“Wild blocks”: una giornata dedicata ai climber e nello specifico al “sassismo”

Sabato 4 maggio si è svolta la terza edizione del contest “Wild Blocks”, una gara di arrampicata sportiva all’aperto, organizzata da DoloMate in collaborazione con l’associazione YoUnited. La gara consisteva in trenta possibili vie posizionate sui due blocchi fuori da Salewa e gli scalatori potevano decidere quali completare, autovalutandosi con l’aiuto di una scheda. I migliori cinque si sono poi sfidati con un’ultima via comune. Il bouldering o sassismo è un’attività di arrampicata su massi (naturali o artificiali) che viene svolta a massimo 7-8 metri di altezza e consiste nel risolvere particolari sequenze di movimenti concatenati e dinamici, in genere pochi (8-10), ma estremamente difficoltosi. Questa disciplina viene svolta senza corda e imbragatura, gli atleti arrampicano in free solo. Abbiamo intervistato alcuni degli atleti presenti per scoprire assieme il mondo dell’arrampicata sportiva.

Anika, come ti sei avvicinata all’arrampicata?

I miei genitori arrampicavano e già da piccolina mi portavano in falesia con loro. Così un po’ per gioco ho iniziato a fare le mie prime arrampicate su roccia ed è nata la passione. Mi sono iscritta ad un corso di arrampicata indoor e da lì non ho più smesso. Ho iniziato a fare amicizie in palestra e ho iniziato ad andarci sempre più spesso. 

E invece a te Niklas, cosa ti piace di più del boulder?

Del boulder amo la forza e il dinamismo che questa specialità ti richiede. Lo sforzo mentale inoltre è molto grande, devi preparare con cura ogni mossa che vorrai fare in anticipo.

Ciao Michele, quali sono i tuoi progetti futuri come boulder?

Mi piace mettermi sempre alla prova e cercare di completare vie sempre più difficili. Sbagliare e migliorare dagli errori.

Giada, perché hai scelto di praticare questo sport e non un altro?

Questa disciplina ti permette di stare a contatto con la natura e di metterti costantemente alla prova con te stessa. A fine giornata torno a casa stanchissima e con gli avambracci che mi sembrano stiano per cadere, ma con un sorriso a trentasei denti.

Ciao Matteo, cosa ti piace in particolare di questo sport?

È un istinto che abbiamo naturalmente quello dell’arrampicata, tocca a noi migliorare la tecnica e riscoprire questo istinto.

E tu invece Lucia ci dici come ti alleni?

Principalmente arrampicando e cercando di fare gradi sempre più difficili. Un paio di volte a settimana invece vado in palestra per rafforzare i muscoli e migliorare la mobilità. Il boulder è uno sport di forza, resistenza, equilibrio e dinamicità.

Ad Anna invece chiediamo se non ha mai pensato di mollare questa attività sportiva…

A volte dopo una giornata passata cercando di chiudere una via e fallendo ogni volta mi viene da pensarlo, ma alla fine non ci riesco mai, perché questi momenti mi danno la motivazione per continuare a cercare le giuste sensazioni che ho provato in passato. L’adrenalina che il tuo corpo ha quando riesci a completare un tracciato è indescrivibile.

Infine ad Olga chiediamo se Bolzano è una città amica dei climber.

Si lo è! Abbiamo alcune bellissime palestre di roccia e tantissime falesie in provincia dove possiamo allenarci. Rispetto ad altre città noi siamo avvantaggiati avendo le montagne che ci circondano.

Autore: Niccolò Dametto

Raccontando storie

Ogni giorno, ciascuno di noi condivide esperienze, emozioni e ricordi attraverso narrazioni, ma sono pochi coloro che riescono a trasformare questi semplici racconti in storie coinvolgenti. In questo numero incontriamo Martina Pisciali, una storyteller bolzanina che con le sue parole riesce a incantare chiunque.

Raccontare storie è un’attività che ha contraddistinto l’essere umano da prima della nascita della scrittura. Lo “storytelling” è l’arte di narrare in modo avvincente, che va oltre la semplice lettura: lo storyteller coinvolge gli ascoltatori, dipingendo le immagini della storia attraverso la voce e il corpo. Proprio per questa capacità di stimolare l’immaginazione degli spettatori, lo storytelling è spesso definito il “cinema dei poveri”.

Nell’età contemporanea – in cui i film, le serie televisive e i video online monopolizzano l’industria della narrazione – potrebbe sembrare che lo storytelling sia un lavoro destinato a sparire. Molti invece sostengono che si tratti della professione del futuro, in grado di riportare una ventata d’aria fresca nei nostri mondi digitali.

L’INTERVISTA

Come ti sei avvicinata allo storytelling?

Quando ero alle superiori facevo un laboratorio di teatro con il Teatro Cristallo, dove ho conosciuto Chiara Visca. Grazie a lei, ho avuto l’opportunità di partecipare, quasi per caso, a un festival di storytelling a Roma. Questo evento è stato un punto di svolta per me, perché mi ha permesso di entrare in contatto con storytellers provenienti da tutto il mondo e di partecipare a numerosi workshops. Mi sono innamorata dell’arte di raccontare e ho deciso di proseguire nella formazione con la compagnia “Raccontamiunastoria” di Roma.

A quale età il pubblico resta più impressionato dalle storie?

Non c’è la persona sbagliata per le storie, ma solo la storia sbagliata per la persona. Io ho lavorato con tutte le fasce d’età, dai bambini più piccoli agli adulti e non ho mai trovato nessuno per cui non ci fosse una storia adatta.
Sicuramente gli adulti sono in astinenza da storie: mentre ai bambini vengono narrati spesso tanti racconti, gli adulti sono in ve trascurati, per cui quando vengono ad ascoltare si divertono di più. 
Ho fatto diversi progetti anche alle superiori e devo ammettere che coinvolgere gli adolescenti è la sfida più ardua del mio mestiere, però alla fine si riesce sempre a sfondare le barriere.
I bambini invece sono sempre molto contenti di ascoltare, a volte fin troppo: se non li si tiene a bada si rischia che vogliano raccontarla loro stessi, ma dopotutto anche questo è il bello dello storytelling.

Lo storytelling è il tuo unico lavoro?

Attualmente lavoro anche presso il Museo di Scienze Naturali di Bolzano e mi ritrovo in una posizione dove i miei due ruoli professionali si influenzano reciprocamente. Facendo la guida al museo, io sono sempre a contatto con il pubblico e sempre con gruppi diversi: è un utilissimo allenamento per comprendere le differenti fasce d’età e gli interessi di bambini, adolescenti e adulti.
Inoltre, durante il mio lavoro al museo cerco sempre di inserire nelle varie attività delle storie, anche nelle audioguide e nelle trame per i “delitti al museo”, che sono nelle serate che organizziamo al museo simili alle più conosciute “cene con delitto”. I miti sono il modo in cui i nostri antenati cercavano di darsi risposte, dunque per capire il progresso che ha portato alle scienze naturali di oggi bisogna partire da lì.

La città di Bolzano offre molte opportunità agli storytellers?

Le opportunità a Bolzano ci sono, però vanno cercate o create. Bisogna farsi conoscere e spesso spiegare in cosa consista lo storytelling: purtroppo in molti non sanno cosa sia…
Tuttavia, il lavoro c’è sicuramente e i progetti non mancano mai, ma per lavorare in Italia è necessaria molta burocrazia che ostacola il processo artistico. In altri Paesi europei gli storytellers sono più conosciuti e tutelati, ma sono fiduciosa che presto anche in Italia inizierà ad affermarsi come professione.

Pensi che le nuove tecnologie favoriscano o ostacolino il tuo lavoro?

Le nuove tecnologie rappresentano sicuramente un’opportunità per il mio lavoro di storyteller, poiché consentono di accedere a una vasta gamma di immagini ed esperienze che altrimenti sarebbero difficili da raggiungere. Tuttavia, negli ultimi tempi ho notato un cambiamento nei comportamenti dei giovani: sembrano dedicare sempre meno tempo a vivere esperienze dirette e ad arricchire il loro “archivio personale”. Non si passa abbastanza tempo ad assaporare le esperienze vissute in prima persona. Si fa sempre fatica ad immaginare i paesaggi naturali, anche i più semplici, come i fiumi e le pianure. Bisognerebbe vivere attivamente, prestando attenzione a tutti i cinque sensi in ogni momento.

Anche il luogo in cui si svolge lo storytelling è fondamentale: la stessa storia raccontata a persone e in ambienti diversi risulta completamente differente. Alcune ambientazioni in cui ho lavorato sono perfette per stimolare la fantasia del pubblico, come un’isoletta-oasi negli Emirati Arabi Uniti, ma anche il Belvedere di Canazei per rimanere in Trentino-Alto Adige.

Hai qualche consiglio per coloro che desiderano intraprendere la strada dello storytelling?

Lo storyteller deve certamente essere sempre attento a quello che ha intorno: quando ci si muove nel mondo bisogna osservare, annusare e sentire il più possibile. Quando si desidera che il pubblico visualizzi un’immagine descritta, è cruciale che lo storyteller la visualizzi chiaramente per primo: proprio come un attore teatrale deve incarnare appieno il personaggio che interpreta, allo stesso modo lo storyteller deve essere in grado di “vivere” la storia che narra.
Inoltre, è importante per gli storytellers ascoltare chi vuole raccontare qualcosa: l’esperienza altrui rappresenta un tesoro inestimabile se non è possibile visitare di persona i luoghi, percepire i profumi o immergersi direttamente in una cultura. L’ascolto e gli occhi attenti sul mondo diventano un elemento imprescindibile per arricchire e rendere autentiche le proprie narrazioni.

Autore: Luca Pompili COOLtour

Donarte, un’esperienza piena di significato

Più di un anno fa nasce DonArte, un progetto promosso da Admo Alto Adige Südtirol Ets (Associazione Donatori Midollo Osseo), che fonde l’arte e il dono in un’esperienza davvero importante e originale. 

L’obiettivo principale di DonArte è quello di avvicinare i giovani al mondo del dono e dell’arte attraverso una mostra che vede i ragazzi come protagonisti. Questo evento non si limita ad essere una semplice esposizione di opere artistiche, ma rappresenta un’opportunità per i visitatori di riflettere sul significato profondo della condivisione, della bellezza e della solidarietà. 

La mostra è stata concepita per dare spazio a numerosi artisti e, quest’anno, con la sua seconda edizione, molti di essi sono talentuosi ragazzi provenienti da diverse realtà. Sono stati coinvolti ragazze e ragazzi della realtà giovanile Cooltour-Artemisia, la classe 4D di indirizzo artistico del Liceo Pascoli, ma anche Francesca Tomasi e Daniela Colle dell’Associazione degli Artisti della Provincia Autonoma di Bolzano.  

Gli artisti provenienti da queste realtà sono stati invitati ad interpretare un testo contenente undici parole legate al concetto del dono, creando così un percorso all’interno della Galleria Civica di Bolzano, in Piazza Domenicani 18, che accompagna i visitatori dal buio alla luce attraverso parole quali tempo, speranza, bisogno, dono, altro, scelta, rinascita, vita e bellezza.

DonArte cerca di dimostrare che l’arte, in tutte le sue forme, è un potente strumento per trasmettere messaggi importanti e per favorire un cambiamento verso una società più solidale e consapevole. “Nel mondo c’è tanta bellezza e tenerla per sé non serve a nulla. L’unico modo perché la bellezza possa avere valore è condividerla”, afferma Emanuela Imprescia, presidentessa di ADMO Alto Adige Südtirol. 

L’inaugurazione della seconda edizione di DonArte si terrà il 6 maggio alle ore 18 presso la Galleria Civica di Bolzano, e la mostra sarà aperta al pubblico fino al 18 maggio. Oltre all’esposizione sono stati organizzati diversi eventi collaterali all’interno della Galleria come: una lettura di poesie il 6 maggio, una “Tavola rotonda” con gli artisti di DonArte il 13 maggio e un evento musicale il 17 maggio per portare l’attenzione della cittadinanza su temi importanti come la donazione. 

La prima edizione della manifestazione, l’anno scorso, ha ottenuto un grande successo per quanto riguarda la partecipazione e l’affluenza delle persone.

Autrice: Sanaa El Abidi COOLtour

Un cubo, per uscire dal ritiro sociale 

“Dentro il Mio Cubo” è un’iniziativa organizzata dal progetto “Invisibili”, in collaborazione con Fondazione Museion di Bolzano, e si preoccupa di sensibilizzare e promuovere la consapevolezza sulla salute mentale, concentrandosi in particolare sul tema dell’isolamento. 

Il progetto consiste nella rielaborazione del tema attraverso l’arte. I ragazzi che frequentano l’atelier di Arte e Arteterapia del progetto “Invisibili”, dell’associazione “La Strada-der Weg”, insieme ad alcuni studenti interessati, verranno coinvolti nella realizzazione di opere d’arte sotto la guida di esperti esterni che collaborano all’iniziativa. 

Le opere realizzate verranno esposte all’interno del Cubo Garutti, o Piccolo Museion, situato in via Sassari 17b, offrendo uno spazio di riflessione sulla tematica. 

Grazie alla collaborazione con l’associazione Hikikomori Italia, “Dentro il Mio Cubo” si propone di coinvolgere i ragazzi in ritiro sociale, offrendo loro la possibilità di condividere le proprie opere. 

La mostra verrà inaugurata il 16 maggio e sarà possibile visitarla fino al 31 maggio. In questo periodo di tempo verranno invitate scuole e centri giovanili per condividere il senso di queste opere. Le classi potranno in seguito elaborare un tema o un aforisma che verrà raccolto e che darà l’idea per un futuro murales nella città di Bolzano. 

“Dentro il Mio Cubo” dimostra come l’arte possa essere utilizzata come mezzo di espressione e sensibilizzazione su tematiche importanti come il ritiro sociale. 

Autrice: Sanaa El Abidi COOLtour

L’importanza della lotta contro i disturbi del comportamento alimentare

Soprattutto tra i più giovani, ma non solo, i comportamenti anomali con il cibo si stanno progressivamente affermando come una vera e propria epidemia sociale, che deve essere affrontata con la necessaria consapevolezza e con gli strumenti adeguati. Ne parliamo con la dott.ssa Rita Trovato, specialista in Scienza dell’Alimentazione e Nutrizione Clinica che ha lavorato come medico interno presso la Cattedra di Scienza dell’Alimentazione e della Dietetica dell’Università degli Studi di Parma ed è stata anche viceprimario presso il Servizio di Dietetica e nutrizione clinica Comprensorio sanitario di Bolzano.

Si sente parlare diffusamente dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) come di una vera epidemia sociale. Ci può inquadrare brevemente il problema?

I Disturbi del Comportamento Alimentare sono da alcuni anni oggetto di attenzione crescente da parte del mondo scientifico e delle comunità degli operatori sanitari in virtù anche della loro diffusione tra le fasce sempre più giovani della popolazione. Questi disagi che rappresentano una difficile sfida sia per i clinici che per gli psicoterapeuti non  sono un capriccio ma disturbi psicosomatici complessi che si caratterizzano da un anomalo rapporto con il cibo, dalla alterata percezione del peso e della propria immagine. Tutti questi fattori si correlano tra loro in un profondo e conflittuale disagio psichico che trova espressione nell’alterato rapporto con il cibo e con il proprio corpo

Quali sono i disturbi più frequenti?

I disturbi sono classificati da manuali diagnostici internazionali e comprendono: l’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa, il Disturbo da alimentazione incontrollata. Vi sono inoltre forme parziali o subcliniche che non comprendono tutti i sintomi necessari per fare diagnosi dei disagi precedentemente elencati.

Come si distinguono tra loro?

L’Anoressia nervosa si caratterizza per consistente perdita di peso corporeo, rifiuto di mantenere un peso corporeo al di sopra del peso minimo normale per età e statura, intensa paura di ingrassare anche se si è fortemente sottopeso e influenza del peso e della forma corporea sull’autostima. La Bulimia nervosa si caratterizza per ricorrenti episodi di abbuffate compulsive con la sensazione di totale perdita di controllo, comportamenti di compenso volti ad evitare l’aumento di peso come vomito, abuso di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo, stima di sé influenzata dalla forma e dal peso corporeo. Il Disturbo da alimentazione incontrollata condivide con la bulimia nervosa gli episodi di abbuffata ma non le pratiche di compenso volte ad impedire l’aumento di peso per cui i soggetti possono sviluppare una condizione di obesità.

Questi disagi si riscontrano anche nella popolazione di sesso maschile?    

Il peso e le forme corporee sono diventati oggetto di cura e fonte di preoccupazione anche per gli uomini ma con espressioni diverse come la bigoressia intesa come esercizio muscolare compulsivo accompagnato da diete iperproteiche e abuso di integratori spinti dal desiderio di possedere un corpo sempre più muscoloso e dalla ortoressia caratterizzata dall’ossessione per una alimentazione sana. Nella mia esperienza professionale ho avuto comunque modo di notare anche tra i ragazzi un aumento sia dell’anoressia nervosa che della bulimia che del disturbo di alimentazione incontrollata.

Statistiche alla mano quanto è vasto il problema in Italia e nella nostra provincia?

Le ultime indagini effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità stimano in almeno 3 milioni le persone che soffrono di un disturbo alimentare. La fascia di età maggiormente colpita va dai 15 ai 25 anni interessando prevalentemente il sesso femminile. Dopo la pandemia del 2020 i dati epidemiologici sottolineano purtroppo a livello europeo un forte aumento nelle fasce di età dei 10-13 anni con un incremento di casi clinicamente molto gravi. In Alto Adige l’indagine sui giovani dell’Istituto Provinciale di Statistica Astat 2021 rileva che il 24% delle giovani donne tra i 14 e i 25 anni si ritiene troppo grassa anche se normopeso o sottopeso. Il conseguente tentativo di dimagrimento, spesso con diete dannose e non necessarie, possono essere il primo passo verso un disturbo alimentare. Nel nostro territorio sono oltre 600 le persone che attualmente sono in cura con un aumento del 30% rispetto al 2020.Per i minori l’aumento è stato del 53%.

Possiamo parlare di cause che inducono insorgenza di un disturbo alimentare ?

Non esiste una risposta univoca a questa domanda, possiamo parlare di vari fattori di rischio sia genetici che ambientali. Alcune caratteristiche di personalità come perfezionismo, bassa autostima, difficoltà nel gestire le emozioni si associano ad una aumentata vulnerabilità nei confronti di questi disturbi. Tra i fattori socioculturali un ruolo significativo è svolto dai canoni dell’aspetto fisico promossi dall’industria della moda e della pubblicità dove il raggiungimento della magrezza è considerato, nella società occidentale, un modello vincente  e la valutazione di sé diventa dipendente dal peso e dalla forma del corpo.

Quali cure e quali speranze di guarigione?

La maggior parte delle persone con disturbi dell’alimentazione non ricevono una diagnosi e un trattamento adeguati. La guarigione raramente avviene da sola ma richiede un approccio integrato multidisciplinare (internisti, dietologi, psichiatri, psicologi, pediatri). Tutte queste figure professionali collaborano nelle varie fasi di un percorso diagnostico terapeutico concordato e condiviso che richiede un lavoro motivazionale costante. Le complicanze mediche e psichiche di una grave malnutrizione non trattata adeguatamente possono essere molto gravi. Il rischio di morte per una persona con diagnosi di anoressia è 5-10 volte superiore a quello di soggetti di pari età e sesso e il rischio suicidario costituisce circa il 20% di tutte le cause di morte. La diagnosi e la cura tempestiva presso strutture dedicate con operatori competenti risulta fondamentale per garantire un successo terapeutico ed evitare la cronicizzazione della patologia.

Cosa si sente di consigliare ?

Andrebbero promossi programmi di coordinamento e prevenzione attraverso rapporti di collaborazione con le scuole e con gli insegnanti, nonché con i medici di medicina generale, e coinvolgendo in questi programmi  anche l’industria alimentare, i media, l’ industria della moda, le  associazioni sportive senza dimenticare la volontà politica.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Hockey a Bolzano: non solo Foxes!

Il mondo del hockey su ghiaccio in Alto Adige è fortemente segnato dalla presenza del HCB Foxes; ma non esistono solo loro! Lo può confermare Roberto Scelfo, ex giocatore di hockey su ghiaccio italiano e oggi allenatore delle giovanili. Ha giocato per quasi tutta la sua carriera con la maglia del Renon, tra prima e seconda serie, ed è uno dei pochi portieri militanti nel campionato italiano ad avere all’attivo una rete segnata. Oggi parliamo assieme a lui di hockey altoatesino.

Ciao Roberto, raccontaci un po’ chi sei… 

Sono Roberto Scelfo ho 53 anni e sono cresciuto a Renon, con mamma altoatesina di Renon e papà siciliano; ho anche un fratello. Sono sposato e padre di tre figli (Michaela, Lorenzo e Victoria) e giovane nonno (ho già due nipotini).
La mia più grande passione era il calcio, fino a quando non ho conosciuto l’hockey su ghiaccio.

Come ti sei avvicinato al mondo dell’hockey?

Mi sono avvicinato a questo stupendo sport tramite amici. Andavamo a giocare al lago di Costalovara, avevo dieci anni.

Come hai deciso di diventare allenatore?

Dopo 23 anni di attività agonistica ho deciso di smettere e di dedicarmi alla famiglia, ma mi mancava la pista da ghiaccio e ho incominciato ad allenare le piccole categorie del Renon.
Dopo alcuni anni nel settore giovanile mi è stata data la possibilità di fare il viceallenatore della prima squadra, vincendo da subito il primo titolo della storia del Renon. Dopo quattro anni con la prima squadra mi sono trasferito a Trento per un progetto importante: far crescere l’hockey anche lì. Siamo partiti con 80 bambini, con categorie che arrivavano fino all’under 15. Dopo sei anni di lavoro siamo arrivati a 130 bambini circa e tutte le categorie nel settore giovanile.

Che squadre segui al momento?

Al momento seguo i ragazzi della categoria U16/U19 del Renon, ma lavoro anche con i più piccoli. In passato ho fatto parte dello staff tecnico della nazionale giovanile e senior.

Il lato più bello dell’essere allenatore?

Sono molti gli aspetti positivi! I ragazzi sono delle spugne e hanno tanta voglia d’imparare, sono curiosi e alla fine quando vedi i loro progressi ti senti felice per loro.
Alto Adige non significa solo Foxes… L’Alto Adige ha bisogno dei Foxes per dare visibilità e, un altro aspetto importante, dare stimoli ai giovani ragazzi di raggiungere un sogno, giocare per la squadra più importante in Italia.

Perché consiglieresti ad un ragazzo di iniziare a giocare ad Hockey?

L’Hockey è lo sport più veloce al mondo, dove nello stesso momento devi tenere l’equilibrio, pattinare, controllare un piccolo disco con una stecca e trovare la soluzione di gioco giusta. Durante la partita si gioca duro ma sempre rispettando l’avversario e a fine partita si ritorna amici.

Cosa cerchi di trasmettere ai tuoi ragazzi?

Cerco di trasmettere la passione, la voglia di mettersi in gioco, di non mollare mai, di credere sempre in sé stessi e avere rispetto per gli altri.

Nella nostra regione ci sono abbastanza palazzetti? Sono in buone condizioni?

In Alto Adige dobbiamo essere felici per tutti i palazzetti che abbiamo, che sono peraltro in ottime condizioni. La cosa più importante secondo me però è utilizzare il ghiaccio al meglio, lavorando sui dettagli e accompagnando con attenzione la crescita dei ragazzi.

Autore: Niccolò Dametto

La passione dei radioamatori

Molti di noi avranno sentito nominare i radioamatori, ma quanti sanno chi sono e cosa fanno? Per rispondere a queste domande abbiamo incontrato Marco Tienghi, presidente della sezione bolzanina dell’associazione che riunisce tutti i radioamatori italiani.

150 anni fa nasceva Guglielmo Marconi, il padre della radiotrasmissione, il primo a riuscire a dimostrare la fattibilità dell’invio di un segnale attraverso le onde radio. Da allora il mondo è cambiato, ma la tecnologia da lui inventata continua ad essere centrale, soprattutto quando la reti tradizionali di comunicazione collassano.
Vi siete mai chiesti chi siano i radioamatori? Stando alla enciclopedia libera Wikipedia, il radioamatore è uno sperimentatore del mezzo radio e delle radiocomunicazioni intese nella più ampia accezione del termine. L’attività radioamatoriale viene classificata a livello internazionale come un servizio e prevede quindi diritti e doveri ben precisi.
Abbiamo deciso quindi di contattare la sezione di Bolzano della Associazione Radioamatori italiani (www.aribz.it), nella persona del suo presidente Marco Tienghi. Fondata nel 1946, con 50 iscritti è la sezione è la più grande in provincia (ci sono anche Merano e Brunico).

L’INTERVISTA
Chi sono i radioamatori?
I radioamatori sono degli appassionati della tecnica delle comunicazioni via radio che si dedicano allo studio dei vari fenomeni connessi con le onde radio. Poi è chiaro che una volta che uno studia e impara ad utilizzare al meglio le proprie apparecchiature, acquistate, ma in molti casi anche costruite autonomamente, poi si dedica anche ad utilizzarle. Qui i collegamenti possono essere locali o finanche con l’altra parte del mondo, persino oltre la curvatura terrestre, sfruttando la ionosfera, la riflessione sulla luna, o qualche satellite… Le possibilità sono molteplici.

Spesso nella vita di tutti i giorni si tende a confondere CB e radioamatori.
Diciamo che ci sono diversi tipi di appassionati. Per esempio ci sono anche quelli che si dedicano solamente all’ascolto, i cosiddetti SWL, acronimo per Short Wave Listeners (ascoltatori su onde corte, ndr). Oppure i CB, le cui apparecchiature si trovano in negozio e sono limitate a certe frequenze che non possono essere cambiate.
Quando si parla di radioamatori solitamente si parla di persone con competenza tecnica cui piace trasmettere, e vedere quanto distante riesce ad arrivare il proprio segnale. Insomma: dove e come si riesce a farsi sentire. Ma anche qui ci sono tanti modi per farlo: parlando, quindi in fonia, oppure in telegrafia, che può sembrare un modo forse arcaico, sicuramente antico, ma in realtà ancora oggi molto molto efficace. Pensi che quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di Guglielmo Marconi. L’invenzione della telegrafia senza fili attraverso le onde radio gli valse il Premio Nobel per la fisica nel 1909 e sono diverse le istituzioni che si stanno dando da fare per far riconoscere la telegrafia come patrimonio immateriale UNESCO. Quello che distingue il radioamatore dalle altre categorie sono le competenze tecniche certificate che gli permettono di arrivare a costruirsi gli apparati. Gli viene inoltre data libertà nel loro utilizzo su più frequenze, con più bande e più potenza. Ognuna di queste bande ha caratteristiche particolari di comportamento, caratteristiche fisiche che le rendono per esempio adatte a collegamenti a lunga distanza oppure a collegamenti locali. Per cui lo studio, la curiosità, è proprio per anche andare a capire e a imparare come si comportano, ad esempio le onde a diverse frequenze, a diverse ore del giorno o della notte, e in diverse condizioni della ionosfera. Tutto ciò non toglie che ci possa essere la fase in cui il radioamatore abbia voglia di mettersi comodo a fare le sue quattro chiacchiere con radioamatori vicini. Questo per dire che non è che siamo sempre a studiare dalla mattina alla sera!

E c’è bisogno di una autorizzazione specifica?
Il radioamatore per fare le sue attività deve sottoporsi a un esame del ministero preposto, che ne certifica le competenze tecniche e la conoscenza delle normative. Sostenuto questo esame, si consegue la Patente di Operatore di stazione del Radioamatore, dopo di che con quella è possibile richiedere il nominativo e l’autorizzazione generale che ti abilita all’utilizzo delle apparecchiature e ad utilizzare le frequenze che a livello internazionale sono state riservate per l’uso e la sperimentazione da parte dei radioamatori.
C’è una dotazione base per diventare radioamatori?
Può essere anche minimale. Se qualcuno ha capacità di saldare qualche componente elettronico, con pochi euro è in grado di costruire un ricetrasmettitore funzionante che ti permette di coprire anche tutto il nord Italia. Un piccolo microfono, un altoparlantino, non serve molto altro. La cosa che serve sempre, e che causa gioie e dolori, è l’antenna, che deve essere posizionata preferibilmente in alto (aggiungo che non tutti sono contenti di vederla sui tetti delle case).

C’è una età consigliata per iniziare a fare il radioamatore?
Assolutamente non ci sono limiti di età; non bisogna essere giovani, ma noi speriamo sempre che arrivino tanti giovani, cerchiamo di fare attività di informazione con le scuole o con altre associazioni per promuovere la nostra passione, cercando di incuriosire. Poi la curiosità ci può essere ad ogni età. Molti dei nostri soci sono anche molto avanti con gli anni, alcuni sono ultraottantenni. Pensi che abbiamo un socio iscritto ininterrottamente da più di 70 anni e che ha ben 92 anni di età. Si tratta di Franco Miori, la sua sigla come radioamatore IN3ZMY.

Cosa implica una sigla?
La sigla in realtà è la targa del radioamatore. Una volta conseguita la patente, il Ministero gli assegna un nominativo che lo identifica, quindi nel nostro caso si inizia con la “I” di Italia. Poi un numero che di solito identifica la zona. Per esempio nella nostra zona, il 3 indica il Triveneto. E l’ultima parte, le ultime tre lettere, sono quelle che identificano la persona… è in questo senso che dico che la sigla è un po’ come una targa per il radioamatore.

“I radioamatori sono degli appassionati della tecnica delle comunicazioni che si dedicano allo studio dei vari fenomeni connessi con le onde radio”

I radioamatori possono anche avere un ruolo nell’affrontare le calamità naturali?
A partire dal terremoto del Friuli i radioamatori sono diventati più conosciuti. Di norma vengono chiamati quando le reti di comunicazione ordinarie per qualche motivo collassano. È successo anche recentemente in occasione delle alluvioni in Emilia Romagna e dopo i terremoti a L’Aquila. Ogni mese noi stessi da Bolzano facciamo una prova radio di protezione civile. Viene chiamata la “prova di sintonia” tra prefetture, per cui dei nostri operatori si recano al Commissariato del Governo, dove è presente una stazione fissa, per collegarci alle altre prefetture di tutta Italia: Sicilia, Sardegna, Piemonte. Oppure anche con la sede del Ministero dell’Interno a Roma. Alle volte vengono coinvolte anche delle unità navali.

Ci sono ricorrenze particolari in questo periodo?
A livello locale, la sezione cugina di Trento festeggia i 90 anni della Fondazione. E noi tra un paio d’anni festeggeremo gli 80 della sezione ARI di Bolzano. Per cui questo momentaneamente prende un po’ il sopravvento il livello locale rispetto alla giornata mondiale dei radioamatori che è il 18 aprile ed è la ricorrenza della fondazione della IARU, cioè l’International Amateur Radio Union, l’Unione Internazionale dei Radioamatori, che è stata il 18 aprile del 1925. Quindi l’anno prossimo saranno i 100 anni della Fondazione e lì sarà probabile qualche iniziativa in più.

Autore: Till Antonio Mola

Da un pugno di polvere: la storia di Mariasilvia Spolato

Nel 2018 nella casa di riposo Villa Armonia, morì Mariasilvia Spolato. Molti la conoscevano per essere stata una senzatetto che nei mesi freddi cercava rifugio presso la Biblioteca Civica o presso il Centro Trevi. Fu un articolo del giornalista Luca Fregona sulle pagine dell’Alto Adige a svelare una storia per molti incredibile e cioè che Mariasilvia negli anni ‘70 era stata la prima donna italiana a dichiarare pubblicamente il proprio amore per una donna. L’articolo fu letto anche da una scrittrice triestina, Donata Mljac Milazzi, che venne a Bolzano per il funerale della donna e cominciò a ricostruire la sua storia, che ora raccolta in un libro, dal titolo “Da un pugno di polvere, la biografia della prima donna che ha compiuto coming out in Italia”.
Qui Bolzano ha intervistato Donata Mljac Milazzi.

La prima domanda è d’obbligo: chi era Mariasilvia Spolato?
Mariasilvia Spolato è stata importante per quanto riguarda le lotte di rivendicazione femministe, soprattutto perché è stata la prima donna a dichiararsi omosessuale. Questo ha avuto delle conseguenze pesantissime sulla sua vita. Mariasilvia era una insegnante ed era anche un’autrice che aveva scritto nel 1972 per Zanichelli il libro “Gli insiemi e la matematica”. Nello stesso anno aveva anche realizzato quello che è il testo fondamentale e di rivendicazione dei diritti degli omosessuali dal titolo “Il movimento omosessuale di liberazione”. Mariasilvia era anche una poeta e sono riuscita a recuperare due poesie sue. Mi hanno detto che scriveva poesie bellissime che purtroppo non sono arrivate a noi.

Ci ha spiegato l’importanza di Mariasilvia, ma c’è un episodio che le ha cambiato la vita…
L’8 marzo 1972 per Maria Silvia è stata una data fondamentale perché durante una manifestazione femminista a Campo de’ Fiori a Roma partecipa anche Jane Fonda, e questo attrae giornalisti e fotografi delle grandi testate. Per farla breve: la fotografia di Mariasilvia che porta un cartello con la scritta “Fronte di liberazione omosessuale” finisce sul settimanale Panorama a corredo di una intervista a Simone De Beauvoir. Questa foto e la relativa visibilità nazionale hanno ripercussioni importanti sulla vita di Mariasilvia. Lei che insegnava nella scuola è stata prima demansionata e poi dichiarata inadatta all’insegnamento e allontanata. Per lei questo fu un colpo durissimo cui si è aggiunto di lì a poco anche l’allontanamento dalla sua famiglia. Furono colpi durissimi dai quali non si riprese più.
Mariasilvia si uscì dalla vita pubblica ed ha cominciato inizialmente a fare la spola tra Roma e Bolzano, acquistando l’abbonamento e dormendo sui treni. E, finiti i soldi, ha cominciato a vivere in strada a Bolzano, dove per fortuna ad un certo punto ha potuto essere sostenuta dalla rete dei servizi sociali. Mi sono fatta una idea. Mariasilvia sapeva scrivere, aveva contatti ed avrebbe avuto la possibilità di riqualificarsi, ma io penso che abbia scelto di uscire dalla società che la avevo ferita così profondamente.

“Da un pugno di polvere, la biografia della prima donna che ha compiuto coming out in Italia” di Donata Mliac Milazzi (Rossini Editore) verrà presentato presso la Biblioteca Claudia Augusta (c/o Centro Trevilab) lunedì 22 aprile prossimo, alle ore 17.30.
Sarà presente l’autrice in dialogo con Sara degli Agostini, Luca Fregona e Lorenzo Zambello. L’evento è organizzato da Centaurus in collaborazione con la Biblioteca Provinciale italiana Claudia Augusta e GocceTropfen.

Autore: Till Antonio Mola

Mobilità sociale in Alto Adige: quali prospettive?

Quanto ci mette – in media – un ragazzo/una ragazza nato/a in una famiglia povera a salire la scala sociale e a raggiungere una posizione economica migliore di quella “ereditata” dai propri genitori?
Ce lo rivela uno studio effettuato nel 2018 dall’OCSE e il responso non può che disorientare chi è fermamente convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. L’OCSE, per inciso, è un’organizzazione internazionale con lo scopo di promuovere a livello globale politiche che migliorino il benessere economico e sociale dei cittadini. Ne fanno parte 38 paesi europei (tra cui Italia, Austria, Svizzera, Francia, Polonia e Regno Unito) e asiatici (Corea, Giappone) insieme ad Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti d’America. Orbene, nei paesi membri dell’OCSE ci si impiega mediamente cinque generazioni o 150 anni per raggiungere uno status sociale e un reddito che permettano una vita dignitosa.

Partendo da questi dati poco rassicuranti, il 5 aprile tre associazioni / istituti locali quali l’AFI (in persona del presidente Andreas Dorigoni), la Federazione per il Sociale e la Sanità (in persona del presidente Wolfgang Obwexer) e l’EURAC research (in persona della vicedirettrice Roberta Bottarin) hanno promosso al Centro Pastorale di Bolzano un evento dal titolo “Mobilità sociale: Quali prospettive per l’alto Adige?”
Il termine mobilità sociale indica l’opportunità di “scalare” i gradini della scala sociale garantita anche a chi è costretto a partire dai “bassifondi” della società. I politici presenti (il Landeshauptmann Kompatscher, l’assessora Pamer e l’assessore Galateo), pur riconoscendo che “anche in Alto Adige rimane molto da fare”, hanno tuttavia precisato che l’ex isola felice parte comunque da una situazione meno desolata di altre realtà. Ma prima dei “decisori politici” sono intervenuti gli esperti dei tre enti (Elisa Piras, Stefan Perini e Günther Sommia), ossia coloro che nel 2022 hanno condotto uno studio incentrato sulle criticità della società altoatesina.
In sostanza, in Alto Adige “le opportunità individuali di raggiungere determinate posizioni sociali sono ancora distribuite in modo ineguale e legate al background sociale”, hanno affermato i tre studiosi. Attraverso sette workshop tematici a cui hanno partecipato 63 esperti, sono stati elaborati i campi d’azione per la promozione della mobilità sociale. Salute, inclusione sociale, famiglia, istruzione, mercato del lavoro, sistema fiscale e prestazioni pubbliche, sviluppo urbano e rurale sono stati gli argomenti affrontati con l’obiettivo di “elaborare misure concrete per promuovere la mobilità sociale nel contesto altoatesino”.
La parte del leone ossia il punto nevralgico o “freno sociale” numero uno del sistema altoatesino è risultato essere quello della casa. Scarsità di alloggi disponibili per tutti, prezzi di acquisto o locazione inaccessibili alle fasce meno agiate della popolazione producono “conseguenze negative per l’inclusione sociale e l’attrattività del mercato del lavoro”. Urge, quindi, un piano “di costruzione e ristrutturazione di alloggi sociali che sia inclusivo, equo e sostenibile”.
Per il resto, il locale mercato del lavoro è contrassegnato da “incertezza salariale” e ”la segregazione tra i gruppi linguistici” incide negativamente sulle possibilità di sviluppo individuali. Anche la mancanza di servizi coordinati di supporto ai giovani e ridotte competenze linguistiche rendono difficoltosa la mobilità sociale. Allo stesso modo, rimane difficile conciliare vita lavorativa e compiti di assistenza e cura.
Il presidente Kompatscher e gli assessori hanno offerto al folto pubblico la loro visone della “realtà”, affermando, riguardo alle misure indicate nello studio, che molte di queste erano già inserite nel programma di giunta. Altre, invece, rimangono di difficile realizzazione “per mancanza di mezzi finanziari”.

Autore: Reinhard Christanell

Le ragazze di Eco Social Design e i bambini alla scoperta della vita delle piante

Anna Lienbacher, Monica Ramos e Miriam Pardeller, studentesse del master di Eco Social Design presso la Libera Università di Bolzano, hanno realizzato, nel periodo compreso tra ottobre e gennaio, un progetto volto a promuovere l’ecologia e l’educazione dei più giovani sulle pratiche di giardinaggio e sull’importanza della sostenibilità ambientale.

Il gruppo, collaborando con la realtà giovanile Cooltour e il polo educativo Polo Ovest, ha incontrato i bambini del quartiere Don Bosco per condurre una serie di workshop interattivi sulle piante. Durante i laboratori i giovani partecipanti hanno imparato a piantare semi e seguire la loro crescita nel tempo, sviluppando una maggiore consapevolezza sull’importanza della cura della vegetazione.
“Abbiamo notato che spesso si tende a perdere la connessione con il cibo, poiché tutto è facilmente reperibile nei supermercati; molti non considerano più la stagionalità degli ortaggi o il tempo necessario alla loro crescita”, hanno dichiarato le ragazze, aggiungendo “Volevamo insegnare ai bambini quanto potesse essere gratificante far crescere le proprie piante”.

Nonostante le barriere linguistiche (una delle ragazze che parlava fluentemente in italiano), i bambini hanno accolto con l’entusiasmo il progetto utilizzando le proprie conoscenze linguistiche in inglese e tedesco. Particolarmente apprezzata dai bambini è stata la creazione di un gioco memory, che illustrava le diverse fasi di crescita delle piante, rendendo l’esperienza educativa e divertente.
Il culmine del progetto è stato l’ideazione e la realizzazione di una “Libreria Pubblica di Piante e Semi”, un box di metallo esposto a Cooltour, contenente buste con semi vari. Questo prodotto è stato concepito per rafforzare il senso di comunità del quartiere ed incoraggiare la responsabilità verso l’ambiente, consentendo ai cittadini di prelevare o offrire liberamente semi per le piante.
L’inaugurazione della libreria dei semi è stata accolta con grande entusiasmo dalla comunità del quartiere Don Bosco. Le buste di semi, decorate con disegni realizzati dai bambini, hanno suscitato una reazione positiva che ha evidenziato il desiderio del quartiere di riscoprire le pratiche legate al giardinaggio.
“Avremmo voluto integrare ulteriormente l’aspetto culturale, trasformando la libreria in un luogo di scambio di conoscenze tra culture diverse”, hanno affermato le ragazze, sottolineando l’importanza di valorizzare la ricchezza multiculturale del quartiere.
Il successo del progetto di Anna Lienbacher, Monica Ramos e Miriam Pardeller riflette non solo l’impegno delle studentesse verso la sostenibilità, ma anche l’interesse della comunità nel promuovere una visione solidale della sua relazione con il cibo e l’ambiente.

Autrice: Sanaa El Abidi – COOLtour