“Bolzano può essere un riferimento per tecnologia e ricerca”


Con la nuova Facoltà di Ingegneria, unibz è sempre più vicina al mondo delle aziende e delle start-up e diventa il principale attore del NOI Techpark. Tra i focus della Facoltà: automazione, robotica e intelligenza artificiale. 850 giovani studieranno, faranno ricerca e si formeranno a un passo dall’ecosistema dell‘innovazione.

Una facoltà universitaria che è nata con l’obiettivo di trasformare l’Alto Adige – territorio che è delizia dei milioni di turisti che lo visitano ogni anno per le sue bellezze paesaggistiche e naturalistiche – in una sorta di Silicon Valley della tecnologia, bilingue e a cavallo tra mondo culturale e produttivo mediterraneo e dell’Europa centrale. “Vogliamo che l’Alto Adige sia riconosciuto come un punto di riferimento a livello nazionale non solo per qualità della vita e dei servizi turistici ma anche per l’innovazione tecnologica e la ricerca al servizio di questo valori. La nuova collocazione della Facoltà nel Parco Tecnologico è la premessa ideale”, afferma il preside della Facoltà di Ingegneria, prof. Andrea Gasparella. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio le ambizioni della comunità scientifica che da poche settimane ha iniziato a lavorare nella nuova struttura didattica e di ricerca a Bolzano Sud. 

Preside Gasparella, la Facoltà di Ingegneria ora avrà sede in un nuovo campus a Bolzano Sud. Cosa rappresenta questo passo per la Facoltà stessa, per l’università di Bolzano e anche per il territorio?

La Facoltà, che già era un interlocutore per il territorio sia dal punto di vista dell’offerta formativa, sia dal punto di vista delle attività di ricerca e di terza missione (le attività di trasferimento del sapere accademico alla popolazione e al tessuto economico del territorio di riferimento, ndr.), ora è immediatamente e fisicamente associabile a un luogo e a un edificio “iconico”, se così possiamo definire l’avveniristica costruzione che ci ha accolto. Ci aspettiamo che adesso l’interazione con i portatori di interesse sia più facile perché il campus aiuterà la percezione che ci sia un interlocutore in grado di occuparsi di tutte le tematiche in ambito ingegneristico. 

I vostri portatori di interesse sono solo le aziende o anche l’amministrazione pubblica?

Abbiamo percepito una grande attenzione da parte dell’amministrazione pubblica che ha voluto e  stimolato l’istituzione di questa Facoltà. Lo si comprende anche dalla dotazione infrastrutturale e di risorse economiche messe a disposizione. Ovviamente le aziende, in primis quelle del territorio che chiedono di essere accompagnate e avviare progetti per restare competitive, così come tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nello sviluppo tecnologico, rappresentano il partner naturale per una Facoltà di Ingegneria. 

Ci può fornire alcuni esempi?

Ce ne sarebbero tanti ma sicuramente le collaborazioni con il Covision Lab – che si occupa di computer vision e machine learning – o quelle con la rete di imprese associate nella Automotive Excellence Südtirol o, ancora, con Alperia o con l’Azienda Sanitaria per restare in ambito pubblico, sono emblematiche della natura delle interazioni che stiamo ricercando. Infatti queste ed altre forme di collaborazione hanno reso possibile l’istituzione e il finanziamento di alcune cattedre straordinarie, oppure hanno il potenziale per sviluppare iniziative di ricerca di lungo termine a servizio del territorio. Assoimprenditori e le associazioni di categoria (Artigiani) o delle professioni (Ingegneri, ma anche architetti, periti e geometri) sono partner importanti che hanno seguito e sostenuto le nostre iniziative e ai quali vorremmo poter restituire ancora molto. 

Nell’Euregio, esistevano già la Facoltà di Scienze tecniche a Innsbruck e quella di Ingegneria a Trento che garantivano un’ottima formazione. Perché i figli delle famiglie altoatesine interessati alle materie tecniche dovrebbero iscriversi alla locale Facoltà di Ingegneria?

Siamo fortemente convinti che la formazione trilingue sia un valore aggiunto per ogni laureato e lo renda, assieme alle competenze tecniche accumulate, assolutamente competitivo su un mercato del lavoro che si estende, praticamente, dal confine con la Danimarca al Mediterraneo. Molti dei docenti di unibz vengono da altre università e quindi hanno portato qui anche l’esperienza maturata altrove, ma esiste anche una generazione di ricercatori e docenti cresciuti accademicamente qui, che in parte ci faranno conoscere altrove, in parte continueranno a rafforzarci. Ci stiamo sviluppando in direzioni diverse dalle università vicine specializzandoci in settori che ci caratterizzano andando a coprire ambiti di competenza che non sono rappresentati vicino a noi. Ma stiamo anche investendo su formati didattici esperienziali, anche grazie a infrastrutture di laboratorio uniche per dotazioni e varietà, che prepareranno in maniera molto più efficace e versatile i nostri laureati alle sfide che li aspettano. Siamo certi che saranno i protagonisti del futuro della regione e non solo. 

Quali sono le “anime” della nuova Facoltà?

Sono quella informatica, con un focus significativo sugli sviluppi dell’intelligenza artificiale, quella dell’ingegneria elettronica e dell’informazione, con un focus sulle tecnologie digitali e le applicazioni dell’AI, e quella dell’ingegneria industriale ed energetica, con un focus sui processi industriali e sull’efficienza nell’uso delle risorse e sulle rinnovabili, e quindi sulla sostenibilità. In queste aree cerchiamo di definire una nostra connotazione, perché siamo convinti che ciò che possiamo offrire sia diverso da quello che si trova nelle università vicine.

Il nuovo edificio quali opportunità in più offrirà agli studenti?

Il campus riunisce tanti laboratori sotto uno stesso tetto e ciò facilità le collaborazioni tra discipline diverse oltre al fatto che questi laboratori non vengono usati solo per la ricerca ma anche dagli studenti. Contiamo di proseguire nello sviluppo di un’offerta didattica sempre più orientata alla formazione di tipo esperienziale, organizzando l’attività educativa in maniera tale che la parte di apprendimento teorico e quella di applicazione pratica convivano e confluiscano in un percorso coerente e ciclico fatto non solo di “sapere”, ma anche di “saper fare”.

Che spinta può dare l’integrazione del campus nel parco tecnologico agli studenti e ai laureati?

Per una Facoltà come la nostra, la collocazione nel NOI è un’opportunità davvero unica perché avvicina le attività di ricerca e le attività didattiche con gli studenti alle aziende. Credo che poi costituisca un impulso anche allo sviluppo del parco tecnologico stesso perché gli studenti possono collaborare con le startup e, una volta terminati gli studi, diventare loro stessi fondatori di nuove iniziative e, così, essere protagonisti del futuro imprenditoriale del territorio. La sinergia farà bene ad entrambe le comunità: quella di unibz e quella del NOI Techpark. 

Ci sarà spazio anche per iniziative di formazione continua e di diffusione della cultura scientifica tra la popolazione?

Sì, ci sono alcune iniziative che ci vedono già attivi. Sul versante della formazione, i master universitari orientati ai professionisti, come quello in Fire Safety Engineering, che riscuotono un ottimo successo. Riteniamo che la Facoltà possa diventare un riferimento non solo per chi inizia l’università ma anche per chi, una volta laureato, ha bisogno di aggiornare e perfezionare le proprie competenze e quindi può ritornare all’università portando già un certo bagaglio di esperienze e, al tempo stesso, acquisirne di nuove, più specialistiche. Sabato 11 gennaio, infine, prevediamo una mattinata di porte aperte per la cittadinanza per scoprire il nuovo edificio e le aree di ricerca della Facoltà.

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Marciano e il suo “Echo”


A inizio ottobre il giovane regista altoatesino Thomas Marciano ha vinto il “First Steps Award” di Berlino con il suo mediometraggio ‘Echo’. Abbiamo avuto occasione di incontrarlo per raccontare com’è nato questo film e cosa vuol dire diventare registi cinematografici nel 2024. 

La storia di oggi ci conduce idealmente a Vienna, dove il giovane regista bolzanino Thomas Marciano, 27 anni, ha studiato e scelto di ambientare il suo mediometraggio “Echo”, recentemente premiato ai prestigiosi First Steps Awards di Berlino. Questo riconoscimento, assegnato ogni anno dalle principali case di produzione tedesche, celebra i talenti emergenti nel cinema, premiando opere realizzate da studenti di regia e cinematografia in Germania, Austria e Svizzera.

Nell’intervista che abbiamo realizzato con Marciano, emerge con forza quanto sia per lui fondamentale il valore della squadra, quel team affiatato che lo ha accompagnato nella creazione di questo progetto ambizioso. La collaborazione e la sintonia con i membri della propria cerchia si rivelano per lui elementi essenziali, e la condivisione di questa esperienza con persone che comprendono profondamente la sua visione e i suoi obiettivi è stata, senza dubbio, una delle chiavi di questo successo.

L’INTERVISTA

Le nostre congratulazioni per questo importante riconoscimento! Quali sono le sensazioni, le ispirazioni e gli insegnamenti che porta con sé da questa esperienza intensa e significativa vissuta a Berlino?

È stata per me un’esperienza meravigliosa, dove ho provato tante emozioni e mi sento grato soprattutto verso le persone che hanno collaborato a questo progetto e senza le quali non sarei mai arrivato dove sono.

Di cosa parla il film?

“Echo” racconta la storia di una giovane ragazza di nome Zoe, che in una notte a Vienna si pone la domanda se esiste qualcosa al di là della realtà tangibile; passo per passo, impara a seguire la propria intuizione per trovare una risposta a questa domanda e, quindi, in un certo senso, anche a trovare se stessa.

Nei suoi lavori lei si allontana dalla fiction mainstream, scegliendo un approccio più introspettivo. Crede che questa modalità le permetta di connettersi anche con chi poi guarderà il film, creando un’empatia più profonda?

Sì. Si tratta di temi che mi appassionano sempre di più. Questo cortometraggio, ad esempio, esplora quello che io chiamo magico realismo, riscoprendo e sottolineando gli aspetti magici che la realtà ci offre ogni giorno. Credo che guardare la vita con occhi nuovi possa rivelare bellezze straordinarie intorno a noi, se siamo disposti a lasciarci stupire.

Nonostante il fatto che Echo, il film premiato a Berlino, sia stato interamente girato a Vienna, la sua scelta linguistica non è caduta sul tedesco. Questa particolarità aggiunge un ulteriore strato di originalità al progetto, riflettendo forse una visione che va oltre i confini geografici e linguistici tradizionali, per abbracciare un’espressività più universale e personale.

Il film è in italiano, un elemento che aggiunge un tocco un po’ surreale a tutta la storia, che è ambientata nella città di Vienna. In una notte dove tutto sembra possibile, anche le persone a un certo punto si rivolgono infatti alla protagonista in un’altra lingua.

Nelle motivazioni del suo premio, la giuria ha sottolineato l’uso magistrale del sound design e della fotografia. Come concepisce un film con queste caratteristiche? E quanto è importante per lei la creazione del team che la affianchi nella realizzazione?

L’obiettivo principale era proprio quello di creare un team affiatato, una sorta di famiglia con cui lavorare in piena sintonia. Questo è valso anche per il direttore della fotografia Benjamin Pieber  e il compositore delle musiche Raimund Hepp: abbiamo trovato subito una forte intesa, sin dai primi incontri. In particolare, Raimund Hepp ha partecipato attivamente, fin dalla fase di scrittura della sceneggiatura. Prima ancora che completassi il testo, lui aveva già iniziato a comporre, intrecciando musica e narrazione in modo che ogni elemento si fondesse con naturalezza e armonia, per dare al progetto una coesione autentica e coinvolgente fin dall’inizio.

Thomas Marciano, traspare una forte emozione dai suoi occhi quando parla di questa esperienza di squadra. Il film non è in distribuzione, quindi dovremo aspettare un po’ per vederlo. Ma per lei dopo questo premio cosa accadrà? Si comincia a fare sul serio, adesso?

Certamente, questo premio ha avuto un ruolo fondamentale nell’aprirmi molte porte, offrendomi la possibilità di accedere a contatti preziosi che altrimenti sarebbero stati difficili da raggiungere. Ritengo che uno degli obiettivi principali di eventi di questo tipo sia proprio quello di creare un ponte tra giovani registi e registe emergenti e le realtà produttive già consolidate, costruendo connessioni che possano dare origine a collaborazioni future. Ho già avuto modo di incontrare alcune persone con cui ho sentito una sintonia immediata, e questo mi fa sperare di poter instaurare, passo dopo passo, una collaborazione solida e duratura. Per me, infatti, è essenziale trovare dei partner con cui esista un’autentica comprensione reciproca, persone con cui condividere davvero la stessa visione creativa e che, parlino la mia stessa lingua (in senso metaforico), perché solo così si può creare qualcosa di realmente significativo.

Autore: Till Antonio Mola

Gli occhi sulla stradache danno voce agli invisibili


L’Infopoint è uno sportello dell’associazione Volontarius ODV, ente del Gruppo Volontarius che fornisce informazione e orientamento e si rivolge alle persone senza fissa dimora, senza tetto, alle persone migranti, richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati di recente arrivo in città e alle persone autoctone o residenti sul territorio con particolari esigenze e bisogni primari. Valeria Tomasi, referente del servizio, racconta che cos’è e perché è importante.

Qual è il lavoro di un operatore dell’Infopoint?

Siamo uno sportello aperto al pubblico 365 giorni dalle 9 alle 23.45 con reperibilità notturna. Quando il progetto è nato, la principale attività era l’assistenza umanitaria e si svolgeva direttamente in stazione. Con il cambiamento del fenomeno migratorio il servizio si è evoluto in quello che è oggi: uno sportello sempre aperto a cui può accedere chiunque e che ha come utenza principale i primi arrivi. Qunado le persone giungono noi, dopo averle identificate, capiamo qual è la loro necessità  e, in base a essa, indichiamo loro i servizi presenti sul territorio lavorando in sinergia con i servizi sociali, le istituzioni, la questura, l’ospedale… 

Perché è importante che ci sia un ufficio come il vostro?

Perché siamo un punto di riferimento. Siamo sempre aperti e siamo un po’ “gli occhi sulla strada”, la lucina sempre accesa. Le persone in transito o anche stabili in città sanno che possono rivolgersi a noi. Noi ci siamo e ascoltiamo, per noi ogni persona c’è e non è invisibile. Anche i cittadini residenti possono rivolgersi a noi sia per segnalare qualcuno che ha bisogno d’aiuto sia per chiedere informazioni. Avere la certezza che c’è sempre qualcuno che risponde a questo tipo di esigenze dà molto sicurezza. 

Le problematicità  come le affrontate? 

È un lavoro che si occupa di tematiche delicate, ma il nostro approccio rimane sempre quello di trovare una soluzione e far sapere quando qualcosa non funziona. Da referente le difficoltà che trovo più spesso sono quelle legate in realtà a una parte bella del nostro lavoro: la coordinazione e il dialogo con la rete di istituzioni e associazioni del territorio e le segnalazioni da fare per trovare delle soluzioni. In realtà funziona tutto molto bene e la collaborazione è sempre propositiva e improntata sull’ascolto. Il nostro approccio è quello di guardare ciò che c’è e lavorare per creare nuove soluzioni. Facciamo molta sensibilizzazione su queste tematiche, raccogliamo le critiche e sappiamo come rispondere e come comunicarle a chi può lavorare per migliorare la situazione.

Quali sono le parti migliori e peggiori del vostro lavoro?

Il brutto è che ti sembra di non fare mai abbastanza. Il bello, anche se a volte può essere difficile, è che siamo sempre attivi nell’ascolto delle storie di chi arriva. Ti deve piacer ascoltare, trovare soluzioni e stare con le persone. È impegnativo, ma il bello è che ciò che facciamo è davvero importante e diamo voce agli “invisibili”, fornendo loro gli strumenti per riuscire ad integrarsi sul territorio. 

Avete un rapporto attivo con la cittadinanza? 

Il periodo invernale è il periodo in cui le persone si attivano maggiormente. Ci sono vari eventi organizzati dal Gruppo Volontarius come quello di raccolta delle coperte in cui ripresentiamo i progetti. Arrivano anche molte persone a farci domande. Sul territorio altoatesino c’è già molta sensibilità e attivazione e nell’ultimo anno ho notato una crescita nella partecipazione attiva dei giovani.

Autrice: Anna Michelazzi

Giada: la giovane promessa delle bocce


Giada Lombardo, ventidue anni, è una promessa delle bocce che ha sorpreso tutti con la sua vittoria al campionato italiano di serie C svoltosi a Zanè in Veneto, un titolo che a Bolzano mancava da diverse decine d’anni. Bolzanina, studentessa universitaria e appassionata di sport, Giada racconta la sua avventura in un mondo che l’ha conquistata, grazie alla serenità e concentrazione che riesce a mantenere in campo. Ambiziosa e determinata, sogna già un futuro con la maglia azzurra, senza dimenticare la sua passione per il miglioramento continuo. 

Ciao Giada, raccontaci un po’ di te… 

Mi chiamo Giada Lombardo, ho ventidue anni e sono nata e cresciuta a Bolzano. Studio all’Università di Rovereto, al corso di “Interfacce e Tecnologie della Comunicazione”, e sono al terzo anno. Prima ho frequentato il liceo delle scienze umane con indirizzo musicale e ho giocato per un sacco di anni a pallavolo, prima di cimentarmi con le bocce.

Quando ti sei avvicinata alle bocce?

Ho iniziato a giocare a bocce circa un anno e mezzo fa. I miei genitori praticano questo sport da oltre 30 anni e, un giorno, ho deciso di provarlo come hobby. Mi è piaciuto subito: mi rilassava e mi permetteva di svuotare la mente. Dopo un po’, i miei genitori mi hanno spinta a partecipare a delle gare. All’inizio ero scettica, ma man mano che miglioravo, mi sono appassionata sempre di più.

Com’è stata al campionato?

La vittoria al campionato è stata una sorpresa anche per me. Non pensavo di essere all’altezza: temevo di perdere subito. All’inizio la pressione era forte, perché mi sentivo sotto le aspettative di chi mi conosceva. Ma una volta entrata in campo, ho cercato di restare concentrata e di dare il massimo. Superato il girone, ho capito che ogni passo successivo sarebbe stato un bonus, quindi ho giocato con più serenità. Alla fine, ho vinto senza rendermene conto subito. I miei genitori erano entusiasti, io ho realizzato solo dopo quanto fosse accaduto.

Cosa ti ha aiutato a vincere?

La chiave è stata mantenere la calma, soprattutto nelle prime partite. Le bocce sono uno sport di precisione, e ogni errore può fare la differenza. Ho cercato di non farmi influenzare dal risultato e di restare concentrata sul gioco, senza lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento. Quando il gioco diventa mentale, riuscire a mantenere lucidità è fondamentale.

Cosa ti aspetti per il futuro?

Mi alleno regolarmente, tre volte a settimana, e mi concentro su costanza e concentrazione. L’anno prossimo entrerò nella categoria B e spero di venire convocata per il campionato di B. Un giorno, il mio sogno sarebbe giocare per la Nazionale, ma al momento mi concentro sul miglioramento continuo, senza crearmi troppe aspettative.

Come descriveresti il tuo stile di gioco?

Il mio punto forte è la freddezza in campo. Non lascio trasparire emozioni, sia quando sono in vantaggio che quando sono in svantaggio. La concentrazione è fondamentale: se ti agiti, rischi di perdere lucidità e commettere errori.

Ti manca qualcosa della pallavolo?

La pallavolo mi ha dato emozioni forti, soprattutto nei momenti in cui riuscivo a fare una difesa spettacolare o a recuperare un pallone difficile. Però, nelle bocce trovo un altro tipo di soddisfazione, più legata alla concentrazione e alla calma. Non c’è la stessa pressione, e questo mi permette di giocare con più serenità.

Com’è la situazione delle bocce a Bolzano?

A Bolzano le bocce sono ancora viste come uno sport per anziani. Tuttavia, in altre regioni d’Italia, ci sono molti più giovani che praticano questo sport. Ci sono scuole di bocce e una vera e propria cultura intorno a questo gioco. Qui, purtroppo, c’è meno visibilità, ma spero che le cose possano cambiare: abbiamo un bocciodromo con dieci campi e sarebbe bello se ci fossero più opportunità per i ragazzi.

Autore: Niccolò Dametto

Davide e le acrobazie in monopattino

Davide Marasca, diciannovenne di Bolzano, è uno dei rider emergenti nel monopattino freestyle. Sebbene abbia iniziato a praticare questo sport solo a quattordici anni, in poco tempo è riuscito a farsi notare, partecipando ai Campionati Mondiali di monopattino freestyle a Roma nel settembre 2024. Con una passione in continua crescita, Davide sta portando il nome di Bolzano sulla scena internazionale.

L’avventura di Davide nel monopattino freestyle è iniziata quasi per caso. “Ho visto alcuni ragazzi fare acrobazie nello skatepark di Bolzano e ho deciso di provarci anch’io”, racconta. Quella che inizialmente era una curiosità è diventata una vera passione. Partecipare alle prime gare locali è stato il suo primo passo, ma è stato con competizioni più impegnative che ha davvero iniziato a mettersi alla prova.

Oggi Davide si allena regolarmente allo skatepark di Bolzano, il suo punto di riferimento per allenamenti e sfide con altri rider. Le sue sessioni durano dalle due alle tre ore, durante le quali si concentra sul perfezionamento dei trick e sul miglioramento della tecnica. “Mi alleno duramente per migliorare la mia tecnica e superare i miei limiti. Lo skatepark è il posto dove posso davvero esprimermi”, afferma.

Settembre 2024 è stato un mese cruciale per Davide, che ha partecipato ai Campionati Mondiali di monopattino freestyle a Roma. Nonostante non sia riuscito a salire sul podio, l’esperienza è stata fondamentale. “Confrontarsi con i migliori rider del mondo è stato un sogno che si è avverato. Anche se non ho vinto, ho imparato tantissimo e mi ha dato la spinta per migliorare ancora di più”, dice con entusiasmo.

Nel monopattino freestyle, la concentrazione è essenziale. Ogni errore può compromettere l’intera performance, quindi la capacità di mantenere calma e focalizzarsi sui trick è fondamentale. Il “Barspin”, una rotazione del monopattino a trecentosessanta gradi durante un salto, è uno dei trick più complessi e appaganti per Davide. “Quando riesco a fare un Barspin perfetto, mi sento soddisfatto del mio progresso”, racconta con un sorriso.

Davide Marasca ha le idee chiare sul suo futuro nel monopattino freestyle. Il suo obiettivo principale è partecipare a competizioni internazionali e conquistare un posto sul podio dei Campionati Mondiali. Oltre alla carriera agonistica, Davide aspira a entrare nel mondo del marketing sportivo, con l’intenzione di collaborare con marchi di monopattini per contribuire alla crescita di questo sport che tanto ama.

Per lui, il monopattino freestyle è molto più di un semplice sport: è una forma di espressione personale e creativa. Ogni acrobazia rappresenta una sfida contro sé stesso, e ogni trick che riesce a eseguire con successo è una conquista tecnica e emotiva.

Anche se Bolzano non è ancora un punto di riferimento per il monopattino freestyle in Italia, Davide è ottimista riguardo al futuro. Lo skatepark della città è già un ottimo punto di partenza, ma crede che ci sia un grande potenziale per far crescere questo sport anche in città. Il suo sogno è coinvolgere sempre più giovani e contribuire a dare maggiore visibilità al freestyle a Bolzano, con l’obiettivo di fare della città un centro di riferimento per gli appassionati di monopattino.

Con talento, determinazione e una visione chiara del futuro, Davide Marasca ha tutte le carte in regola per diventare una delle stelle del monopattino freestyle. Il suo percorso è appena iniziato e, con i suoi sogni e la sua passione, la strada verso il successo è senz’altro segnata.

Autore: Niccolò Dametto

“L’eterogeneità a scuola è un valore aggiunto” 

Negli ultimi mesi ha suscitato un vivace dibattito pubblico la formazione delle nuove classi presso la scuola primaria in lingua tedesca Goethe di Bolzano, soprattutto a causa dei nuovi ventilati criteri di suddivisione degli alunni all’interno delle classi. Molti degli allievi della scuola infatti sono di origine straniera e non conoscono la lingua tedesca e per loro erano stati ipotizzati  dei percorsi comuni, separati dagli altri bambini. Per approfondire questi temi, abbiamo interpellato il professor Dario Ianes, uno dei massimi esperti in pedagogia inclusiva in Italia. Ianes, che ha insegnato a lungo alla Libera Università di Bolzano, nell’intervista che vi proponiamo ci offre una riflessione approfondita sulla recente polemica e sui significati che assumono i concetti di “eterogeneità” e “inclusione” all’interno del sistema scolastico.

Professor Ianes, sulla vicenda della formazione delle nuove classi nella scuola primaria in lingua tedesca Goethe, è stato scritto di tutto. Da pedagogista lei questo dibattito come l’ha vissuto?

La vicenda l’ho vissuta ricordando che lo schema omogeneità-eterogeneità è ormai parte integrante dei nostri sistemi educativi. Il sistema italiano inclusivo vede l’eterogeneità, cioè il mescolare competenze e provenienze diverse, come un valore aggiunto, capace di stimolare identità condivisa, consapevolezza reciproca, solidarietà e sviluppo collettivo tra gli alunni.
Separare gli studenti in base all’omogeneità, come per lingua o capacità, non è dal mio punto di vista solo politicamente sbagliato, ma anche pedagogicamente errato. La ricerca scientifica dimostra chiaramente che l’eterogeneità produce risultati migliori in apprendimento, socialità e competenze socio-emotive, e trovo sorprendente che questi dati siano stati ignorati.

Lei ha accennato anche alla lingua: quando un alunno non conosce affatto la lingua di insegnamento, come si procede da un punto di vista pedagogico? Può essere considerato un bisogno educativo speciale, anche se temporaneo?

Da un certo punto di vista sì. Perché se ho un bisogno educativo normale – come comunicare con i miei insegnanti e compagni, ma non posso farlo perché, ad esempio, vengo dall’Ucraina e non conosco la lingua – questo bisogno diventa speciale. Serve dunque un supporto aggiuntivo per aiutarmi a sviluppare le competenze linguistiche, così che il mio bisogno diventi normale. Il punto è: dove trovo questo supporto speciale? Lo trovo in qualcosa di separato e isolante? O all’interno del processo naturale di apprendimento e socialità? Ogni bambino impara la lingua in un contesto normale, assorbendo i dialoghi, non in una classe separata. L’immersione in un contesto naturale è più efficace pedagogicamente. Possiamo senz’altro aggiungere un sostegno extra, come la mediazione culturale o l’arricchimento del contesto, ma sempre all’interno di un ambiente normale, non separato. La logica abilista, invece, dice: puoi partecipare solo se sei abile. Se non lo sei, devi acquisire l’abilità fuori, e solo allora entri. Ma questo approccio esclude, invece di integrare.

Nel dibattito pubblico si parla spesso di integrazione e inclusione come se fossero la stessa cosa. Può chiarire quali sono le differenze tra questi due concetti?

Negli anni ‘70, in Italia, il concetto di “inserimento” prevedeva che gli alunni con disabilità fossero semplicemente collocati in un contesto scolastico senza che questo fosse adeguatamente preparato. Con l’evoluzione verso “l’integrazione,” si è fatto un passo avanti: il contesto iniziava ad adattarsi, offrendo supporti specifici, come insegnanti di sostegno e percorsi individualizzati, ma la struttura scolastica restava sostanzialmente quella tradizionale. L’approccio inclusivo, invece, amplia questa visione. Non si tratta più solo di creare percorsi speciali per chi ha disabilità certificate o Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ovvero DSA (come dislessia, disgrafia e discalculia), ma di pensare una didattica aperta e modulabile per tutti gli alunni. L’inclusione parte dalle differenze umane, valorizzando le unicità di ciascun individuo, siano esse talenti, difficoltà linguistiche o diversi stili di apprendimento. In questo modo, la didattica si universalizza, permettendo percorsi personalizzati per tutti, non solo per chi ha problematiche specifiche.

Questi passaggi avvengono all’interno di un quadro normativo?

Sì, lo fanno a partire dalla legge 104 del ‘92, la legge quadro sulla disabilità, che però andrebbe aggiornata. Nel 2010 c’è stata una svolta per gli alunni con DSA, riconosciuti finalmente come aventi diritto a una didattica personalizzata. Nel 2012-2013 è stato introdotto il concetto di “Bisogno Educativo Speciale”, che include chiunque abbia difficoltà a soddisfare i propri bisogni educativi, a causa di disabilità, problemi familiari o linguistici. Esistono diversi fattori che influenzano il nostro modo di ‘funzionare’, e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, questo concetto va oltre il corpo e dipende fortemente dal contesto in cui viviamo, che può offrire certezze o barriere.

Ci può fare un esempio concreto?

Sì, le fornisco un esempio nell’ambito dei disturbi specifici di apprendimento. Se ho bisogno di un computer per leggere e comprendere un testo in tempi ragionevoli, quella è la mia modalità di funzionamento; ma se non posso usarlo, incontro una barriera non solo interna, ma anche relazionale con il contesto. Al contrario, un contesto che fornisce tecnologie integrate, come un computer, valorizza le mie differenze e mi offre pari opportunità rispetto a chi legge senza ausili. La condizione di svantaggio, emarginazione o discriminazione è sempre legata al rapporto con il contesto, che può facilitare il mio funzionamento o porre limitazioni. Alcuni insegnanti vedono l’uso del computer per far leggere come un aiuto indebito, ma in realtà serve a livellare le opportunità per alunni con DSA, consentendo a tutti di dimostrare le proprie conoscenze.

LA VICENDA DELLA SCUOLA GOETHE

All’inizio dell’anno scolastico, la proposta della dirigente scolastica Christina Holzer della scuola primaria in lingua tedesca “Goethe” nel centro storico di Bolzano, di formare una classe prima composta esclusivamente da ragazzi migranti e di madrelingua italiana, ha suscitato un ampio dibattito e una forte opposizione. 
La dirigente aveva giustificato questa scelta affermando che serve (serviva, considerato che è stata bloccata) a garantire un ambiente didattico appropriato sia per i bambini madrelingua tedesca che per quelli che devono iniziare da zero con la lingua. 
Si era trattato di una decisione in apparenza solo organizzativa, ma che evidenzia la pressione (anche politica) cui sono sottoposte le scuole di lingua tedesca, dove cresce il numero di bambini non di madrelingua.
L’assessore provinciale alla scuola tedesca Philipp Achammer aveva fermamente respinto e bocciato l’iniziativa della dirigente scolastica, considerandola una violazione delle leggi provinciali e nazionali, che mirano a promuovere una scuola aperta a tutti e vietano la creazione di classi “ghetto”. 
Gli aveva fatto eco l’intendente scolastica per le scuole di lingua tedesca Sigrun Falkensteiner, affermando che la scuola ha il compito di promuovere l’inclusione e di favorire il rispetto della diversità. 
Achammer ha ribadito che una gestione efficace della presenza di studenti di origine straniera richiede il loro inserimento nelle classi esistenti, piuttosto che una separazione in gruppi distinti, una scelta sostenuta anche da altri esponenti politici e dall’opinione pubblica, che hanno criticato duramente la proposta per il rischio di stigmatizzazione e isolamento.

Autore: Till Antonio Mola

La musica come identità e voce, per un un giovane talento

Oggi abbiamo il piacere di incontrare Kleris Qosja, un giovane di vent’anni nato a Brescia e cresciuto a Bolzano, nel quartiere Don Bosco. Kleris è un DJ appassionato, che ha trovato nella musica non solo una professione, ma anche un modo per esprimere sé stesso e connettersi con gli altri. Dopo aver frequentato a Bolzano l’istituto Galileo Galilei, ha iniziato a esplorare il mondo della musica, guidato dall’amore trasmesso da suo padre.

Quando ti sei appassionato al mondo della musica?

La mia passione per la musica è iniziata da quando ero molto piccolo, grazie a mio padre che mi ha trasmesso questo amore. Passavamo molto tempo ad ascoltare insieme le sue canzoni preferite, e penso che quel legame speciale mi abbia fatto comprendere quanto la musica fosse fondamentale per me. 

Perché hai scelto proprio di diventare DJ?

Essere DJ mi permette di trasformare le emozioni in musica e condividerle con gli altri, è anche un modo per sentirmi davvero bene e me stesso. Sentire l’energia della folla e creare una connessione speciale attraverso ogni brano è un’emozione unica.

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

La cosa che amo di più è vedere la reazione delle persone mentre suono. La loro energia e il loro entusiasmo creano una connessione speciale. Mi dà un’immensa soddisfazione riuscire a creare momenti che possono diventare indimenticabili.

Quali sono alcuni dei tuoi obiettivi raggiunti?

Sicuramente uno dei miei traguardi più importanti è stato suonare al Festival Studentesco. È stata un’esperienza che mi ha letteralmente cambiato la vita, facendomi capire che tutto l’impegno e la passione stavano finalmente portando risultati veri.

Com’è vivere nel quartiere Don Bosco?

Vivere a Don Bosco è davvero piacevole, è una zona tranquilla dove ho tanti bei ricordi con gli amici. È il quartiere in cui sono cresciuto. 

Ci racconti un ricordo particolare legato alla tua infanzia di quartiere?

Un ricordo speciale è aver condiviso questa mia passione per la musica elettronica con il mio migliore amico Matteo e aver da li creato un legame indelebile.

Che genere di musica ti piace suonare?

Mi piace suonare musica elettronica e dance, ma in realtà cerco sempre di adattarmi al pubblico e al contesto. L’importante è che la musica trasmetta energia.

Qual è il tuo più grande sogno?

Il mio sogno più grande è sicuramente quello di suonare nei festival più grandi al mondo con un’identità mia musicale (essendo anche un produttore di musica elettronica), avere un mio stile e far divertire le persone facendo entrare nel loro cuore ciò che voglio trasmettere.

Quali sono gli ingredienti necessari per una festa ben riuscita?

Per una festa perfetta ci vogliono buona musica, persone con voglia di divertirsi e un’atmosfera che permetta a tutti di essere sé stessi. La musica è fondamentale: ha il potere di creare legami e di far esprimere le persone. Può trasmettere emozioni che non riesci a spiegare a parole.

Autore: Niccolò Dametto

Johanna: una donna impegnata a fianco delle donne e dei minori

Johanna Herbst è nativa di Nova Ponente, ha studiato Legge a Trento e Innsbruck e nel 2004 ha aperto il suo studio legale a Egna. Con tenacia ha cercato e trovato la sua strada ed è riuscita ad affermarsi. Si batte per i diritti delle donne e dei minori, svolge anche attività di volontariato riguardanti i diritti delle donne, come ad esempio la consulenza legale per l’Ufficio Donne. 

Quando nacque in lei l’aspirazione di diventare avvocata?

In realtà, fin dall’inizio avevo un chiaro desiderio di studiare legge e, come molti altri, durante il percorso di studi avevo desiderato di diventare giudice. Dopo la laurea, però si conosce per la prima volta la realtà, cioè si inizia in piccolo, ci si rende conto che bisogna aspettare che vengano banditi i concorsi, ma nel frattempo si vuole/deve fare esperienza pratica e guadagnare allo stesso tempo. Così ho iniziato con un tirocinio presso un legale, poi ho insegnato diritto nelle classi quarta e quinta della scuola professionale Kaiserhof di Merano. Poi ho ricoperto l’incarico di giudice onorario presso il Tribunale di Bolzano, Sezione Distaccata di Merano, per poi rendermi conto col tempo che mi sentivo più a mio agio nella professione legale.  

Quale il caso che la scosse e la tenne in ansia?

I casi peggiori per me sono quelli che riguardano abusi e violenze. Di recente sono rimasta sconvolta dagli abusi sessuali su bambini minorenni da parte dei loro stessi zii e nonni, così come dagli abusi sui bambini da parte dei loro stessi genitori e parenti. In casi come questi, ci si interroga sulla specie umana.

Quando respirò per la prima volta il senso di aver contribuito a che giustizia fosse fatta?

È una domanda molto difficile e delicata, perché “avere ragione” e “ottenere la ragione” sono due aspetti diversi. Per esempio, posso avere ragione ma non ottenere giustizia perché non ci sono prove sufficienti. Il nostro sistema giuridico non ha nulla a che fare con la giustizia. Le leggi sono fatte dai politici. Esistono quindi principi, regole e norme giuridiche che devono essere attuate e applicate dal giudice secondo un ordine procedurale definito e nel modo già stabilito. In questo sistema, l’avvocato cerca di aiutare il cliente a realizzare le sue richieste scegliendo le opzioni migliori, spiegando il sistema e la legislazione e valutando i rischi e gli effetti collaterali. Ciò significa che, a prescindere dal fatto che si ritenga una cosa giusta o ingiusta, il senso di giustizia non gioca alcun ruolo nel procedimento. Così si impara rapidamente che l’atteggiamento idealistico nei confronti della giustizia con cui si è iniziato a studiare deve essere riconsiderato nella pratica.  Solo nel migliore dei casi si ha la sensazione di aver non solo vinto la causa, ma anche di aver assicurato la giustizia. 

Se non sbaglio lei ricopre un ruolo nel tribunale minorile… 

Un ruolo non è forse il termine giusto. Lavoro come curatrice speciale per i minori e sono iscritta in un apposito registro. Il curatore speciale può essere nominato dal Tribunale per i minori, ma anche dal Tribunale ordinario, quando il minore è in conflitto con i propri genitori o i suoi interessi non coincidono con quelli dei genitori. In altre parole, ogni volta che il minore ha bisogno di far sentire la propria voce e cioè di propria rappresentanza legale. Sono quindi, per così dire, l’avvocato del minore e rappresento solo il minore, indipendentemente da ciò che i genitori vogliono o non vogliono.

Come donna come si trova nel mondo dell’avvocatura altoatesina?

Nel frattempo, ho lavorato a lungo, sono stata accettata, integrata, e affermata. Con il passare degli anni, se non ti arrendi, trovi la tua strada e il tuo stile personale. Ma come donna, devi ancora superare più di un ostacolo, e aspettarti tempi di avviamento più lunghi. La parità di diritti non è ancora stata raggiunta.      

Come donna cosa vorrebbe fosse migliorato nel suo ambiente professionale?

Migliore compatibilità della professione con la vita familiare. Inoltre, le donne avvocato non possono sempre scegliere i settori in cui lavorare. In quanto donna, devi occuparti dei casi che ti vengono sottoposti o che ti vengono affidati e, a causa dei casi che devi trattare, cresci in una specializzazione. Ecco perché molte colleghe lavorano nel Diritto di famiglia, ad esempio, perché in quanto donna è più probabile che venga loro affidato questo settore. Se per esempio, come avvocato donna, volessi specializzarmi in Diritto societario, ma non riuscissi a trovare un impiego in uno studio legale e quindi diventassi una libera professionista senza però essere incaricata di trattare casi di questo tipo, non avrei scelta. Purtroppo in alcuni settori, i clienti credono ancora che un avvocato uomo possa gestire meglio il caso. Questi settori sono ancora dominati dagli uomini, cioè le grandi e importanti aziende sono ancora prevalentemente o esclusivamente gestite da maschi a livello decisionale, e per questo si rivolgono ad avvocati uomini. Secondo un recente studio commissionato dall’Ordine degli Avvocati di Bolzano, esistono ancora forti differenze di reddito. In media le donne avvocato guadagnano meno dei loro colleghi uomini. C’è ancora molto da fare.

Autrice: Rosanna Pruccoli

L’apnea è uno sport di sensazioni

Luca Messina – siciliano di nascita, milanese di formazione e trentino di domicilio – lavora a tempo pieno come architetto, marito e padre e ha una grande passione per l’apnea che lo porta a venire a Bolzano da Cavalese, per poterla seguire da agonista e futuro istruttore. 

Come hai scoperto l’apnea? 

Ho iniziato sin da piccolissimo. Abitando in Sicilia il mare era un elemento quotidiano. Mio padre era un pescatore subacqueo e, vedendolo, da bambino il mio istinto era quello di copiarlo e seguirlo. Poi ho iniziato a fare nuoto quindi l’acqua è rimasta nella mia vita quotidiana, ma faceva già parte di me. Al Nord non è così facile fare apnea, si può fare solo in piscina, al mare è più facile perchè puoi praticarla tutti i giorni.

Cosa ti ha fatto appassionare?

L’apnea ricreativa è uno sport bellissimo, è tutta una questione di sensazioni. Si fa pochissima fatica fisica e si conoscono tantissime sensazioni positive, che nascono dal fluttuare sott’acqua, è quasi un’esperienza primordiale, sembra una via di mezzo tra il volare e l’essere sospesi nel nulla. Queste sensazioni creano quasi dipendenza. È uno sport molto coinvolgente dal punto di vista mentale. Non c’è adrenalina, ci sono sensazioni che ti fanno stare bene con te stesso; è uno sport in cui si lavora di sé, sulle ansie, sulla respirazione, un po’ come lo yoga. Mediti, ti conosci e ti analizzi. 

Sei anche agonista?

Sì sono agonista. Quello dell’agonismo è un mondo un po’ diverso. Rispetto all’apnea ricreativa entra in gioco lo stress. Le gare consistono nello stare sotto il più possibile quindi bisogna combattere un po’ contro il proprio corpo e ciò che ti dice di non fare. Le gare sono uno step più in là sia dal punto di vista mentale che fisico. Le sensazioni positive ci sono, ma c’è anche molto stress; come in tutti gli sport agonistici il piacere di giocare viene inquinato dall’allenamento intensivo, ma le soddisfazioni rimangono davvero tante. Si evolve molto perché lavorando si raggiungono obiettivi che sembrano lontanissimi. Il mondo dell’apnea è socialmente molto bello, i concorrenti sono una grande famiglia, le gare sono divertenti. Quello fa la differenza: con i compagni di squadra ci troviamo bene e ci divertiamo; il bello delle gare sono il prima e il dopo della prestazione.

Quali pensi siano gli aspetti migliori di questo sport?

Il lavoro che fai su te stesso e il conoscersi fino in fondo. L’apnea permette di affrontare un lavoro su se stessi che raramente si farebbe. Oltre alle sensazioni ci sono anche i luoghi che si vedono. Fare apnea significa andare in giro e conoscere posti nuovi: Mar rosso, i laghi, il mare in Sicilia e in Sardegna. Si scoprono posti nuovi e si vede il mondo sotto al mare ed è incredibile. 

Ti piacerebbe diventare istruttore?

Sto facendo corso istruttore proprio adesso. Ho iniziato perché Andrea e Roland me l’hanno proposto in quando Manta Freediving, con cui mi alleno, sta crescendo. Non pensavo mi interessasse però da quando ho coinvolto e introdotto al corso un mio amico di Cavalese che non conosceva l’apnea, ho scoperto che insegnare e trasmettere la passione è molto bello.

L’apnea è anche un’attività di famiglia?

Sì, anche mia moglie è coinvolta e si è appassionata tantissimo. Anche i miei figli che vedono mamma e papà che lo fanno si sono appassionati e quando andiamo al mare diventano dei pesciolini che scoprono il mondo subacqueo. 

Autrice: Anna Michelazzi

Melissa: “ecco cos’è l’emigrazione”

Questa è la storia di Melissa De la Caridad Rodriguez Ortiz, donna che è dovuta scappare da Cuba a ventitré anni con il piccolo bambino, verso l’Italia. Dalla Russia alla rotta Balcanica con il pensiero costante di dover portare suo figlio al sicuro e con la paura di non riuscire a sopravvivere, lasciando dietro di sé le persone care senza sapere se un giorno le potrà rivedere.

Quando si parla di emigrazione e immigrazione a livello di opinione pubblica spesso ci si ferma alle problematiche relative alla sicurezza e all’impossibilità di gestire questi flussi che diventano incontrollati nella maggior parte dei casi solo a causa di precise scelte (o non scelte) politiche.
Abbiamo dunque pensato che potesse essere interessante raccontare la storia vera di una giovane donna che lavora come badante in Alto Adige e che è arrivata qui in maniera a dir poco rocambolesca (e pericolosa) assieme a suo figlio di tre anni. Interessante è anche la sua provenienza: non si tratta né di Africa né di Medio Oriente, ma del Centro America.

L’INTERVISTA

Melissa, ci dice in breve la sua origine?
Sono di L’Avana. Io e mio figlio Adriano siamo in Italia da due anni. A Cuba mi sono laureata in infermieristica e lavoravo in terapia intensiva pediatrica. Qui invece, a causa di problemi di equiparazione dei titoli, faccio la badante.

Perché è scappata da Cuba?
A Cuba mancava quasi tutto, ma dopo la pandemia anche beni di prima necessità, come medicine e alimenti per i bambini che sono diventati introvabili. L’11 luglio 2021 le persone hanno iniziato a manifestare prendendo di mira tutto ciò che potesse far pressione sullo Stato. In ospedale sentivamo le persone che lanciavano i sassi alle finestre e sono iniziati ad arrivare molti bambini feriti. Il governo ha attuato una repressione violenta. Ho smesso di sentirmi sicura, ho iniziato a pensare a mio figlio che doveva crescere e, in novembre, ho deciso di andare via. Ho venduto tutto per comprare i biglietti aerei per la Russia: l’unico Paese per il quale non avremmo dovuto aspettare costosi visti. Sono partita con il mio allora marito e Adriano.

Com’è arrivata in Italia?
Ho viaggiato per sette mesi. Come detto la prima tappa è stata la Russia. Da lì abbiamo preso un aereo per la Serbia. In seguito siamo arrivati in Bosnia pagando 300€ a persona per un trasporto in barca. Arrivati lì, ci siamo spostati nella capitale Sarajevo, nel centro di accoglienza Ušival, che si trova sulla rotta Balcanica. Lì le persone sono state bravissime con noi. Poi abbiamo preso un bus per il confine croato da cui abbiamo continuato a piedi in montagna lungo la rotta che molti conoscono perché su di essa è stato creato il videogioco “The Game”. Mi ricordo benissimo, siamo partiti alle 23 e siamo arrivati alle 6 di mattina. Mio figlio per tutto quel tempo non ha potuto mangiare o bere ed era impaurito dal buio totale. Non potevamo farci vedere mentre attraversavamo il confine: c’erano i poliziotti con i cani. In Croazia un’associazione ha mandato un minivan per portarci in un hotel a Zagabria, dove ho dovuto richiedere Protezione Internazionale per poter restare. Per arrivare al confine sloveno abbiamo quindi preso un bus. Alle 18 abbiamo iniziato a camminare e abbiamo dormito in un bosco fino alle 6 del mattino. Sentivamo i lupi e vedevamo le impronte degli orsi. Avevamo molta paura. Abbiamo dormito in un buco con delle pietre appuntite sperando che avrebbero tenuto lontani gli animali. La mattina abbiamo iniziato a scendere da una collina. Era così ripida che scivolavamo e l’unico freno erano gli alberi. Il bambino mi preoccupava tantissimo, ma mi ripetevo che eravamo lì per il suo bene. In Slovenia eravamo finalmente nell’Unione Europea e allora abbiamo chiamato i poliziotti che ci hanno portato in un centro di accoglienza dove siamo rimasti in attesa di un documento per poter uscire. Una volta ottenuto il documento abbiamo raggiunto il confine italiano e mio fratello è venuto a prenderci per portarci a Bolzano. Mi ha fatto sentire benissimo vedere il confine italo-sloveno: c’era solo un binario, lo passavi ed eri arrivata.

Qual è stato il momento più difficile?
In Russia. È un Paese molto freddo, le persone sono denigranti e razziste. Un giorno mi è stato richiesto di pagare per dormire la notte: sono andata a un bancomat, ma al ritorno mi sono persa e mi si è spento il cellulare. Due poliziotti allora mi hanno fermata e chiesto cosa stessi facendo; non parlando la lingua ho risposto in spagnolo dicendo che mi ero persa. Allora loro hanno utilizzato il telefono per usare il traduttore e così ho potuto spiegare chi ero e che mi ero persa. Loro si sono messi a ridere e a prendermi in giro, si sono accesi una sigaretta e mi hanno ordinato di spogliarmi. La temperatura segnava -28°. Mi hanno anche fatto togliere le scarpe e mettere i piedi nella neve. È stata una delle esperienze più traumatiche della mia vita. Ma ora tutto è passato, mi sento meglio. Tutto ciò che sono riuscita a fare, anche da sola, mi rende orgogliosa: ho iniziato a lavorare, ho sempre lavorato senza sosta, ho trovato casa e mio figlio va a scuola.

Qual è stato il suo pensiero più costante?
Il mio pensiero più costante è stato se sarei arrivata e se sarei arrivata viva. Anche perché scendendo dalla collina in Slovenia ho visto alcune mamme che si buttavano con i figli e che quindi morivano. Con mio figlio sulle spalle vedevo questo e mi chiedevo se, invece, io ce l’avrei fatta.

L’accoglienza a Bolzano com’è stata?
Negli uffici dove sono dovuta andare non sono riuscita a ricevere tutte le informazioni necessarie e mi sono sentita emarginata. Nel centro di accoglienza i bagni non erano divisi e le persone aprivano la tenda quando mi lavavo, è stato traumatico. La Caritas invece mi ha aiutato tantissimo. Così come l’associazione GEA che quando sono stata vittima di violenza domestica mi ha fornito supporto psicologico, un appartamento e assistenza legale nel caso avessi voluto denunciare. Tra le persone “comuni” invece ho incontrato sia persone razziste che persone molto belle.

Suo figlio Andriano come ha vissuto tutte queste cose?
Adriano è stato bravissimo, ogni tanto mi chiedeva dove fossimo e quanto mancava alla destinazione, ma in generale non mi chiedeva niente di più di quanto non gli dessi. Aveva molta paura del buio, non mangiava e non beveva come avrebbe dovuto, io mi preoccupavo, ma lui mi abbracciava. Per tutta quella strada lui mi ha sempre abbracciato. Non so se gli sia rimasto qualcosa di indelebile nella sua memoria. La paura di stare da solo gli è passata, ma quella di dover “tornare lì in montagna” ancora torna. Ciò che mi ha fatto soffrire di più è stato fargli attraversare queste difficoltà, ma so che l’ho fatto per lui. Non avevo altra scelta.

Autrice: Anna Michelazzi