Quando si prescrive un credito?

La regola generale è che la prescrizione ordinaria di un credito è di 10 anni. Questo significa che trascorso tale periodo, nell’inerzia del creditore, il diritto di credito si prescrive, ossia “scade”. Tuttavia, esistono delle eccezioni.
Ad esempio, i crediti derivanti per il risarcimento di un danno, per canoni di locazione, per spese condominiali, per indennità conseguenti alla cessazione di rapporti di lavoro si prescrivono in 5 anni; quelli relativi ai compensi dei professionisti in 3 anni; quelli relativi al pagamento di bollette (luce e gas) in 2 anni; quelli relativi a rette scolastiche o premi assicurativi per polizze RC furto e incendio in 1 anno; quelli derivanti da attività che si occupano di offrire vitto e alloggio ai propri clienti come pensioni, hotel, b&b in 6 mesi.
Il tempo necessario alla prescrizione si calcola dal giorno in cui il credito è diventato esigibile (cioè dal giorno in cui poteva essere richiesto al debitore, ad es. allo scadere del termine previsto in fattura).
Il termine di prescrizione può però essere interrotto: il creditore deve trasmettere al debitore una intimazione di pagamento prima della scadenza. Per intimazione si intende qualsiasi atto a cui la legge riconduce la volontà del creditore di esercitare il proprio diritto di credito. In questi casi la prescrizione viene interrotta e la decorrenza viene azzerata: inizia, cioè, a decorrere un nuovo periodo prescrizionale.
Attenzione: non bastano semplici solleciti telefonici, ma occorre una vera e propria messa in mora (sollecito), ad esempio trasmessa tramite raccomanda A/R o PEC.
Oltre a questa ipotesi, la prescrizione è interrotta da ogni azione giudiziaria per il recupero del credito (atto di citazione, ricorso per decreto ingiuntivo) oppure quando il debitore abbia dichiarato espressamente di riconoscere il proprio debito.

Autore: Massimo Mira

“Senza consenso è violenza”

“Ma hai visto com’era vestita? E poi era anche ubriaca: se l’è andata a cercare”: non è difficile (soprattutto in questo periodo in cui sui social fioccano giuristi laureati all’università della vita) sentire frasi del genere quando si parla di violenza sulle donne. Come il recente caso della giornalista sportiva molestata  in diretta: un fatto che se da una parte ha visto gli italiani sostenere la professionista, ha lasciato anche spazio a quell’infimo ed intimo pensiero che vede “una palpatina” come nulla di serio. 
Ma non è così. 
Ed è anche per questo che la Rete contro la violenza sulle donne ha voluto lanciare una nuova campagna di sensibilizzazione: “La violenza sulle donne non ha tempo né confini, è endemica e non risparmia alcuna nazione o paese, industrializzato o in via di sviluppo che sia. Non conosce nemmeno differenze socio-culturali, vittime ed aggressori appartengono a tutte le classi sociali. Secondo le statistiche il rischio maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici, vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro. Secondo l’Oms una donna su cinque ha subìto, nella sua vita, abusi fisici o sessuali da parte di un uomo”, ha spiegato la vicesindaca di Merano e assessora alle pari opportunità Katharina Zeller.
La campagna “Senza il Tuo consenso è violenza” si focalizza sulla violenza sessuale. La necessità di agire riguardo a tale problema è emersa in seguito all’allarme lanciato dalle rappresentanti degli Streetworker all’interno della Rete. Chi infatti lavora a stretto contatto con le ragazze e i ragazzi ha rilevato che le varie forme di violenza sessualizzata spesso sono oggetto di malintesi e confusione e accompagnate da un senso di colpa… da parte della vittima/donna.
Poco chiari sono spesso anche i concetti di limite, di consenso, di rispetto. Inoltre i sensi di colpa e la mancanza di informazioni da parte delle ragazze inibiscono la ricerca di aiuto e sostegno da parte dei servizi presenti sul territorio ma anche da parte di amiche o altre persone di fiducia.

Manifesti e adesivi
La campagna è molto articolata ed è concepita per mantenere la sua validità nel tempo. La Rete ha deciso di puntare molto sulla parte grafica e sull’efficacia linguistica del messaggio che si è voluto giovane e moderno. 
A tale scopo è stato realizzato un concorso di idee rivolto a grafiche ed artiste, di cui è risultata vincitrice Júlia Ventura Bruguera. Lunghi mesi di confronto tra l’illustratrice e un gruppo di lavoro interno alla Rete hanno prodotto una campagna di manifesti e adesivi. Gli adesivi – 16 diversi – sono il “pezzo forte” della campagna e hanno il compito di veicolare ciascuno un diverso messaggio attinente al tema della violenza sessuale. Contestualmente sono stati e verranno affissi in città grandi manifesti (due metri per due), che attireranno l’attenzione sull’avvio della campagna. Tutti i prodotti riporteranno un QR Code, che rimanda ad una pagina dedicata del sito del Comune di Merano, in cui sono stati predisposti approfondimenti sul tema nonché riassunti tutti i consigli e le informazioni necessari per reagire in caso di violenza. La campagna si svilupperà anche sui social con l’hashtag #ViolenzaSessualeParliamociChiaro.

Mostra itinerante sulla violenza sessuale “Com’eri vestita?”
L’associazione “Donne contro la violenza – Frauen gegen Gewalt”, in collaborazione con il Museo della donna e il patrocinio della Rete antiviolenza del Comune, porta a Merano la mostra itinerante “Com’eri vestita?”.
L’esposizione sarà allestita al piano terra dell’ingresso del Museo della donna, in via Mainardo 2, e rimarrà accessibile – gratuitamente – dal 4 al 12 dicembre, da lunedì a venerdì dalle ore 7.30 alle ore 19, il sabato e la domenica dalle ore 10 alle ore 19.
“Com’eri vestita? – Rispondono le sopravvissute alla violenza sessuale” è un’installazione creata da Cerchi d’Acqua in cui i vestiti esposti rappresentano simbolicamente quelli indossati durante la violenza subita e sono accompagnati da brevi suggestioni che le donne hanno voluto condividere, raccontando alcuni elementi della loro esperienza.
L’obiettivo della mostra è quello di decostruire alcuni stereotipi relativi alla violenza sessuale, primo tra tutti l’idea che l’abbigliamento possa esserne la causa e che l’atteggiamento e il comportamento della donna possano averla provocata. 
“Attraverso un indumento si raccontano violenze, molestie, stupri e abusi subiti da parte di estranei o partner occasionali, ma più frequentemente dal compagno di una vita che non accetta un NO, oppure da una fidata figura familiare, nelle sicure e insospettabili mura domestiche”, ha spiegato Sigrid Pisanu della Casa delle Donne. È in questo contesto che va inquadrato il fenomeno della violenza alle donne, che spesso trova nell’opinione pubblica le più diverse giustificazioni. Così, se gli aggressori sono sconosciuti, ci si chiede perché la donna non sia stata prudente; se sono conoscenti, ci si chiede se abbia provocato e in che modo lo abbia fatto; se sono mariti o partner si imputa la violenza all’eccesivo amore, alla gelosia o a un raptus di follia.

Decostruire gli stereotipi
La mostra vuol essere quindi un momento di riflessione e una risposta tangibile a uno dei pregiudizi più pervasivi nella nostra società, a partire dalle parole delle donne accolte da Cerchi d’Acqua e dai centri antiviolenza della rete D.i.Re. La mostra trae ispirazione dalla poesia “What I was Wearing” di Mary Simmerling ed è stata sviluppata nel 2013 in un’istallazione artistica, dal titolo “What were you wearing?”.

Modifiche alla servitù di passaggio

La vicenda oggetto di analisi riguarda il proprietario di un terreno il cui accesso è possibile attraverso un sentiero con servitù di passaggio unicamente a piedi a carico di un terreno di terzi.
Per poter tagliare la folta vegetazione presente, al fine di evitare incendi, sarebbe necessario accedere con mezzi meccanici; accesso che, però, viene negato dal confinante, in quanto la servitù prevede l’accesso solo a piedi.
Ci si chiede se sia possibile modificare arbitrariamente le modalità di utilizzo della servitù di passaggio, in assenza, come in questo caso, di autorizzazione del titolare del fondo servente.
Ai sensi dell’art. 1064 del codice civile, il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne il passaggio; quindi, nel caso in cui si sia chiamati ad eseguire delle opere necessarie a conservare intatta la proprietà e, per fare ciò, si debba necessariamente gravare quella servitù dal passaggio di mezzi meccanici, in assenza di autorizzazione da parte del proprietario del fondo confinante, si dovrà agire legalmente.
Nello specifico, occorrerà inviare una raccomandata al proprietario, con la quale rappresentare che è necessario intervenire per ragioni di pubblica sicurezza al taglio della vegetazione, onde evitare possibili incendi, sul proprio fondo, il quale, per dimensioni, non può essere oggetto di manutenzione manuale, se non con l’utilizzo di mezzi meccanici.
Se non dovesse essere concessa l’autorizzazione al passaggio entro pochi giorni, l’unica strada sarebbe quella di adire il Tribunale competente (dove è sito il terreno), al fine di ottenere un provvedimento di urgenza, con il quale il Giudice ordini al proprietario del fondo servente di consentire, seppur temporaneamente, il richiesto passaggio.

Autore: Massimo Mira

La responsabilità del produttore

La responsabilità del produttore di un bene di consumo è una particolare forma di responsabilità, riguardo alla quale vi è stato l’intervento sovranazionale del legislatore comunitario, il quale ha introdotto una disciplina di compromesso tra l’esigenza di tutela dell’utente danneggiato e quella di prevedibilità degli esiti negativi per il produttore. La norma, nel nostro ordinamento nazionale, è confluita negli artt. 114 ss. del Codice del Consumo.
Ai sensi dell’art. 117: “Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze”. Un prodotto, quindi, è difettoso solo quando non offre la sicurezza attesa, in considerazione: a) del modo in cui esso è stato presentato; b) delle sue caratteristiche palesi; c) delle istruzioni e avvertenze ricevute; d) dell’uso al quale il prodotto è normalmente destinato. Il difetto consiste, quindi, nell’insicurezza inattesa, a prescindere dall’eventuale esistenza di vizi in senso tecnico o errori di fabbricazione.
In questi casi è possibile esercitare l’azione di risarcimento, come disciplinata dagli art. 123 ss. Cod. Cons.
Non sempre, però, il produttore è responsabile per il prodotto difettoso. L’art. 118 Cod. Cons. elenca una serie di ipotesi in cui la responsabilità è esclusa: a) ove il produttore non ha messo il prodotto in circolazione; b) ove il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né lo ha fabbricato o distribuito nell’esercizio della sua attività professionale; c) se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante; d) ove lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso; e) nel caso del produttore o fornitore di una parte componente o di una materia prima, se il difetto è interamente dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che la ha utilizzata.

Autore: Avv.to Dott. Massimo Mira

Il patto di famiglia

Il patto di famiglia è un contratto con il quale un soggetto titolare di un’impresa trasferisce (in tutto o in parte) l’azienda o le quote societarie a uno o più dei propri figli o nipoti. In pratica, il patto di famiglia “anticipa” la successione dell’imprenditore, permettendo il “passaggio generazionale” all’interno dell’impresa stessa e garantendone così la continuità.
Oltre che per il trasferimento dell’azienda, può essere usato anche per il trasferimento ai figli della proprietà di quote sociali.
Esso costituisce un’importante deroga al divieto di patti successori presente nel nostro ordinamento (ossia la regola secondo la quale sono nulli gli accordi che hanno per oggetto la disposizione dei diritti ereditari provenienti da una successione non ancora aperta, ossia se la persona della cui eredità si tratta è ancora in vita). Inoltre permette un rilevante vantaggio fiscale.
Il patto di famiglia è un contratto per atto pubblico (da farsi quindi innanzi al Notaio). All’atto notarile partecipano, oltre all’imprenditore e ai figli beneficiari (detti anche “assegnatari”), necessariamente anche: a) il coniuge dell’imprenditore stesso; b) tutti quei soggetti che avrebbero la qualifica di legittimari se, in quel momento, si aprisse la successione testamentaria dell’imprenditore.
Il coniuge e i legittimari hanno, infatti, diritto a percepire, dai figli assegnatari, una somma a titolo di liquidazione del valore delle quote di legittima (in alternativa, la liquidazione può avvenire in natura, ossia ricevendo alcuni beni al posto del denaro).
Quanto al contenuto del contratto, è importante che il patto di famiglia specifichi se c’è o meno il diritto di recesso: se manca la clausola sul diritto di recesso, per sciogliersi dal vincolo l’interessato dovrà necessariamente ottenere lo scioglimento del patto facendo stipulare un secondo, nuovo, patto di famiglia con le stesse persone. Il patto di famiglia può essere, infatti, sciolto o modificato, in due modi: 1) con un nuovo patto di famiglia; 2) se il patto stesso lo prevede, con una dichiarazione di recesso da parte di un partecipante a cui segue una dichiarazione delle altre persone certificata dal Notaio. è necessario che allo scioglimento o alla modifica partecipino tutte le persone che avevano preso parte al primo patto di famiglia.

Autore: Massimo Mira

Mediatore senza incarico e provvigione

Il mediatore, secondo il dettato dell’art. 1754 c.c., è il soggetto indipendente e imparziale che mette in relazione, nelle compravendite immobiliari, due o più parti per la conclusione di un affare.
Detta attività fa maturare in capo al mediatore un diritto alla provvigione, disciplinato all’art. 1755 c.c. La provvigione consiste in un compenso per l’attività svolta dal mediatore qualora venga concluso l’affare. Si pone il problema se il diritto alla provvigione maturi in capo al mediatore dopo la conclusione dell’affare in virtù di un precedente un conferimento di incarico scritto. Sul punto, la giurisprudenza di merito ha affermato che non è necessario il conferimento di un incarico mediante la stipulazione di un contratto scritto, né si ritiene necessario il conferimento di un incarico specifico. In particolare, nel 2018 la Suprema Corte ha ulteriormente precisato il suddetto principio, ribadendo anche il concetto di attività svolta dal mediatore di cui la parte di sia avvantaggiata. Così si esprime la Corte di Cassazione nella sentenza n. 11656/2018: “Ai fini della configurabilità del rapporto di mediazione, non è necessaria l’esistenza di un preventivo conferimento di incarico per la ricerca di un acquirente o di un venditore, ma è sufficiente che la parte abbia accettato l’attività del mediatore avvantaggiandosene”.
La Cassazione, pertanto, ha specificato che il diritto alla provvigione sorge qualora vi sia un “vantaggio” che la parte abbia tratto dall’attività mediatizia. Essa si può sostanziare dunque nella facilitazione della conclusione dell’affare tra le parti dipendente dalla concreta attività di “messa in relazione” svolta dall’intermediario.
In conclusione, nessun riferimento viene fatto al conferimento dell’incarico che è, dunque, non rilevante ai fini dell’insorgere del diritto alla provvigione, mentre invece rileva l’attività mediatizia vantaggiosa per la parte, che deve essere causalmente connessa alla conclusione dell’affare. Da ciò deriva che anche il mediatore totalmente privo di incarico ha diritto alla provvigione qualora la sua attività abbia condotto alla conclusione dell’affare.

Autore: Massimo Mira

Mutuo e recesso: tempistiche chiare

Di recente, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta sulla questione relativa alle modalità per calcolare i tempi di recesso da un contratto di mutuo, statuendo come esse debbano essere indicate in modo chiaro e conciso. Ha inoltre evidenziato che, per non compromettere il diritto del consumatore a recedere, non basta il rinvio alle norme generali, ma è necessaria un’informazione specifica nel contratto. L’innovativa pronuncia della Corte europea è destinata a incidere sull’articolo 125-ter del decreto legislativo n. 141/2010 con il quale è stata recepita la direttiva 2008/48 sui contratti di credito ai consumatori. La questione nasce dalla controversia tra un consumatore e un istituto di credito: il primo aveva comunicato il recesso dal proprio contratto di mutuo; recesso considerato non tempestivo da parte della Banca, che aveva sul punto richiamato le norme generali del codice civile. Un quadro non chiaro, secondo la Corte di Giustizia perché, in sostanza, il contratto rinviava a una norma (che a sua volta, nello specifico, richiamava altre disposizioni). È evidente – osservano gli eurogiudici – che in questo modo il consumatore non riceve le informazioni previste dall’articolo 10 della direttiva citata. La norma, infatti, prevede non solo l’indicazione della possibilità o dell’assenza del diritto di recesso, ma anche del periodo durante il quale può essere esercitato e le condizioni per attivarlo. Solo così il consumatore è messo nelle condizioni di conoscere i diritti e gli obblighi per sciogliersi dal contratto ed è garantito un livello “elevato ed equivalente di tutela degli interessi dei consumatori”, necessario per un “efficiente mercato interno del credito al consumo”. La catena prevista da un ordinamento interno che per le informazioni obbligatoriamente previste dall’articolo 10 della direttiva rinvia a una disposizione nazionale, la quale a sua volta richiama eventualmente un’altra norma, non è compatibile con la direttiva perché il dies a quo del termine di recesso dal contratto (informazione obbligatoria) non è contenuto nel testo e costringe il consumatore a una caccia tra diversi atti legislativi. Per la Corte questo vuol dire che il consumatore “non è in grado di determinare la portata del proprio impegno contrattuale, così come non può definire il termine dal quale decorre il diritto di recesso.”

Autore: Massimo Mira

Responsabilità verso terzi nell’appalto

I danni derivanti a terzi dall’esecuzione di un contratto di appalto possono essere imputabili o all’attività svolta dall’appaltatore, ovvero direttamente alla cosa oggetto di appalto.
Sotto il primo profilo, la responsabilità è imputabile all’impresa esecutrice a seguito della dimostrazione, da parte del danneggiato, della verificazione di un fatto che abbia cagionato un danno ingiusto in capo ad esso e che tale danno sia causalmente riconducibile al predetto fatto secondo gli ordinari criteri in materia di responsabilità civile, improntati al criterio della causalità adeguata.
Sotto il secondo profilo, è applicabile l’art. 2051 del codice civile. In tale ipotesi al danneggiato sarà sufficiente provare il fatto dannoso, l’evento e il nesso di causalità (materiale) tra questo e l’evento. La rigorosa prova dell’esonero da responsabilità graverà invece in capo all’appaltatore, il quale sarà tenuto a dimostrare il cosiddetto caso fortuito, ossia la prova dell’intervento di un fattore esterno (quindi indipendente dalla sua eventuale colpa) tale da recidere il nesso di causalità.
è poi necessario verificare se vi possa essere spazio per una concorrente responsabilità del committente. Tale responsabilità, il più delle volte, non è configurabile, in virtù dell’autonomia gestionale riconosciuta all’appaltatore. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che: a) di regola risponde dei danni cagionati ai terzi dall’esecuzione di un appalto solamente l’appaltatore; b) tuttavia, qualora il committente si sia ingerito nell’attività con specifiche direttive che hanno limitato l’autonomia dell’appaltatore risponde in concorso anch’esso; c) se poi le direttive del committente sono particolarmente “invasive”, con prova a carico del danneggiato, solamente il primo risponde dei danni; d) in ogni caso il committente risponde laddove si sia avvalso di una impresa palesemente inadeguata.
Chiaramente, il committente potrà contestare la sua responsabilità, allegando e dimostrando che l’esecuzione dell’opera da parte dell’appaltatore non è stata conforme al contratto e/o alle norme, anche tecniche, di esecuzione, al punto che tale condotta difforme dalle regole di diligenza, sia stata essa stessa causa esclusiva nella verificazione dell’evento dannoso.

Autore: Massimo Mira

Tutela degli eredi #2

(continua dal numero precedente)

All’azione di riduzione può conseguire l’azione di restituzione, avente ad oggetto gli immobili dell’eredità. Vengono generalmente identificate due azioni di restituzione. La prima è l’azione di restituzione contro il donatario o il legatario. Si tratta dell’azione disciplinata all’articolo 560 del codice civile. In questo caso, ove l’immobile ecceda di oltre un quarto la quota disponibile, lo stesso rimarrà nell’eredità per intero. La seconda è l’azione di restituzione contro i terzi aventi causa dal donatario acquirente. Disciplinata dall’articolo 563, l’azione prevede che “se i donatari contro i quali è stata pronunziata la riduzione hanno alienato a terzi gli immobili donati e non sono trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, il legittimario, premessa l’escussione del beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti, nel modo e nell’ordine in cui si potrebbe chiederla ai donatari medesimi, la restituzione degli immobili”. L’esistenza di tale azione giustifica la maggior attenzione che un acquirente deve avere nel momento in cui procede all’acquisto di un immobile di provenienza donativa, ossia un immobile che il venditore ha ricevuto in seguito ad una donazione a suo favore. L’articolo 564 del codice civile individua i presupposti per l’azione di riduzione. In primo luogo il legittimario deve aver accettato l’eredità con beneficio d’inventario (procedura particolare che prevede la redazione di un inventario dei beni del defunto da parte del Tribunale), fatto salvo il caso in cui le donazioni e i legati da ridurre siano disposti a favore di suoi coeredi (ciò significa che l’accettazione con beneficio di inventario è necessaria solo per agire contro soggetti non coeredi). In secondo luogo il legittimario, deve imputare alla propria quota le donazioni ed i legati ricevuti dal defunto (anche se nel testamento si può prevedere la dispensa del legittimario da detta imputazione). Il termine prescrizionale dell’azione di riduzione è quello ordinario di dieci anni. Nel caso in cui le diposizioni da ridurre siano le donazioni, detto termine prescrizionale inizia a decorrere dalla data di apertura della successione del donante (la data in cui il donante muore), anche qualora le donazioni siano più risalenti nel tempo. Una volta promossa l’azione di riduzione con il patrocinio di un legale, al Giudice è demandato, in primo luogo, l’accertamento della lesione della legittima del legittimario al netto della imputazione a sé di quanto ricevuto. Accertata l’eventuale lesione, il Giudice dichiarerà l’inefficacia parziale o totale delle disposizioni testamentarie o donative lesive, reintegrando il legittimario nei diritti spettanti per legge. Un’ultima precisazione: secondo l’articolo 5, comma 1-bis del Decreto Legislativo 28 del 2010, l’azione di riduzione è soggetta alla mediazione obbligatoria. Il giudizio relativo all’azione di riduzione deve quindi essere preceduto da un tentativo di mediazione, alla presenza di un mediatore designato da un organismo abilitato dal Ministero della Giustizia. Il procedimento costituisce una vera e propria condizione di procedibilità, nel senso che non è possibile attivare il giudizio senza aver prima promosso la mediazione.

Autore: Massimo Mira

Tutela degli eredi #1

Il codice civile italiano prevede che, alla morte di un soggetto, una parte del suo patrimonio debba forzatamente essere trasferito ad alcuni eredi; di qui la nota differenziazione tra quota disponibile, ossia che può essere lasciata a chiunque, anche non erede, e quota di legittima, ossia “riservata” ad alcune categorie di eredi, detti legittimari (ossia, il coniuge, i figli e gli ascendenti, se in vita).
Quali tutele vi sono se uno di questi soggetti riceve meno di quanto previsto dalla legge?
Una di queste è la cosiddetta azione di riduzione, riconosciuta ai legittimari per ottenere giudizialmente la quota di legittima, così come determinata dall’articolo 556 del codice civile. L’azione di riduzione spetta anche agli eredi ed agli aventi causa dei legittimari.
Essa costituisce un’azione giudiziale che trova compiuta disciplina agli articoli 554 e seguenti del codice civile.
Nel caso di successione senza testamento, l’art. 553 stabilisce un automatismo in base al quale, le quote di eredità si espandono per fare spazio ai diritti di legittima; non si può quindi parlare di vera e propria azione di riduzione.
Diversa è la circostanza in cui il defunto abbia fatto testamento, e quest’ultimo sia lesivo dei diritti di legittima. In quest’ultimo caso trovano applicazione gli articoli 554 e 558 del codice civile. Il legittimario leso potrà in questo caso agire in riduzione contro le disposizioni testamentarie lesive dei propri diritti di legittima.
Quando l’azione di riduzione avente ad oggetto le disposizioni testamentarie lesive non sia sufficiente ad integrare i diritti dei legittimari, gli stessi potranno agire in riduzione contro le donazioni effettuate in vita dal defunto (che vengono dalla legge considerate, in sostanza, come anticipi di eredità). L’articolo 559 stabilisce in particolare come le donazioni si riducano a partire dall’ultima per poi andare alle anteriori. L’azione di riduzione delle donazioni è dunque subordinata all’incapienza del patrimonio ereditario.

(continua nel prossimo numero)

Autore: Massimo Mira