Un quadro di fine autunno

Di giorno sotto l’influsso di correnti settentrionali artiche ammiriamo cieli particolarmente luminosi di un azzurro elettrico, mentre innocui cumuli di nuvole solcano in rapido movimento verso sud; il vento è dispettoso, teso a tutte le quote e una marea di foglie volteggiano per aria a ricoprire ogni cosa e ci ricordano che, a breve, l’inverno meteorologico busserà alla soglia. Alziamo lo sguardo sulle creste imbiancate nottetempo e notiamo che, lassù, il vento spinge ancor con più veemenza, carico di una rabbia disumana, a sollevare la neve caduta ed a trasportarla letteralmente nel cielo. Lei si libra nell’aria, edulcora per un breve spazio l’azzurro elettrico con tonalità più tenui, in cui il pittore dovrebbe usare del bianco per dare movimento all’immagine e farci intuire cosa sta realmente accadendo; la neve sospinta è destinata a dissiparsi e ad evaporare, e dunque il paesaggista è libero di tornare allo schema iniziale che riempirà poi con altri elementi e colori, magari più ravvicinati e prediligendo quelli primari, per la prospettiva di profondità e per catturare i nostri occhi. Fintantoché le perturbazioni da nord incocciano contro le Alpi avremo aria salubre, frizzante e secca e gli amanti della dama bianca dovranno raggiungere i luoghi di confine per tuffarsi dentro un manto accettabile. Al mattino, appena svegli, avremo un gran senso di sete e le fauci seccagne, la pelle delle mani e le labbra screpolate, nel momento della colazione troveremo il pane fresco del giorno precedente già quasi croccante e non vedremo brina o strati di ghiaccio sui tetti delle case e della auto parcheggiate. Tutto per effetto di un’umidità relativa molto bassa, dovuta alla compressione adiabatica del vento (+1°C ogni 100m di caduta), che si scalda scendendo lungo i versanti meridionali. Esauritasi la spinta delle raffiche, è sufficiente una nottata stellata, quindi di un forte irraggiamento notturno, per farci imbattere il mattino seguente dentro l’inverno. La calda stagione non è una spiaggia così remota, eppure ormai l’anticiclone ha generalmente colonizzato una buona parte dell’autunno che quest’ultimo è diventato una stagione sfuggente per come eravamo abituati a ricordarcela ed il suo seguace conosciuto, l’inverno, tende ad assumere sempre di più caratteristiche autunnali, al netto di stravolgimenti clamorosi. Sarà che noi si invecchia, e che vedere calare già il sole alle 15.30 ci deprime, ma il profumo del te e delle castagne ci fa rinnamorare. Gli alberi caducifoglie si spogliano velocemente, come gli aceri, i tigli, i pioppi, i liquidambar, i platani ed è gradevole constatare come, proprio dall’altra parte della strada, un leccio sempreverde resti indifferente, esteticamente, al cambio di passo stagionale. Gli aceri palmati, perlomeno gli esemplari più riparati, resisteranno ancora qualche giorno prima di avvizzire completamente e rievocheranno alla mente, come una sorta di ultimi baluardi, i nastrini, le sedie, le scarpe, gli indumenti e le panchine di rosso vestite per quelle vite di donne prematuramente strappate. In attesa che la dama ricopra ogni cosa.  

Autore: Donatello Vallotta

Un congresso per i micologi

Si è tenuto nel cuore dell’Appennino parmense, dal 22 al 28 ottobre, il congresso dell’associazione europea JEC, acronimo di Journées européennes du Cortinaire, le giornate europee dei Cortinari. Fondata nel 1983, oggi JEC conta circa 180 membri, e si prefigge la promozione, il confronto e l’agevolazione dei contatti fra le organizzazioni scientifiche, le associazioni ed i micologi interessati allo studio del genere Cortinarius; cura inoltre la medesima rivista che viene recapitata ai soci una volta l’anno. L’alta Val di Taro è stata dunque il palcoscenico naturale del 40° raduno, tenutosi presso il seminario vescovile di Bedonia; si svolge annualmente in un paese europeo differente e richiama a sé un nutrito numero di micetologi e di studiosi. Ringrazio innanzitutto i miei compagni di viaggio dell’associazione micologica Bresadola di Bolzano Claudio Rossi, Giovanni Turrini, Daniele Ferri, Roberto Cipollone, Gianmario Delogu, e specialmente il Dr. Karl Kob e Maria Fresi per avermi invitato. Prima della partenza avevo sensazioni contrastanti, miste tra eccitazione e timore, ma che in brevissimo tempo si sono dissipate; le giornate, molto intense e a stretto contatto con la bellezza della natura, con l’ottimo cibo, le conferenze, le revisioni e con lo studio sono state piacevoli e ricche di nuovi incontri. Giunti nel pieno del foliage autunnale siamo rimasti ammaliati dai boschi appenninici, dai faggi ai carpini neri, dai cerri agli abeti bianchi, dai noccioli ai pini neri fino a quelli termofili di querce e castagni. Il meteo è stato decisamente sfavorevole, con giornate coperte, umide, molto piovose e a tratti di forte vento che hanno compromesso la crescita e quindi la raccolta, a conti fatti, di numerosi esemplari; a compensare questa penuria però sono state le stesse condizioni atmosferiche, perché chi ama anche la fotografia sa che sono tutti ingredienti che apportano all’immagine una certa poesia. Albareto, Gotra, Costa dei Rossi, Strela, Passo del Tomarlo, il Monte Molinatico, Porcigatone, la Riserva Naturale Generale di Ghirardi e la Riserva Naturale Oasi WWF sono state alcune mete delle escursioni dei vari gruppi. Mi ha colpito leggere sui cartelli stradali una certa vicinanza nelle distanze chilometriche, Sestri Levante 58Km, Chiavari 53km, dato che la terra natia della mia famiglia era proprio al di là del versante. Grazie alle guide ambientali escursionistiche e micologi Cinzia De Luca, Max Chiapponi, Doriana Borghi e Fabrizio Negri che ci hanno accompagnato nella macchia, a Don Lino, al Centro Studi per la Flora Mediterranea di Borgotaro, agli inossidabili micologi valtaresi Emidio Borghi e Giorgio Guasti, all’ottantenne micologo germanico Werner Jurkeit, esperto di Russole, che si reca ogni anno ai congressi in solitaria, a Thomas Kuyper, Augusto Calzada, Yngvar Cramer, Oswald Rohner, Vincenzo Marinetti, Luca e Giovanni Mistè, Brandrud Tor Erick, a Guenter Saar per le continue pungolature, e a tutti coloro che per motivi di spazio non posso elencare. Un ricordo affettuoso va a Karl Soop e a Francesco Bellù, che si sono portati avanti.

Autore: Donatello Vallotta

Estranei #3

La Terra non è una sfera perfetta, ma un geoide rigonfio all’equatore e schiacciato ai poli; il pianeta ammirato dalla stazione spaziale internazionale è di una bellezza splendida, di blu accecante, e senza confini territoriali, ammette Luca Parmitano; il ‘problema’ di questo sogno ad occhi aperti si ridimensiona enormemente quando si atterra, come di un estraneo che bussa alla nostra porta. Per quanto possiamo considerarci persone pacifiche, che si prefiggono la pace e l’aggregazione fra i popoli e che -per contro – ripudiano la guerra, non c’è mai pace sotto gli ulivi. Gli armeni del Nagorno-Karabakh sono in fuga dall’Artsakh, dalla repressione e dalla pulizia etnica che l’Azerbaigian ha messo in atto e pianificato negli ultimi giorni; un altro esodo, che si aggiunge alla lista infinita di conflitti dove la gente, nata dalla parte sbagliata (di cosa poi, seguendo il filo onirico dell’astronauta) soffre e muore. Dal blu accecante della Terra nello spazio a quello più mosso e scuro e intriso di pericoli del Mar Mediterraneo, dove i migranti che lo attraverseranno, fortunatamente senza perigli, sono attesi dai ventuno CPR italici. Ce lo parafrasa in maniera profonda e ineccepibile il grande artista genovese Ivano Fossati in Pane e Coraggio “Ma soprattutto ci vuole coraggio, a trascinare le nostre suole, da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole”. Questi flussi migratori sono solo la punta dell’iceberg rispetto a quelli che il cambiamento climatico ci porterà con sé; peraltro, nella storia le migrazioni sono sempre avvenute e persino nei manuali di meteorologia sono elencate con precisione, proprio a rimarcare, se ancora ve ne fosse bisogno, cause ed effetti del nomadismo per la sopravvivenza. Noi, sì, che siamo fortunati, a trascinare le nostre piante dei piedi sulla sabbia della battigia, ad infilare le nostre ciabatte firmate per casa, ad indossare gli stivaletti per equitare, o delle sneackers per correre, o, degli scarporcini per andare a funghi. Gli appassionati e studiosi di micologia, cha al blu preferiscono il verde in tutte le sfumature, sanno che il Regno dei Funghi è ciò che più si avvicina alla visione degli scienziati spaziali. Parliamo del micelio, le fitte trame, invisibili alla vista, da cui nascono i funghi che l’astronauta vede come le luci delle metropoli; esso vive e si sviluppa sottoterra e non conosce confini, opera dei cambiamenti epocali impercettibili, stabilisce delle interconnessioni fra le piante, aiuta il singolo filo d’erba a reperire dell’umidità per continuare ad esistere, stimola l’apparato radicale degli alberi in un rapporto mutualistico; in un domani non troppo lontano saranno proprio i funghi, grazie alla loro resilienza, a farci sentire ancora meno estranei.

Autore: Donatello Vallotta

Estranei #2

Vi propongo le parole di Alberto Luca Recchi, esploratore, scrittore e fotografo documentarista del mare italiano. “Il granchio blu non è arrivato dalle coste degli Stati Uniti passeggiando, ce lo abbiamo portato noi, dandogli un passaggio involontario nelle acque di zavorra delle navi. E siccome il ‘tipetto’ si adatta facilmente, in qualche decennio ha invaso il Mediterraneo. Ma questo non lo abbiamo scoperto in queste settimane, lo sappiamo da anni (1948 in Grecia, 1949 a Grado). Quando però il problema ecologico diventa problema economico, tutti ne parlano: i media si interessano al caso ed i politici invocano lo stato di calamità”. 
Il parallelismo è illuminante e disarmante al contempo; per inciso, la politica è riuscita a regolamentare lo svuotamento ed il ricarico della acque di zavorra solo nel 2004, mentre a livello planetario chissà quante saranno le specie marine alloctone trapiantatesi al di fuori dell’habitat di sviluppo. In Alto Adige Occhi di bosco è in apprensione per l’espansione, senza soluzione di continuità, del bostrico tipografo; ha ferme nella mente la testimonianza di Peter Prader, proprietario di bosco e titolare di segheria in val di Funes, che ammette l’incapacità, nonostante tutti gli sforzi, i tagli e l’ingente materiale asportato, di contrastare questo coleottero. Per altro, nelle ultime settimane si è diffusa la notizia di una “nuova” strategia, ossia quella degli alberi esca (che tanto fresca non è); questa tecnica prevede il taglio, oltre a tutti gli ettari irreversibilmente già perduti, di molteplici alberi sani. Quelli abbattuti vengono poi pervasi di ferormoni che richiamano gli adulti, per il rito dell’accoppiamento. Non appena le colonizzazioni raggiungeranno l’apice in termine di numeri gli alberi esca verranno eliminati, prima che altre nuove generazione di insetti partano all’assalto di nuove piante. Le morie di abeti rossi (picea abies) riguardano tantissime valli e zone impervie; il paesaggio, in un divenire di macchie marroni sempre più vaste, in un futuro non troppo lontano cambierà, e drasticamente, tanto da farci domandare se è davvero ancora questa la nostra amata heimat, o se, come la ranocchia nella pentola, riusciremo, con un colpo di reni, ad escogitare soluzioni rapide ed efficaci dinnanzi a questa devastazione. La presenza del bostrico è sempre stata endemica, e solo dopo la tempesta Vaia del 2018 è divenuta pandemica. Quasi un lustro è passato, in cui anche il cambiamento climatico non ha aiutato, ma durante questo lasso di tempo non è stato fatto abbastanza. La natura segue la sua strada e difficilmente aiuta l’uomo, quell’uomo “cattivo” che non l’ha mai rispettata. 
E noi? Ci ritroveremo come estranei con ben più di una lacrima sul viso, guardando ciò che rimarrà del bosco e di quella marea di aghi color del rame.

Autore: Donatello Vallotta

Estranei #1

Il termine alloctono dal greco àllos “altro”, e chthòn “suolo/terra”, indica la non appartenenza di qualcosa o qualcuno al luogo di residenza. È l’essere umano nato altrove dal luogo in cui vive, e che antropologicamente chiamiamo straniero. Nessun collegamento con la storia di Meursault che Albert Camus ci ha lasciato in eredità; manco il passaggio dalla lingua latina a quella volgare, fino a quelle parole con derivazioni etimologiche antiche e straniere attualmente in uso nei dialetti e nell’italiano; nemmeno con l’arricchimento culturale che genti e popoli migranti nel nostro Paese hanno rappresentato e rappresentano; neppure di ricchezze storiche sopravvissute alle epoche, quando l’italica terra ne era dominata, e la cui espansione era evidenziata sulle cartine dei libri di storia in rosso o in blu. Frattanto che il caldo umido ci fa boccheggiare, rendendoci insonni persino le notti, e che i meteorologi delineano sulle mappe durante le previsioni – con gli stessi colori degli imperi -, il nostro compito, se così si può chiamare, è quello di prestare attenzione ai fronti temporaleschi attesi sulla fascia alpina, prealpina, pedemontana e sulle pianure a Nord del fiume Po, perché si tratterà di eventi localmente pericolosi. Se in passato l’attenzione ai rischi veniva attuata come una sorta di salvaguardia del futuro raccolto da chi abitava in campagna e coltivava la terra, per non trovarsi poi con un pugno di mosche in mano, oggi, anche i cittadini sono chiamati a mettere in pratica un più alto senso di responsabilità di fronte a questi eventi catastrofici. Si tratta innanzitutto di non sottovalutare mai le allerte emanate degli Organi ufficiali preposti e di comportarsi con prudenza per evitare guai peggiori e di agevolare lo spirito di sacrificio dei soccorritori; non di meno, al contempo, dimostrare comprensione se un’allerta meteo data per certa poi magari non si verifichi. Recentemente nella zona di Bressanone, tra Veltuno, Scalares e Funes sono caduti chicchi di grandine dal diametro di 9cm, una novità assoluta per le nostre lande. Certo potremmo considerare questi promontori fantasiosamente alloctoni, o estranei alle nostre latitudini, ma le tempeste che si generano e dei danni prodotti è palpabile. Masse d’aria che di solito stazionano sopra il deserto ed invece ce le ritroviamo sopra la Penisola, con una temperatura in libera atmosfera, a 850hpa (1500 metri), fino a 24°C al Nord, tra 26°C e 28°C al Centro Sud e quasi a 30°C sulle Isole; con una frequenza, rispetto agli anni ’50, ora abituale. Se ci pensiamo bene sono valori folli, proprio perché a quell’altitudine il valore non è influenzato dal calore del suolo. Si tratta di caldo maltempo per ridurre all’osso il concetto, e per gli studiosi del clima di un fenomeno grave quanto dannoso per l’uomo e la natura. Ma il confine tra autoctono e alloctono è sempre flebile, specie a causa della nostra capacità di memoria, della superficialità, o per i nostri interessi, materiali contro spirituali, economici contrapposti a quelli ambientali ed ecologici, la cosiddetta salute.

Donatello Vallotta

Poesia della natura

Viaggia per oltre duemila chilometri fino alla nostra sponda del Mediterraneo, è capace di schermare la luminosità solare, di mostrarci che alcuni luoghi remoti non sono poi così lontani, di rendere inconsueto il giorno, di colorare il paesaggio in ogni sua sfumatura come stessimo ammirando una fotografia tinta di seppia: parliamo del pulviscolo Sahariano, frammenti infinitesimali di rocce millenarie erose dai venti e raccolti dalle grandi tempeste di sabbia fra le dune, che viene letteralmente sospinto in quota dall’alta pressione atmosferica. Merito di queste polveri sospese se, in questi giorni molto caldi, non abbiamo superato i 35°C, ma, a prescindere, credo che ognuno di noi abbia percepito il cambio di rotta meteorologico, coinciso appunto con l’inizio dell’estate astronomica. Il pulviscolo si deposita ovunque, sporca le auto parcheggiate e macchia quella poca neve rimasta sulle cime, e porta con sé persino il fenomeno della fertilizzazione, perché in quella polvere primitiva ci sono il fosforo, l’azoto ed il ferro, nonché altri minerali. La debole saccatura di qualche giovedì fa ha solo temporaneamente rimescolato le masse d’aria, riportando un caldo più secco e sopportabile ed una ventilazione tesa da nord, senza però apportare preziosi millimetri di pioggia alla terra sulle nostre zone. 

Con l’anticiclone delle Azzorre a spasso fino a latitudini nordiche e non più come quella costante ben piantata a ovest della penisola Iberica, che ci garantiva le estati fresche e moderate degli anni ’80, adesso ogni risalita del promontorio di alta pressione subtropicale diventa un ospite imprevisto e, almeno per quel che mi riguarda, piuttosto sgradito: zero termico fino a 5000 metri, fusione esponenziale dei ghiacciai, notti tropicali, un caldo fuori scala, eccessiva umidità e, più in generale, tanta, troppa energia in gioco a tutte le quote.  Sono condizioni, soprattutto le ultime tre, che non ci appartenevano e che diventano una lama a doppio taglio qualora uno spiffero più fresco in quota busserà alla porta della catena alpina determinando un cedimento della circolazione anticiclonica. Ecco che, quasi per magia, la troposfera diventa un laboratorio a cielo aperto con l’innesco di moti convettivi, imponenti cumulonembi, classici e ad incudine, in rapido sviluppo verticale… che tradotto in soldoni significa temporali cattivi, nubifragi, tempeste di fulmini, downburst (le cosiddette raffiche lineari), tutti fenomeni accompagnati quasi sempre da grandine di medie/grandi dimensioni. Nulla di artificiale, solo poesia che appartiene maestosamente a Madre Natura.

Autore: Donatello Vallotta

La stagione mutevole

Ci addentriamo nella stagione mutevole e variabile, in cui la neve potrebbe riaffacciarsi sulle cime più alte, i primi temporali cattivi annunciarsi imprevedibili, imponenti cumulonembi ingombrare il cielo e regalarci qualche sgocciolata, squarci di azzurro impossessarsi della scena e, in men che non si dica, far risplendere il sole; sole che batte già forte e chi soffre il caldo e di pressione bassa lo sa, sa perfettamente che i prossimi mesi saranno uno smisurato banco di prova per la nostra sopportazione fisica. Venti audaci da una valle con il bel tempo si spostano velocemente verso un’altra vallata, in cui il temporale, come una calamita, richiama a sé tutto il carburante disponibile. Difatti l’aria, che è un elemento molto sensibile, spesso si comporta come un fluido, viaggia e accarezza l’erba, i prati e le cime boschive da una zona di alta pressione indirizzandosi verso la zona di bassa pressione per colmarne il deficit; le sue raffiche, qualora, potrebbero risultare animose e malvagie. Il mese di maggio – che da poco ci siamo lasciati alle spalle – è proprio così, un altare di lenzuola di brandelli di nuvole sui fianchi delle montagne, come batuffoloni di cotone e di panna montana, di vette celate, di scrosci di pioggia in lontananza, di strade d’asfalto ancora tappezzate d’umidità al mattino, di un verde corale e vario ma meno timido, di alberi carichi di foglie, di vie e di viali ombrosi, di canti continui di uccelli e di uccellini. I merli giocherellano a nascondino e a farsi i dispetti, si rincorrono e artigliano allegramente per poi darsi alla macchia in una grande siepe muraria. Il cuculo, accovacciato sui rami di un olmo, con il suo caratteristico verso ci avvisa della sua presenza e sovrasta il frastuono urbano. Maggio è il tempo di battesimi e di pranzi, di camminate e di escursioni in città come in montagna, di tarassachi e di fioriture di acacie, di tamerici e cisti, di lupinelle e timi, di sciamature delle api e di larve di coccinelle. Nutriamoci dunque di tutte queste piccole grandi ‘distrazioni’, perché non c’è cosa migliore che osservare, descrivere, conservare e respirare la natura, portarla dentro di sé in attesa del prossimo fine settimana per evadere nuovamente. La siccità non è svanita, né si è attenuata, ma la dinamicità meteorologica, forse, ne sta alleggerendo un po’ la morsa. Le piantine acquistate nei vivai o fatte germinare nei semenzai domestici sono pronte per trovare spazio in vasi capienti nel BalconORTO e in piena terra. Cavoli, pomodori, peperoni, zucchine, fagioli , insalate e cetrioli sono pronti. Chi semina amore raccoglie felicità?

Autore: Donatello Vallotta

I meleti ghiacciati

Un’ampia saccatura nord-atlantica, seguita da aria fredda, ha apportato precipitazioni abbondanti su tutto il Nord, tornato quasi subito, però, ostaggio delle correnti settentrionali; quest’impulso, infatti, è scivolato velocemente verso le regioni meridionali innescando, nel bacino del Mediterraneo, forte maltempo con episodi grandinigeni e nevosi a media-bassa quota. In molte zone l’agricoltura è stata danneggiata ed i rincari di frutta e verdura non tarderanno a farsi sentire. Una settimana prima invece, precisamente il 5 e 6 aprile, una gelata aveva fatto scattare l’allarme antibrina nelle campagne dell’Italia settentrionale fino alla Toscana. Mentre per i vigneti si utilizzano sarmenti accatastati, secchi colmi di cera, candele a vento (fino a 300 per ha), fiaccole e (accessoriamente) reti antigrandine, per gli alberi da frutta lo strumento più efficace è l’irrigazione antibrina; il principio fisico è quello che si basa sulla proprietà dell’acqua di liberare, passando dallo stato liquido allo stato solido, una certa quantità di calore che viene rilasciata nell’ambiente (pari a 80cal/g, ciò significa che per fondere un 1g di ghiaccio bisogna fornirgli 80 calorie). È infatti soprattutto la trasformazione dell’acqua in ghiaccio che libera energia sotto forma di “calore latente di solidificazione” ed impedisce alla temperatura di scendere ulteriormente o eccessivamente. Così, quando l’acqua solidifica in ghiaccio, il calore latente diviene sensibile e la temperatura dell’aria ne beneficia aumentando. Questo è il motivo principale dell’irrigazione antibrina, che in questo processo dovrà mantenersi continua; il beneficio secondario è che all’interno dell’involucro di ghiaccio che si forma, la temperatura tende a rimanere intorno agli 0°C, insomma una specie di piccola guaina protettiva, ma il procedimento di gran lunga più importante e decisivo è il primo. Ringrazio il Prof. Pierluigi Randi, Meteorologo e Presidente AMPRO per la spiegazione. Volevo però aprire una riflessione. Durante la gelata – in cui in Alto Adige lo stato di siccità era già stato acclarato con la chiusura dei cannoni sparaneve – quanta acqua è stata utilizzata per evitare di perdere parte del raccolto di mele nelle due giornate? I benefici del riciclo dell’acqua alle falde, con un deficit idrico annuo di 300-400mm a seconda delle zone, è stato minimo se non inesistente e gli erogatori, lungo i 32 km di ferrovia tra Bolzano e Merano, non erano uniformemente tarati e tutti funzionanti all’unisono; per esempio i microsprinkler erogano massimo 40litri/h e funzionano a pressione minima di 1,6 bar. Quelli attualmente in uso sono all’avanguardia? E quanto consumano, considerando tutta la superficie della Provincia?

Autore: Donatello Vallotta

Petricore

Non piove. Tuttora niente piogge in vista. Ci aspettano giornate asciutte e soleggiate. Giovedì scorso era ancora buio, quando, appena uscito di casa, sul pianerottolo, ho avvertito un forte profumo di petricore. Ho accelerato il passo per raggiungere velocemente la strada e per capire se davvero piovesse. Mentre camminavo in direzione della stazione ferroviaria per salire sul treno per Bolzano il mio sguardo cercava conferme: il nulla purtroppo, si trattava solo dell’umidità notturna e forse di una simil-pioviggine, già evaporata. Da allora sono trascorsi dieci giorni senza che il cielo piangesse, né per disperazione, né di gioia. Non piove. Ancora no. L’aria in certe zone cittadine è irrespirabile. Degli ultimi dodici mesi, dai dati dell’Ufficio Meteorologico, a Merano mancano oltre 400mm di precipitazioni: è un’enormità! Ma è tutto il Nord Italia a soffrire la siccità, che ormai è una morsa conclamata con cui non si scende a compromessi. Avrebbero tanto bisogno di pioggia sia la natura che l’uomo, per calmarsi e per calmarlo. Oggi respirare l’aria umida e salubre e che sa di pulito sta diventando un privilegio. La polvere da antagonista si è presa la scena, la si vede dove prima passava inosservata, essa si alza e si leva persino quando i colombi dispiegano le ali sui sampietrini per librarsi in volo e in fase di atterraggio; si ammanta sui pantaloni dalle tibie fino alle caviglie e ricopre le scarpe quando camminiamo per la città o lungo i sentieri del sottobosco; avvolge i tetti, gli alberi e persino le pietre lungo i greti di fiumi e torrenti; sporca come la iella i palazzi, le insegne, le auto parcheggiate, le vetrate di finestre e verande, le piastrelle e le fughe sui balconi. La polvere ci affatica, e affanna i cani.

L’odore di petricore, al contrario, ci è rimasto dentro, perché si tratta di un ricordo senza tempo, quando fino da bambini la pioggia ed i primi temporali primaverili erano dolci ed il cuore si faceva capanna. Quando giocavamo con legni e bastoncini, in acqua e terra, e la siccità era solo un neologismo che i genitori cercavano di insegnarci. Nel fine settimana appena trascorso, bagnando la terra arsa dei vasi e delle aiuolette sul terrazzo, un alito di questo petricore si è diffuso rapidamente per poi scomparire quasi subito; sorpreso ma incuriosito ho scoperto che il suo etimo è nato per la prima volta in Australia (altro luogo davvero arido) nel 1964, dai ricercatori Bear e Thomas, una parola composta dal greco pétra pietra e ichór sangue degli dei. 

Autore: Donatello Vallotta

Con il naso all’insù in un paesaggio marziano

Gli ultimi giorni per gli abitanti del Burgraviato sono stati contraddistinti dai nasi all’insù e da sguardi di curiosità mista a preoccupazione, per l’incendio divampato alle spalle del paese di Marlengo, appena sopra la metà del versante est del Monte San Vigilio. Il favonio, che per quasi due settimane ha maramaldeggiato indisturbato, ha sradicato alcuni alberi che si sono abbattuti sui cavi dell’alta tensione, che, strappatisi, hanno poi cagionato il resto; almeno, questa, sembra la scintilla ufficiale da cui è partito il tutto. Le fiamme, alte e meschine, visibili ad occhio nudo nell’oscurità, in una delle notti più ventose e secche dell’anno, hanno inghiottito ettari di bosco misto; uno scenario atipico e decisamente poco frequente in inverno in Alto Adige, ma che ci ha tenuti in apprensione. Un ringraziamento enorme e sentito  – credo davvero da parte di tutti – spetta, come sempre, agli impavidi vigili del fuoco, di ruolo e volontari, che per tutta la notte e per tutto il giorno seguente con oltre duecento unità si sono prodigati prima via terra sui pendii scoscesi ed irti di pietre e radici, poi anche per via aerea con l’ausilio di elicotteri muniti di benna o bucket (appositi secchi per il trasporto d’acqua e liquidi ritardanti) per domare definitivamente il mostro. I pochi sfollati dalla furia delle fiamme hanno poi fatto ritorno alle loro case. E non dimentichiamoci anche dei simpatici animali selvatici, che del bosco sono gli abitanti.

Il fatto che i cavi dell’alta tensione siano ancora sospesi e non sotterrati apre la strada a questi rischi; l’elevata siccità di un ennesimo inverno mite e avaro di precipitazioni, che rimarca le anomalie climatologiche oramai irreversibili in atto, spalanca la porta degli “inferi” nell’incertezza di cosa aspettarci dal punto di vista meteorologico per la primavera e l’estate prossime venture. Tutti i fenomeni atmosferici, favonio compreso, si sono incattiviti. Le alte pressioni sempre ferme sulle Francia bloccano di fatto ogni perturbazione Atlantica diretta nel Mediterraneo. Ricordiamo che, senza disdegnare l’Ostro e il Ponente, per noi in Alto Adige l’unico vento veramente ricco di precipitazioni è il Libeccio teso. L’occhio attento non può restare indifferente alle pareti boschive delle conche altoatesine dal tipico colore del Pianeta Rosso; e, forse, alberi sradicati, lampioni divelti, rami spezzati, balconi in disordine mettono a nudo le nostre città e ci scoprono fragili “marziani” su di un pianeta che sta cambiando rapidamente. I semenzai sui davanzali ci ricordano che, a breve, i nostri BalconiORTI pulluleranno di nuova vita.  

Autore: Donatello Vallotta