifici?
Purtroppo molti esploratori non interpretano più lo spirito iniziale della disciplina, facendo passare il messaggio che bisogna introdursi nei luoghi illegalmente.
Detto questo, per andare ad esplorare i luoghi abbandonati non si può suonare il campanello e chiedere il permesso. In alcuni rari casi, in occasione di eventi particolari, c’è un custode o un referente, per esempio un curatore, che ben volentieri ti fa entrare.
Però è chiaro che se si trova un rudere aperto, quindi con porte e finestre aperte, entri. Io non ho mai rotto niente per entrare, ho sempre trovato le porte aperta. Poi è ovvio che non trovi nessuno a cui chiedere il permesso… quindi si entra, si fanno queste fotografie, si cerca di portare via le foto e lasciare l’ambiente come lo si è trovato. Quindi assolutamente non si porta via niente, non si fa niente all’interno che possa deturpare questo ambiente, anche se ci pensano già le intemperie. È una semplice documentazione. L’unica cosa che mi porto via è la fotografia. Le uniche tracce che si lasciano, sono le proprie impronte, perché ovviamente i luoghi sono impolverati e quindi ecco però il massimo deve essere questo. Quindi mi raccomando, quando sentite parlare di Urbex, di esplorazione urbana, non pensate subito a ragazzi scapestrati che vogliono entrare per spaccare e divertirsi, ma pensate a persone come me che sono appassionate di storia e che vogliono portarsi via un’immagine di luoghi che poi a distanza di anni non ci sono più o sono stati completamente distrutti e rovinati.

Di che posti stiamo parlando?
C’è di tutto, si va dalle ex basi militari abbandonate, ai bunker; ma ci sono anche moltissimi manicomi, ospedali, scuole e asili.

Immagino che ci sia una energia particolare in posti come carceri, ospedali e monasteri di clausura
Inizialmente in determinati posti percepivo una forza negativa e per questo motivo ho deciso di orientarmi verso le ville i castelli, che comunque hanno un’aura più buona e più interessante.

Till Antonio Mola

Da quarant’anni dalla parte dei ragazzi

Era il 1983, quando un gruppo di persone tentò di mettere in piedi un servizio a favore dei giovani: Walter Visintainer, sacerdote a Laives, in sintesi, ricorda così l’esordio dello jugenddienst Unterland o gruppo giovani della Bassa Atesina, di cui è stato anche presidente circa quindici anni fa. “Inizialmente venne pensato come servizio della chiesa, ma non c’erano i mezzi per finanziare queste attività Sono stati dunque una decina di giovani a sedersi ad un tavolo per portare avanti le prime riflessioni e accordarsi poi con i sacerdoti”.

Don Visintainer racconta che inizialmente si trattava di un servizio per i giovani di lingua tedesca con una forte inclinazione ecclesiastica. “Poi, con il tempo, sono state avviate collaborazioni con altri enti nell’ambito dei giovani, come i centri giovanili a Egna e Cortaccia”. E poi l’apertura del gruppo anche ai giovani di lingua italiana. “È un arricchimento: avere una realtà bilingue è utile per tutti”.
“In generale sosteniamo le associazioni che vogliono mettersi in gioco – afferma l’attuale direttore Michael Nussbaumer -. Abbiamo un grande magazzino con giochi e attrezzature a disposizione gratuita per tutte le associazioni, i contributi che riceviamo li mettiamo a disposizione della comunità in questo modo. Organizziamo anche sale giovanili nei comuni di Montagna, Aldino e Termeno, dove abbiamo dei collaboratori che aprono le sale e creano rete anche con quelle associazioni che sostegno i giovani in difficoltà, coprendo varie tematiche sociali”.
Insomma, all’inizio lo Jugenddienst Unterland è partito per svolgere un lavoro per lo più religioso; poi, mantenendo gli stessi principi delle origini, si è evoluto secondo i tempi moderni e in una direzione più professionalizzata. “Durante l’anno – prosegue il direttore – facciamo anche dei progetti con le scuole medie di lingua tedesca e di lingua italiana. Proponiamo degli workshop e inoltre ci occupiamo della gestione di conflitti nelle classi, aprendo degli spazi ascolto”.
Il tutto in collaborazione con le associazioni della Bassa Atesina e con i Centri giovanili sparsi sul territorio. “Ci scambiamo idee, pareri e consigli. Inoltre svolgiamo l’attività di consulenza per le famiglie: forniamo loro i contatti degli esperti a cui rivolgersi in caso di problematiche importanti”, aggiunge Nussbaumer.
Per quanto riguarda il futuro la presidente, Lea Casal, è molto ottimista. “Sono stata chiamata tre anni fa, ma fin da piccola ho sempre partecipato alle attività, quindi comprendendo e vivendo l’importanza di quello che si può fare. Apprezzo molto chi fa questo lavoro con motivazione; il mondo oggi cambia moltissimo, e quindi è ancora più importante il sostegno in situazioni in cui ci sono delle problematiche. L’idea è dunque continuare con la nostra normale attività di sostegno, cercando anche un po’ di ridurla: in questi anni ci siamo ingranditi parecchio, e quindi serve fare qualche passetto indietro, anche per puntare su una maggiore qualità della nostra proposta”.

Daniele Bebber

Il pensionato con la passione del mercato

Il lavoro in ufficio per un quarto di secolo. Poi la scelta di cambiare totalmente vita e diventare quello che tecnicamente viene chiamato “ambulante”. Silvano Pierotello, residente a Salorno, siede da trentatré anni dietro alla sua bancarella di giocattoli girando fra Alto Adige, Trentino e Bellunese; una passione che porta avanti nonostante sia già in pensione.

Due passi tra le bancarelle di un mercato settimanale, o fra le vie di una fiera patronale sono sempre un modo divertente per passare una mezza giornata all’aperto. Ma fra tutti quegli avventori che si possono definire spettatori, dietro le bancarelle colorate dalla merce accuratamente in mostra per invogliare all’interesse, ci sono pure i cosiddetti protagonisti.
Uno di questi è Silvano Pierotello con la propria bancarella di giocattoli, messa in piedi nel lontano 1990. “Ho lavorato per 25 anni in ufficio – racconta -. Avevo anche un lavoro di responsabilità. Ad un certo punto mi sono stufato di correre per gli altri ed ho pensato di correre per me stesso. Da qui è nata quest’idea di fare il mercato”. Un’attività avviata in piccolo “e sono rimasto in piccolo – evidenzia – ma l’ambiente e anche il lavoro mi piacciono: sono da anni in pensione, ma finché sto bene continuo”.

Su tanti articoli, come mai la scelta è caduta proprio su una bancarella di giocattoli?
Ho fatto un po’ di giri ai mercati per vedere come funzionava. C’era un mio collega, quando lavoravo in ufficio, che aveva la ragazza che faceva questo lavoro, vendeva giocattoli. Poi lei aveva bisogno di aiuto e allora si è licenziato ed è andato ad aiutarla. Forse l’input è venuto da lì. C’è da dire che era anche un articolo poco trattato, quindi ho pensato che ci fosse più spazio.

Da dov’è partito con la sua attività?
La legge di allora, e penso sia anche quella di adesso, prevedeva che con la licenza rilasciata da un Comune era possibile girare nella provincia di residenza e anche in quelle confinanti. Nel mio caso potevano essere Trento, Belluno e Sondrio. All’inizio avevo iniziato a fare anche mercati settimanali, ma con i giocattoli andavano meglio le fiere.

A quante fiere e mercati ha partecipato?
Penso ad una settantina di fiere. Dei mercati settimanali non so dare una stima; oggi giro solo nei posti di villeggiatura come Caldonazzo, Levico o Borgo, e lavoro soprattutto in Alto Adige. Sono andato per quasi vent’anni a Prato Stelvio, per il mercato settimanale del martedì. Poi sono stato anche a Brunico, Stegona, Villa Bassa; e in Trentino a Pinzolo: sono tutti posti molto lontani.
Come erano mercati e fiere all’inizio?
Era tutto molto più semplice. Fino a dieci anni fa ero molto autonomo, oggi è tutto elettronico e la cosa mi disturba molto, perché il computer non lo so usare.

I più piccoli sono i suoi clienti; come sono cambiati nell’arco di tutti questi anni?
Sono cambiati parecchio: un tempo i bambini si avvicinavano timidamente al banco; oggi sono molto più svegli.

Ai suoi tempi al mercato lavoravano moltissimi giovani, ma di recente sembrano essere sempre meno. Cosa ne pensa?
Secondo me per un giovane che abbia voglia di correre c’è ancora molto spazio, anche se la concorrenza con l’e-commerce e i centri commerciali è alta. Il mercato è diventato un posto di ritrovo per la gente e qualche giovane che fa questo lavoro c’è ancora.

Qual è il lato più bello di questo lavoro?
Stare con la gente. Però deve piacere davvero.

Daniele Bebber

Tempeste estive

Charles Windbreaker, produttore cinematografico britannico, era in vacanza in Alto Adige cercando refrigerio grazie ad un ghiacciolo gusto Ötzi all’ombra di un platano secolare. D’improvviso il cielo si è coperto di nuvole nere e Charles si è trovato in mezzo ad una delle tradizionali tormente estive locali. Il platano è caduto davanti ai suoi occhi e qualche tetto ha iniziato a volare. Una volta trovato riparo dalla grandine grande come palle da tennis Charles ha avuto un intuizione: realizzerà uno Spin-off di Mary Poppins che avrà come protagoniste il gruppo di tate volanti. Si cercano comparse: preparate gli ombrelli!

Estranei #1

Il termine alloctono dal greco àllos “altro”, e chthòn “suolo/terra”, indica la non appartenenza di qualcosa o qualcuno al luogo di residenza. È l’essere umano nato altrove dal luogo in cui vive, e che antropologicamente chiamiamo straniero. Nessun collegamento con la storia di Meursault che Albert Camus ci ha lasciato in eredità; manco il passaggio dalla lingua latina a quella volgare, fino a quelle parole con derivazioni etimologiche antiche e straniere attualmente in uso nei dialetti e nell’italiano; nemmeno con l’arricchimento culturale che genti e popoli migranti nel nostro Paese hanno rappresentato e rappresentano; neppure di ricchezze storiche sopravvissute alle epoche, quando l’italica terra ne era dominata, e la cui espansione era evidenziata sulle cartine dei libri di storia in rosso o in blu. Frattanto che il caldo umido ci fa boccheggiare, rendendoci insonni persino le notti, e che i meteorologi delineano sulle mappe durante le previsioni – con gli stessi colori degli imperi -, il nostro compito, se così si può chiamare, è quello di prestare attenzione ai fronti temporaleschi attesi sulla fascia alpina, prealpina, pedemontana e sulle pianure a Nord del fiume Po, perché si tratterà di eventi localmente pericolosi. Se in passato l’attenzione ai rischi veniva attuata come una sorta di salvaguardia del futuro raccolto da chi abitava in campagna e coltivava la terra, per non trovarsi poi con un pugno di mosche in mano, oggi, anche i cittadini sono chiamati a mettere in pratica un più alto senso di responsabilità di fronte a questi eventi catastrofici. Si tratta innanzitutto di non sottovalutare mai le allerte emanate degli Organi ufficiali preposti e di comportarsi con prudenza per evitare guai peggiori e di agevolare lo spirito di sacrificio dei soccorritori; non di meno, al contempo, dimostrare comprensione se un’allerta meteo data per certa poi magari non si verifichi. Recentemente nella zona di Bressanone, tra Veltuno, Scalares e Funes sono caduti chicchi di grandine dal diametro di 9cm, una novità assoluta per le nostre lande. Certo potremmo considerare questi promontori fantasiosamente alloctoni, o estranei alle nostre latitudini, ma le tempeste che si generano e dei danni prodotti è palpabile. Masse d’aria che di solito stazionano sopra il deserto ed invece ce le ritroviamo sopra la Penisola, con una temperatura in libera atmosfera, a 850hpa (1500 metri), fino a 24°C al Nord, tra 26°C e 28°C al Centro Sud e quasi a 30°C sulle Isole; con una frequenza, rispetto agli anni ’50, ora abituale. Se ci pensiamo bene sono valori folli, proprio perché a quell’altitudine il valore non è influenzato dal calore del suolo. Si tratta di caldo maltempo per ridurre all’osso il concetto, e per gli studiosi del clima di un fenomeno grave quanto dannoso per l’uomo e la natura. Ma il confine tra autoctono e alloctono è sempre flebile, specie a causa della nostra capacità di memoria, della superficialità, o per i nostri interessi, materiali contro spirituali, economici contrapposti a quelli ambientali ed ecologici, la cosiddetta salute.

Donatello Vallotta

Timbreroots: armonizzazioni e suoni cristallini

Si sono formati poco prima che la pandemia bloccasse l’intero pianeta, sono giovanissimi e propongono un genere musicale fresco e geniale, difficile da incontrare alle nostre latitudini, dove solitamente hanno vita più facile rockettari incalliti, cantautori, jazzisti e cover band.

Eppure, quella dei Timbreroots, un quintetto di base nella Bassa Atesina, sembra essere una scommessa già vinta, nonostante abbiano cominciato a venire allo scoperto appena un paio d’anni fa, non appena le restrizioni pandemiche si sono allentate.
Le buone carte di questi cinque ragazzi sono diverse, ma se dobbiamo dire quale sia il loro punto di forza non ci sono dubbi, le armonie vocali a quattro o cinque sono davvero senza precedenti da queste parti.
Lo scorso primo luglio, nel corso del concorso nazionale Music 4 the Next Generation, si sono aggiudicati un meritatissimo secondo posto, preceduti dal Lorenzo Bellini Quartet.
“Si tratta di un concorso molto interessante – ci racconta Thomas Vicenzi, bassista della formazione nonché baritono basso – ai gruppi partecipanti viene assegnato un brano di musica classica da arrangiare e proporre in chiave moderna secondo il proprio stile, a noi è toccato in sorte La follia, un brano originariamente barocco che abbiamo convertito in Madness e a cui abbiamo abbinato un testo originale che affronta il tema della follia in cui versa il mondo attuale. L’arrangiamento è venuto fuori in cinque quarti, molto particolare, con l’uso di strumenti come banjo e marimba”.
I Timbreroots sono tra i sedici gruppi sopravvissuti alla preselezione e hanno presentato il loro brano nella semifinale tenutasi a Verona, accedendo quindi alla finalissima che si è svolta a Trento con una giuria superstar composta da Malika Ayane, Gegè Telesforo e Alberto Martini.
Senza concedersi troppo riposo, una settimana dopo il gruppo (che è composto oltre che annovera oltre a Thomas anche da Benedikt Sanoll, voce solista e chitarra, Philipp Sanoll, tenore, batteria e percussioni varie, Sebastian Willeit, tenore, chitarre e banjo e il pianista e baritono alto Simon Oberrauch) si è esibito a Collalbo nell’ambito dello storico festival Rock Im Ring.
Un anno quindi del tutto a pieno ritmo, visto e considerato che a gennaio i Timbreroots hanno anche pubblicato il loro primo disco, un bel CD composto da dodici brani originali che mescolano i diversi stili a cui si ispirano, con una particolare predilezione per rock e folk di matrice indie.
“Ci piacciono molto Coldplay e Mumford & Sons – prosegue Thomas Vicenzi – ma soprattutto, a livello di armonizzazioni vocali ci rifacciamo molto alla musica corale di matrice classica. I brani sono scritti quasi esclusivamente da Benedikt: lui ha una formazione come vocalista jazz, ma tutti abbiamo studiato musica a livello scolastico e anche all’università”.
E non c’è che dire, ascoltando il loro disco, Numen’s Dreams (i sogni della divinità), si percepisce totalmente che siamo alla presenza di ragazzi assai dotati e preparati, con una strumentazione essenziale e senza contare su collaborazioni esterne, i Timbreroots hanno registrato il disco in una sperduta località austriaca, complice il fatto che tutti studiano a Innsbruck. Le composizioni sono ariose, mai cupe, talvolta dominate da melodie e ritmi che invitano alla danza, talaltra più riflessive, ma sempre elaborate cin cura e garbo. Inoltre, da non sottovalutare, c’è il fatto che anche a livello di liriche emerge chiaramente la volontà di non dire cose scontate, come è chiaro fin dalla prima traccia del CD, Lets Give The A Chance, un piccolo inno all’inclusività, senza barriere dovute al colore della pelle, allo stato sociale, all’età.
“È così che ci piace pensare debba essere la nostra musica – conclude Vicenzi – una cosa diretta a tutti coloro che vogliono esserne coinvolti: è anche il senso del nome che ci siamo dati, l’unione tra il timbro musicale e le radici musicali di ciascuno, quali che esse siano”.

Le paludi di Maszauco e Sangonario

Fin dai tempi antichi, l’odierno Alto Adige – o terra in montanis – è stato scarsamente popolato. In altura la vita era possibile ma faticosa, in gran parte delle vallate impossibile a causa delle vaste paludi che le occupavano. Sarà anche per questo motivo che gli intraprendenti Romani, nei 500 anni di loro dominio, non vi hanno mai fondato nessuna città degna di questo nome.

Lungo l’Adige le paludi iniziavano nella zona di Cermes e arrivavano fino a Missiano; in Bassa Atesina, dal Lago di Caldaro fino a Magrè si estendeva un’unica grande palude. Più a sud, da Roverè della Luna fino a Deutschmetz (Mezzocorona) e tra Welschmetz (Mezzolombardo) e Zambana si trovava un’altra palude. Anche sulla riva sinistra del fiume la situazione non era migliore: da Gargazzone fino a Settequerce e poi tra l’Agruzzo e Laives, tra Bronzolo e Vadena e a Ora, Egna e Salorno il territorio era estremamente paludoso e quindi poco ospitale.
Queste paludi “storiche”, hanno lasciato traccia anche in vari documenti più o meno antichi. Nella famosa lettera di San Vigilio, “ricomposta” nel 1191, la palude di Caldaro compare con il vecchio nome di Maszauco, quella di Termeno viene denominata Sangonario. Evidentemente questi toponimi risalgono perlomeno all’epoca romana o forse addirittura preromana. In queste paludi millenarie, formate dal deflusso “spontaneo” e dal ristagno delle acque dell’Adige, non sono mai esistiti veri e propri insediamenti umani che invece sorgono sui declivi alluvionali pedemontani.
Le paludi, molto temute per le febbri malariche, venivano utilizzate prevalentemente come pascoli, dato che i pochi terreni asciutti lungo la valle erano adibite alla coltivazione dei vigneti e dei cereali. Perciò erano spesso contese tra i comuni di Caldaro, Termeno, Cortaccia e Egna e frequentemente scoppiavano delle liti anche in sede giudiziaria.
Oltre a questi comuni, anche la Magnifica Comunità di Fiemme possedeva ampi diritti di pascolo sulle paludi della Val d’Adige. Inoltre, i pastori della Val Senales, della Val Passiria, della Val Sarentina , della Val di Fassa e della Val di Cembra li sfruttavano in certi periodi dell’anno.
La palude di Maszauco compare per la prima volta nella lettera di San Vigilio del IV secolo (poi trascritta una prima volta nel 1022 dal diacono Ermagora) come una delle località facenti parte della parrocchia di “Caldare” insieme a “Bugnane / Penon, Corone / Corona, Curtasze / Cortaccia, Trominum / Termeno, Castello / Castelvecchio, Amurasca / Pianizza di Sopra, Ad lacum / San Giuseppe al lago.
Nei documenti notarili del XIV secolo il nome Maszauco viene indicato spesso come Mazoch, forma tedeschizzata dell’antico toponimo. Si ipotizza che il nome derivi dal latino medievale mansacium (fienile, grande stalla), ma la cosa è tutt’altro che certa. La palude di Maszauco arrivava dal Lago di Caldaro fino a Magrè ed apparteneva ai comuni di Caldaro, Termeno e Cortaccia.
La situazione migliorò verso il 1242, quando venne realizzata un canale di scolo dal lago verso l’Adige. All’epoca di Heinrich von Rottenburg, nel 1320, il comune di Caldaro fece costruire un ulteriore fossato che questa volta arrivò fino a Villa di Egna. In secoli successivi e almeno fino al 1785, questo grande canale arrivò fino a San Floriano.
La palude Sangonario, molto insidiosa, era attraversata da uno stretto sentiero pietroso denominato “Steinweg” che arrivava fino a Gmund / Monte e poi all’Urfahrhof, maso sull’argine dove in assenza di un ponte era possibile farsi traghettare sull’altra riva. I terreni alluvionali lungo gli argini dell’Adige erano chiamati “Haertneren”, i più rigidi, e venivano sfruttati per realizzare piccoli vigneti che puntualmente venivano spazzati via dalle piene del fiume. La grande piena del 1757 alzò le acque del fiume di quasi due metri. Dopo la realizzazione della Fossa grande di Caldaro, che dal lago portava a Mezzocorona, e la costruzione di numerosi canali laterali e minori, il livello del lago scese di mezzo metro. La fossa grande fu realizzata su progetto dell’ing. Joseph von Zallinger di Bolzano, che nel suo maso di Vadena aveva già eseguito con successo numerose opere di bonifica e messa in sicurezza degli argini dell’Adige. La fossa era larga 5 metri e profonda 1,80. Con l’inizio della bonifica della palude di Maszauco e la parcellizzazione della stessa all’epoca dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria si arrivò finalmente a realizzare quell’enorme distesa di vigneti e frutteti che ancora oggi si possono osservare in Bassa Atesina.

Reinhard Christanell