Giorgio Moroder: un amarcord d’antan

Ne hanno parlato tutti i media, lo scorso maggio Giorgio Moroder ha ricevuto il David di Donatello alla carriera per il suo lavoro nel campo delle colonne sonore, che gli è già valso ben tre premi Academy Award. Era giusto che anche in patria il suo talento venisse riconosciuto. A modo nostro vogliamo anche noi ricordare questo autentico mito della musica che è indubbiamente il fiore all’occhiello della nostra regione in questo settore, e vogliamo farlo con qualcosa di eccezionale, legato a doppio filo con l’Alto Adige e risalente a molto prima che Moroder diventasse quel Moroder.

Correva l’anno 1959, il 7 luglio di sessantacinque anni fa per la precisione, e una trasmissione televisiva chiamata Telesquadra fece tappa nella nostra regione: si trattava di una sorta di carovana televisiva che si muoveva attraverso le zone periferiche della penisola portando le proprie telecamere laddove nessuno se le aspettava, ben prima dell’avvento di Rai3. Nelle giornate precedenti venivano fatti girare volantini per reclutare i talenti locali e far loro prendere parte alla trasmissione, che veniva poi mandata in onda il giorno successivo. Nella fattispecie la puntata altoatesina di Telesquadra fu registrata a Bressanone, presso la sala del Credito Consorziale, il 7 luglio e trasmessa l’8. Scriveva il quotidiano l’Adige nella sua uscita del 9 luglio: ”Il giovane Giorgio Moroder (all’epoca aveva diciannove anni, n.d.r.) accompagnandosi con la chitarra elettrica, ha cantato un moderno ritmo americano, stile P. Anka o Elvis Preslej (sic!), mentre la graziosa Monica Mader ha eseguito una canzonetta popolare tedesca”. Alla serata presero parte anche altri giovani, come Gianni Signorini, la dodicenne Franca Motta, Wolfgang Lucerna, gli Schuplatter di Spinga e, soprattutto, ad accompagnare i vari cantanti solisti, un complessino dell’epoca diretto dal maestro Fulvio Del Marco (che si occupava del piano) di cui facevano parte Walter Dall’Igna alla tromba, Gianni Piasenti alla chitarra, Umberto Dianese al contrabbasso, Gianfranco Filippi al sax e Renzo Boschetti alla batteria. Apprendiamo i nomi di questi ragazzi dell’epoca dal quotidiano Alto Adige che sempre il 9 luglio non esitava a scrivere: “bravissimo Giorgio Moroder in un rock’n’roll; applauditi anche i ballerini Maria Ludovica e Gabriele Torggler”, a proposito della performance del futuro hit maker gardenese. Quello che i giornali dell’epoca non sapevano è che l’amicizia e la passione comune per la musica tra Giorgio Moroder e Renzo Boschetti (di un anno più giovane) era di lunga data.

“Abbiamo frequentato insieme le scuole medie e i primi due anni delle superiori – ci racconta oggi Renzo Boschetti, professionista bolzanino in pensione–, ci siamo conosciuti in collegio a Rovereto dove a quell’epoca molte famiglie mandavano i figli per terminare le scuole dell’obbligo, abbiamo solidarizzato subito e poi ci siamo ritrovati insieme anche all’ITG, dopo il biennio io mi sono trasferito a Ferrara, dove abitava mia sorella ed ho terminato le superiori lì, prima di fare ritorno in Alto Adige. Giorgio di lì a poco si è trasferito a Monaco in cerca di fortuna.”

Negli anni delle superiori, siamo nel 1956 circa, Giorgio Moroder abitava in uno studentato nell’edificio INPS sopra la vecchia libreria Cappelli e lì si trovava proprio con l’amico Renzo per suonare insieme agli altri ragazzi che lo avrebbero accompagnato poi in quello che possiamo definire il suo debutto televisivo nel 1959. Entrambi avevano un registratorino a bobine della Geloso e facevano esperimenti, registrando quello che suonavano.

“Ricordo – prosegue Boschetti – che ci trovavamo a suonare presso lo studentato. Registravamo una prima parte su uno dei registratori, poi facevamo andare il nastro e si suonava una seconda parte in contemporanea registrandola con l’altro Gelosino e via così. Me ne sono reso conto solo tempo dopo, una delle canzoni di Giorgio che avevamo provato a registrare era Looky Looky!”

Quel brano, la cui trascrizione sulle copertine dei dischi fu talvolta Luky Luky, divenne addirittura disco d’oro nel 1970 e finì in alto nelle classifiche belghe, tedesche e svizzere!

“Dell’esibizione per il secondo canale RAI – conclude Renzo Boschetti – ricordo solo che è stata una grandissima emozione e che tra i partecipanti c’era anche un certo Cordioli, un violinista molto conosciuto e molto bravo”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Destinazione AOAR, il viaggiointergalattico di Mirko Giocondo

Lo avevamo annunciato qualche settimana fa, occupandoci di Lila, il video singolo postato da Mirko Giocondo su youtube per lanciare il suo imminente disco, ed oggi ci ritroviamo, dopo aver ascoltato questo autentico viaggio sonoro interstellare, a parlarne con lui.

Il nome di Mirko Giocondo non è certo nuovo per il pubblico bolzanino che lo conosce per il suo lavoro passato con Ferbegy? e Myztic Lion & The Juggernaut Nation, e per quello più recente nella Homeless Band e nella Spritz Band di Andrea Maffei: un curriculum che non lascia dubbi sulla capacità di Mirko di passare da un genere all’altro trovandosi sempre a proprio agio, sia suonando un basso elettrico, sia un contrabbasso, in jeans e camicia o in abito da orchestrale.

A tutto questo si aggiunge un’estrema vena creativa che sta alle spalle di tutta la sua produzione solista precedente e di questo progetto intitolato Aoar.

“Aoar – ci spiega subito Mirko – è un disco che innanzitutto non appartiene ad un genere. Molti cercano di dare una definizione ai loro lavori, e più la definizione è circoscritta, più possono contare su una nicchia di ascoltatori che in quella definizione si riconosce. Non è il mio caso, io ho sempre pensato che quando creo qualcosa lo faccio per trasportare chi ascolta verso un’emozione, qualsiasi essa sia, ma che sia emozione”.

Nel disco di Giocondo, la musica è realmente emozionante, concepita come un viaggio musicale attraverso una galassia immaginaria da cui il disco prende il titolo e che è anche il titolo del brano finale, quello che segna la destinazione del viaggio. Tutto è realizzato a tavolino anche se molto orchestrato, grazie all’uso di macchinari con cui vengono replicati orchestre e strumenti solisti (con l’esclusione della chitarra elettrica del bravissimo David Altieri, protagonista del brano Sunset Overdrive). Il risultato sembra una breve sinfonia, con tutti i suoi bravi movimenti, con momenti pulsanti che non possono non ricordare il tema principale di I pirati dei Caraibi ed altri più bucolici o addirittura etnici.

“Mi fa molto piacere che tu abbia citato quella colonna sonora – prosegue Giocondo, l’autore, Hans Zimmer, è un compositore tedesco che ammiro molto e che non esito a definire uno dei miei mentori. Il disco è una sorta di concept, una sera ero sdraiato per terra all’osservatorio di San Valentino, e mi sono reso conto di quanto il mondo che c’è attorno e sopra di noi ci renda piccoli e insulsi. Da allora ogni volta che guardavo il cielo, che vedevo le stelle, mi sono detto che prima o poi avrei messo in musica tutto questo. Il brano iniziale, Under The Yellow Points, si riferisce proprio a questo, i punti gialli sopra di me sono le stelle da cui tutto è cominciato e che ha portato la mia fantasia su questa galassia che ho battezzato Aoar e che sta al termine di tutto. Il succo è che se tu stai immaginando qualcosa, solo per il fatto che lo immagini, questo qualcosa esista, e per me è stato così con la galassia Aoar.”

La composizione dei brani è poi venuta rapidamente, come se Mirko fosse stato preso da una sorta di febbre del viaggio intergalattico e musicale al tempo stesso, dove la musica è il mezzo di trasporto attraverso le galassie. 

“Anni fa ho comprato il mio primo sintetizzatore e ho cominciato ad esplorare questo mondo dalle possibilità sonore infinite. Per anni ho composto musica al pianoforte riempiendo spartiti e andando nei vari studi cercando di realizzare i miei progetti: ad esempio, per ottenere l’effetto di un’orchestra che non sarei mai riuscito ad avere a disposizione ho portato in studio cinque violinisti e ho fatto registrare tre volte la stessa partitura, costruendo poi l’orchestra nel mio studio di casa. E lo stesso ho fatto con i fiati, le percussioni e gli altri archi. Stavolta ho usato invece parecchi sintetizzatori, cercando di ottenere lo stesso effetto. Mi sono concentrato maggiormente sulla scrittura. Oltre a David Altieri, nell’ultimo brano ho coinvolto un produttore emergente, Simone Olivetti, che mi ha aiutato nel mettere insieme il mio studio, e che ha arrangiato e messo una parte vocale sulla composizione finale, quella che intitola il disco, presente quindi in due differenti versioni, una strumentale ed una cantata”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Feline Melinda al settimo cielo

Ha ben di che essere al settimo cielo Rob Irbitz, cantante e fondatore dei Feline Melinda. La sua infatti è una delle band storiche del metal nazionale, non solo regionale. Nel 2018 ha festeggiato i trent’anni dall’uscita del primo disco del gruppo, mentre quest’anno è stato pubblicato Seven, settimo disco del gruppo, il primo con materiale nuovo dopo dieci anni in cui però si sono susseguiti un live, una compilation di ballate, un EP di duetti con Doris Albenberger e la ristampa in vinile del demo in cassetta che il gruppo aveva pubblicato ai suoi albori.

E settimo cielo, Seventh Heaven, è anche il titolo del brano portante del disco, lanciato come singolo su youtube con un video altamente professionale filmato nella sala veneziana di Castel Lodrone, ad Appiano, che ha raggiunto quasi le novemila visualizzazioni.

“Se devo dire la verità – ci confessa Irbitz – mi aspettavo qualcosa di più visto l’impegno che ci stiamo mettendo. Parlo per me, ma io in questi ultimi mesi mi sto davvero impegnando un sacco per la promozione. Ci siamo messi nelle mani di un manager che si sta dando parecchio da fare, Oltre al mio lavoro normale, ogni giorno sono impegnato dalle tre alle quattro ore per partecipare a trasmissioni radiofoniche, a rispondere alle interviste per fanzine e riviste, fare dei jingle promozionali per le radio dedicate al metal e via dicendo. Soprattutto quando c’è da rispondere ad interviste in inglese la cosa non è tanto semplice, bisogna prepararsi adeguatamente. Però così stiamo raggiungendo davvero tutto il mondo, tanto che il singolo è stato trasmesso con successo in Sudafrica e Australia, e poi tutto il nostro materiale è sempre richiestissimo dal mercato giapponese. 

Lì varrebbe la pena di provare ad andare, ma non è dietro l’angolo, bisogna lavorarci. Vediamo cosa riesce a fare il nostro manager”.

La ricetta dei Feline Melinda non è cambiata di molto, il loro genere è il metal melodico in cui ormai sono una garanzia, ma rispetto alle ultime cose il sound è molto più tagliente, affilato come una katana grazie al lavoro di Mattia HeadMatt Carli, il chitarrista trentino che da ormai diversi anni si occupa della chitarra solista ed è anche il più giovane del gruppo. Oltre a lui e Irbitz, i Feline Melinda sono il batterista Chris Platzer, ormai da oltre trent’anni nel gruppo e il bassista Gschnell ormai neppure lui un novellino vista la lunga militanza. A mandare avanti il gruppo è comunque sempre un’estrema passione per il genere a cui si abbina la generosità con cui i quattro felini si concedono al proprio pubblico (prima della pandemia hanno ricevuto accoglienza entusiasmante e calorosa nei paesi dell’ex Jugoslavia).

“Certo, ritorno economico non ce ne sarà mai – ammette Irbitz –, per questo bisognerebbe chiamarsi Iron Maiden, e non è evidentemente il nostro caso, il ritorno non va misurato in soldi, i costi di produzione del disco, come lo facciamo noi, sono molto alti. Anche se lo registriamo nella nostra sala prove, ci affidiamo a perone del mestiere. Il nostro tecnico di fiducia è Marco Ober che ci conosce bene è che ha lavorato con noi fin da quando abbiamo registrato Morning Dew allo studio ZEM, nel 2008. Non ho mai visto nessuno lavorare sull’editing come Marco. In quel caso ci eravamo affidati a Bobby Altvater per il mix, stavolta abbiamo affidato il lavoro registrato ed editato da Marco al mitico Sascha Paeth, eccellente musicista e membro degli Avantasia, una delle band metal più in voga”.

E in effetti, all’ascolto del disco – che è stato presentato lo scorso 27 aprile al Sudwerk di Bolzano – risulta evidente il fatto che si tratta di una produzione tutt’altro che casalinga. Oltre ai quattro Feline Melinda, in Seven c’è ospite Francesco Pinter, chitarrista trentino che si unisce al gruppo quando Mattia è impegnato altrove con gli Elvenking, l’altra band di cui è membro e con cui vola da una parte all’altra del continente, e la cantante Doris Albenberger, che oltre al duetto del singolo, è presente nel brano conclusivo, una struggente ballad intitolata Before The Dawn, nel più classico stile della formazione.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Intingoli di metà primavera

Look Back, il disco di Peter Burchia uscito proprio un paio di anni fa in questo periodo, è senza dubbio una delle più belle sorprese musicali riservateci dagli artisti di casa nostra, un disco tutt’oggi molto bello, ben lavorato, con suoni e idee che non passano di moda. Burchia è uno della grande famiglia degli Shanti Powa e le canzoni che escono sotto l’egida dell’etichetta del gruppo sono spesso soggette a rimaneggiamenti, nuove versioni, all’insegna di un’apertura mentale di tipo universale che ha già dato frutti coi brani del gruppo (pensiamo alla doppia versione, normale e dub del loro ultimo lavoro) e con le divagazioni soliste di suoi componenti come Berise, Thomas Maniacco e Angelo Ippati.

Nella fattispecie, il team di reimmaginatori formato da Lu Fy (al secolo Ludwig Mayr) e dal chitarrista Nea Quo (Nico Lintner), non nuovi a questo tipo di operazioni, ha ripreso la title track del disco di Burchia e, nel proprio studio di Signato, l’ha reimmaginata, rivestita di sonorità moderne, vivaci e di un video animato coloratissimo che sembra fatto apposta per la composizione di Burchia. Meglio questa versione? Meglio l’originale? Sono due cose troppo diverse, due ottime cose.

Rimanendo nell’ambito dei musicisti noti per la loro attività all’interno di un gruppo, non possiamo lasciar passare inosservato il lavoro di Mirko Giocondo: il suo ruolo di bassista e contrabbassista con gruppi rock (pensiamo agli ormai dissolti Ferbegy?), funky (l’inossidabile Homeless Band) o nell’ambito della musica d’autore (Mirko è il bassista dell’Andrea Maffei Spritzband da diversi anni) è noto a molti, quello che forse non tutti sanno è che si tratta di un musicista completo, con un curriculum costruito su studi classici, e che oltre ad essere uno dei migliori in circolazione col suo strumento ha anche una parallela attività come solista.

Le sue composizioni sono per ora ascoltabili tramite il suo canale youtube, in cui sono postate sia incursioni jazz-rock che composizioni strumentali che mescolano suoni quasi ambient con influenze pop, etniche, prendiamo ad esempio l’atmosfera irish del brano che ha postato la vigilia dello scorso Natale, Ineternal, e ancor più evidentemente quella di Irish Valley che si avvale della collaborazione dell’amico Pietro Berlanda, altro nome da non smettere di tener d’occhio).

L’ultimo brano di Giocondo, in ordine di tempo è Lila, che intenzionalmente dovrebbe anticipare l’uscita di un lavoro solista (in forma solida o liquida, questo ancora non lo sappiamo) comprendente altre composizioni del musicista, tutte molto suggestive, che suggeriscono immagini e atmosfere, ma che starebbero molto bene anche nell’ambito di colonne sonore, a dimostrazione della versatilità di questo ragazzo.

Sliding Doors è invece il nuovo singolo (anche questo rintracciabile su youtube) del cantautore Paolo Cara, veneziano d’origine ma trapiantato a Laives: la sua notorietà è dovuta soprattutto alla sua presenza costante su canali televisivi come Canale Italia e Gold Tv, quindi lontano dalla scena locale. Stando alle cronache gode di un certo apprezzamento, certo il suo pop rockettaro può risultare accattivante, ma anche datato, con sonorità anni ottanta in cui lo sferragliare delle chitarre elettriche è soffocato da tastiere plasticose e ridondanti.

Sicuramente più interessante il nuovo video di Dana Tempesta, L’addio, che mescola il mondo delle giovani cantanti contemporanee, con i suoni quasi cameristici di un trio formato da pianoforte, violoncello e violino: l’esecuzione è stata filmata durante un’intima session nell’ambito del progetto Garden Sessions del regista Max Calanducci. Dana Tempesta si conferma con questo nuovo video come una delle nuove promesse da tener d’occhio.

Chiudiamo con la segnalazione di una ristampa: gli Slowtorch il 19 aprile scorso hanno festeggiato dal vivo la ristampa di Serpent, il loro disco del 2014, ora disponibile in veste vinilica grazie all’interessamento dell’etichetta Electric Valley Records, che due anni fa aveva pubblicato l’ultimo lavoro della band fondata da Bruno Bassi.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Davide Burattin: Dropout nuovo capitolo

Sono trascorsi due anni da quando il bolzanino trapiantato a Osaka Davide Burattin – in arte Dropout – ci ha consegnato un disco composto da brevi colonne sonore strumentali per cortometraggi da lui stesso realizzati: il tema del disco era la memoria di un futuro distante e la dominante musicale era l’elettronica. Il nuovo disco del creativo bolzanino è invece cantato, minimale nella struttura, tratta della fine delle cose ed è figlio dell’urgenza di Burattin di dedicarsi alla musica, prendendo corpose pause dalla famiglia (che è stata comprensiva) e dal lavoro (nello stakanovista Giappone non deve essere stato semplice).

“Il disco precedente – ci spiega Davide – è stato di gestazione lunga e piuttosto certosina, la necessità adesso era invece diametralmente opposta, buttare fuori tutto il più presto e nel modo più autentico possibile. Un po’ come la differenza tra fotografie in teatro di posa e istantanee Polaroid, ecco. Il tutto infatti nasce in modo naturale in un dialogo tra chitarra classica e voce, la domanda è stata: da che luogo della mente proviene questa musica e con che parole la si può vestire? Il resto è stato sovrainciso immediatamente dopo o suonato da altri. Non c’è stata l’egida del metronomo e in particolare ho sentito come una repulsione al beat onnipresente e portante nella musica mainstream attuale, quindi raramente nel disco sono presenti batterie. Ho trovato infatti interessante, durante la produzione, l’alternarsi tra canzoni per così dire di getto, magari registrate su nastro proprio mentre stavano uscendo dalle mie mani e canzoni più regolari, più patinate. Diciamo che alcune stavano bene così come erano nate, altre invece sembravano pretendere di essere trasposte in bella copia”.

Il risultato è Sulla fine delle cose, un disco fresco fresco per ora disponibile solo in formato digitale, in cui come l’autore ci ha detto ci sono soprattutto la sua voce e la sua chitarra acustica, ma non mancano altri interventi: c’è Petra Dotti, del progetto Giardini di Pietra, che contribuisce al ritornello della riuscita Vibrano corde, uno dei due brani del disco risalenti a prima del lockdown, c’è poi Monica Primo che Davide ha conosciuto tramite Carmelo Giacchino, c’è il synth di Piero De Siena e dà una mano anche l’amico DJ Alessandro Signore; ma l’autore ha pescato anche tra le mura domestiche, ha coinvolto il figlio Daniele, i suoi compagni d’asilo e, soprattutto la moglie Luciana Cardi in Attica. Ci doveva essere anche Monika Callegaro, ma per motivi di sovrapposizione di impegni, la collaborazione non si è concretizzata ma è stata un’importante fonte di dialogo per l’autore durante e dopo la lavorazione.

“Da circa 20 anni non cantavo e scrivevo in italiano – ci spiega Burattin riguardo ai testi –, e probabilmente la necessità di comunicare in modo più diretto nella mia lingua madre qui è stata prioritaria. I testi sono molto personali, tanto che all’inizio non pensavo alla pubblicazione, se non che quegli amici che ascoltano le cose in anteprima mi hanno fatto notare che alla fine si tratta di tematiche piuttosto universali per tutti noi, personali ma non tutte strettamente biografiche, a volte è necessaria un po’ di fiction mutuata da storie a me vicine. La particolarità dei testi è di essere scritti su una metrica più anglosassone che italiana, ovvero basati perlopiù su parole bisillabiche o trisillabiche. Un esperimento inconscio dovuto ai miei ascolti più recenti che sono piuttosto internazionali, un po’ come è successo per la generazione Z, quella che usa andare a capo spezzando mentre canta per intenderci, che utilizza più o meno il cosiddetto enjambement, che personalmente poco mi entusiasma. L’alternativa quindi all’andare a capo, per la nostra lingua che è composta da pochissime bisillabe e trisillabe. Quindi per riassumere, visto che si tratta anch’essa di musica di urgenza, ecco come suonerebbe molto probabilmente la musica di tipo Trap se fosse cantata in modo meno prolisso, senza enjambement, senza Autotune, con della melodia, e con frasi che si collegano maggiormente l’una con l’altra.”

Alla fine chi ne esce vincitore sono le canzoni, proprio per il fatto di avere una melodia, di non avere l’Autotune, di non essere prolisse, con la modernità della loro genesi e con il fascino vintage dell’uso di strumenti tradizionali. Anche se l’elettronica continua a stare dietro l’angolo: “A dire la verità – conclude Davide – ancora non so ancora quale sarà la mia prossima mossa, ma sto giocando da un po’ con un campionatore molto particolare, creando nuovi suoni Dropout, e qualche nucleo di idea lo sto già sentendo sbocciare…”

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Hubert, il pusterese americano

Lo avevamo annunciato con un certo anticipo, al ritorno di Hubert Dorigatti da Nashville, capitale americana della musica: lì il chitarrista di Brunico si era recato per incidere la sua nuova fatica, uscita pochi giorni fa per l’etichetta milanese Appaloosa col titolo di The Nashville Sessions.

Dorigatti è senza dubbio uno dei musicisti nostrani che fanno le cose maggiormente sul serio. Il suo repertorio blues (che sia di marca sudista, virato al rock o in stile delta blues) è convincente a tal punto, e non da oggi, che non ha nulla da invidiare ai prodotti analoghi che vengono sfornati al di là dell’Atlantico.
“Andare a registrare a Nashville – ci racconta Hubert – era un sogno nel cassetto che coltivavo da anni. Nashville ha fama di essere speciale per il modo di lavorare dei musicisti di studio, volevo toccare con mano come fosse questa specie di magia di cui avevo tanto sentito parlare. È stato un flash, ora che ho fatto questa esperienza devo dire che è stato tutto come mi aspettavo, anzi, anche meglio. Hanno una cultura incredibile della loro musica, qualcosa che a me forse manca ancora, per loro è tutto naturale, sono lì per suonare: tu gli fai ascoltare come fa il brano e loro partono, senza perdere tanto tempo a parlare. Pur essendo bravissimi, non se la tirano minimamente e tra un brano e l’altro trovano comunque il tempo di fraternizzare e al tempo stesso, senza mai essere invadenti, ti propongono di provare uno strumento o un arrangiamento.”
Il disco, il terzo di Dorigatti per l’Appaloosa, etichetta specializzata che pubblica in Italia parecchi interessanti artisti americani (Mary Gauthier e Jono Manson, per fare due nomi davvero importanti), ci offre una manciata di belle canzoni che suonano davvero molto americane, pur essendo, nei contenuti, legate alla sfera personale del musicista: You Are My Roots è un bell’omaggio al padre scomparso un paio di anni fa, When The Music Is Over risale alla pandemia ed è una disperata constatazione nata dalla sensazione che tutto fosse giunto al capolinea per chi, come lui, di musica e di contatto con la gente deve vivere.
“La fama e l’importanza di Nashville – prosegue nel suo racconto – sono fondate sulla musica, che lì è una vera e propria industria, alla stregua di come la siderurgia lo è per certi grandi centri del nord e di come quella automobilistica lo è stata per Detroit. In tutto sono rimasto lì una settimana, il primo giorno, allo studio Blackbird, abbiamo fatto le basi, tutto praticamente dal vivo, suonando ogni brano tre, massimo quattro volte. Il modo di suonare di questi musicisti è incredibile, hanno una sicurezza che se ci penso mi viene ancora la pelle d’oca: ogni volta che attaccavamo un brano ho avuto la sensazione di decollare. Certo non è stata una cosa semplice, mi ci è voluto un anno di organizzazione per pianificare tutto e finanziare l’operazione, ma ora devo dire che ne è stravalsa la pena.”
La scelta dello studio in cui recarsi è stata guidata dal produttore del disco, Zach Allen, produttore del celebre chitarrista Keb Mo’ e di altri artisti americani: Hubert Dorigatti lo ha conosciuto ad un concerto e ne è nata un’amicizia. Da lì l’idea di coinvolgerlo nel progetto come produttore: Allen ha proposto a Hubert diverse soluzioni, studi mainstream, studi più piccoli, poi la scelta è caduta sul Blackbird (da cui sono usciti dischi di Johnny Cash, Dolly Parton, Greta Van Vleet, Pistol Annies, tanto per dire nomi da alta classifica). Allen ha anche aiutato Dorigatti nella rifinitura dei testi in lingua inglese e nella pronuncia.
“Ciò che ha richiesto più tempo – ci spiega il chitarrista – è stato il provare i suoni, un soundcheck molto accurato, ogni strumento, ogni microfono, ogni sfumatura. Senza l’uso di plug-in di alcun tipo ma adattando e sfruttando il mood e l’acustica dello studio per ottenere le sonorità. Tutto fatto in maniera artigianale, ma con dei risultati elevatissimi. Per farti un esempio, quando ho chiesto se si potesse aggiustare la mia voce in un paio di punti in cui non mi pareva del tutto intonata, mi hanno fatto riflettere e mi sono reso conto che me ne accorgevo solo io e che la cosa era talmente irrilevante che nessun altro l’avrebbe notata.”
In attesa di programmare un vero e proprio tour di presentazione del disco, Hubert Dorigatti sarà sul palco a Collepietra il prossimo 26 aprile accompagnato dal fantastico armonicista Fabrizio Poggi, compagno di scuderia musicale dal curriculum invidiabile, già al suo fianco in alcuni lavori precedenti.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Chris Costa is back in town

Nativo di Corvara, ma da diverso tempo residente a Milano, dopo aver stabilito per un paio d’anni la residenza a Londra, Chris Costa è in realtà un musicista molto legato alla nostra città, che ha frequentato molto ai tempi delle scuole superiori e dove aveva stabilito il suo quartier generale all’indomani dell’esperienza londinese.
È quindi sempre una bella notizia sapere che nell’immediato futuro c’è in vista un suo concerto, nella fattispecie il 12 aprile prossimo al Sudwerk di via Andreas Hofer, dove appunto Costa si esibirà nella sua più recente incarnazione artistica denominata Hot Dust/The Human and The Machine, che pur facendo riferimento alla più recente uscita discografica del nostro, ne è ormai una derivazione in costante mutazione.

Per l’occasione abbiamo contattato Chris nel suo studio casalingo milanese, dove la sua musica nasce e dove si occupa anche delle produzioni per altri artisti, come lui d’ambito electro pop.

“Sono molto contento di suonare di nuovo a Bolzano – premette Chris – perché sono molto legato alla città. E mi fa piacere che ci siano dei luoghi attenti alle nuove tendenze musicali, locali come Waaghaus e Sudwerk. Pensa che ricordo come fosse ieri che ai tempi della scuola rimasi folgorato dal primo disco di Medeski, Martin & Woods, acquistato nel negozio di Laura Weber e quando lei stessa li portò a Bolzano poco dopo, andai al loro concerto. Fu una grande esperienza, erano l’avanguardia a quell’epoca e fu l’averli visti che mi ha spinto nel giro di sei mesi a comprare un organo Hammond!”

È trascorso qualche annetto da allora e Chris Costa di strada ne ha fatta parecchia, ha avuto un gruppo col compatriota Alex Trebo, ha fondato un interessante gruppo funk chiamato Capsicum Tree, ha avviato più progetti come solista, ha fatto esperienza come corista dapprima con Malika Ayane e poi, in un tour mondiale, con un gigante quale Eros Ramazzotti. Ma per quanto riguarda la sua musica ha sempre cercato di essere all’avanguardia, magari non producendo musica facile da accostare, ma mettendoci sempre la faccia.

“Il progetto Hot Dust è uscito nel 2019 – prosegue l’artista badioto – ma in realtà il covid e i suoi postumi ne hanno tardato la diffusione. E poi quando lo presento dal vivo il disco subisce sempre delle variazioni. Ho lavorato tantissimo per capire come portarlo in pubblico, ho provato ad usare diverse soluzioni sonore e diversi macchinari, considerando che si tratta di musica elettronica. Il risultato è stato che mi annoiavo tantissimo. Nell’ultimo paio d’anni sono arrivato ad una soluzione che invece mi dà parecchie soddisfazioni, anche se è molto impegnativa: ho dovuto imparare a suonare il drum pad (lo strumento che sostituisce i suoni di batteria, n.d.r) con la mano e con un piede, cosa che mi dà la possibilità di avere l’equivalente di una batteria completa. Con la mano sinistra suono una tastiera che manda i suoni di due synth all’unisono. Mi gestisco i cori, cantando dal vivo e usando un harmonizer. In parole povere sono passato da un sistema in cui io ero schiavo della macchina ad un altro in cui invece le macchine sono al mio servizio. La tecnologia mi ha sempre aiutato ad esprimermi, l’ho sempre amata, è il motivo per cui il progetto ora è stato ribattezzato The human and the machine, perché c’è sì la macchina, ma il ritmo e l’imput devono giungere dal performer.”

Artista a tutto tondo, Costa ha davvero un background vastissimo, ha studiato piano e canto, si è esibito nei pub suonando cover e standard, si è adattato a suonare nei bar, alle feste di matrimonio: come lui stesso ama dire scherzando: “Mi mancano solo i Bar Mitzvah, ma mai dire mai. Per quanto riguarda lo spettacolo del Sudwerk, vorrei aggiungere che per me è molto importante stabilire una sorta di trascendenza con gli ascoltatori, col pubblico. Quando suoni sei portato a concentrarti sul tuo trip, ma è importante chiedersi cosa accada dall’altra parte, al di là della goduria personale che si può avere suonando, anzi più che goduria per me è proprio trascendenza, e spero sempre di condurre chi ascolta in una sorta di trip, un vortice intenso che almeno per quel momento gli lasci qualcosa, portandolo per quel momento in una dimensione differente. Questo, soprattutto, è per me la musica, essere tutti in uno stesso luogo senza nome e nello stesso stato d’animo.”

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Intingoli di primavera

La stagione è agli sgoccioli, l’inverno, peraltro piuttosto mite rispetto alla media, sta lasciando spazio alla primavera con una specie di rigurgito d’orgoglio che se proprio non ha portato le basse temperature, ha quanto meno innevato le cime e non solo loro, per la gioia di sciatori ed operatori turistici d’alta quota. Tutto questo ovviamente non ha minimamente sfiorato l’operato dei nostri musicisti che giustamente del tempo se ne infischiano e continuano imperterriti il loro cammino. Vediamo insieme le principali novità di questo periodo.

Il primo giorno di marzo è stato pubblicato il nuovo singolo del team Maka & Saf, Parlami di te. Il giovane cantante Alessandro Makselj in arte Maka, bolzanino, classe 2003, ha già all’attivo diverse canzoni, a dispetto della giovane età e per questa nuova proposta ha fatto coppia col concittadino Saf (all’anagrafe Matteo Saffiotti) che oltre ad occuparsi della produzione, divide le sorti canore con l’amico. Il brano s’inserisce a testa alta nella corrente musicale che in Italia sembra andare per la maggiore, quel pop melodico col cantato che usa la metrica del rap senza però scandirla eccessivamente e facendo un uso non invasivo dell’autotune. È la musica della generazione di “Amici” per intenderci, quella dei like e delle visualizzazioni, la piccola alternativa a un mainstream che continua a riproporre canzoni di quaranta, cinquant’anni fa come se in mezzo non fosse accaduto (musicalmente) nulla: e per molti, in effetti, non è accaduto davvero nulla.

Il brano di Maka e Saf si presenta come una ballad dalla forte carica emozionale. Attraverso i suoi versi ispirati, l’artista racconta le dinamiche di una relazione, appassionata quanto tormentata, descrivendo il turbine emotivo che pervade la mente del protagonista della vicenda.

Di una settimana successivo è invece il brano (stavolta anche in formato video su youtube) pubblicato dal bolzanino Dayoff col titolo di Ce la farò. La sfera musicale è la stessa in cui si colloca la canzone di Maka, con un più accentuato uso della ritmica, laddove invece l’altra proposta si sorreggeva su un’atmosfera acustica. Su una curatissima produzione firmata da Ric de Large, Dessa One e dallo stesso Dayoff, il timbro espressivo delicato della vocalità dell’artista scorre sulla ritmica accompagnato da chitarre graffianti e da elementi sonori club, urban e r’n’b. La rappresentazione del turbine emotivo interiore prende forma attraverso linee melodiche catchy che esaltano la ricercata cifra stilistica di Dayoff, il quale, riesce a calare l’ascoltatore nella dimensione della vicenda creando una componente di immedesimazione che non ritroviamo però nel video d’accompagnamento, girato con atmosfere soffuse che vogliono richiamare atmosfere degli anni trenta del secolo scorso senza però riuscirci.

Sul fronte techno pop, ad inizio marzo è arrivato invece il nuovo singolo di Annabel De Melchiori, Little Things, brano strumentale indirizzato principalmente al pubblico delle discoteche, come del resto era Today night,  brano uscito a fine gennaio ad opera del produttore beetlejuice a cui la De Melchiori aveva preso parte come vocalist.

Concludiamo con quello che ci pare lo sforzo più interessante delle ultime settimane, il video della band The Rumpled, in cui milita il fisarmonicista bolzanino Tommaso Zamboni, autore della parte musicale del brano in questione. The Rumpled, la cui musica si è conquistata la stima e l’apprezzamento di pubblico e critica anche all’estero, fa di nuovo centro col titolo di Vaja’s breath, il respiro di Vaja, canzone  sostenuta da un’energica siringata di celtic folk virato al punk, secondo la lezione dei mai dimenticati Pogues e dei loro epigoni Dropkick Murphys, condendo il tutto, oltre che con un occhio di riguardo per un problema scottante come il cambiamento climatico, con particolare attenzione anche alla parte visual del progetto che riporta il gruppo sulle nevi dolomitiche e nelle foreste devastate dalla furia della tempesta del 2018 a cui il brano s’ispira.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Gianni Girardini at 70

A vederlo non lo direbbe nessuno, sportivo da sempre per passione e professione, Gianni Ghirardini festeggia quest’anno i suoi primi settant’anni e visto che la passione per lo sport è sempre andata di pari passo con quella per la musica, il chitarrista bolzanino d’adozione, ma vipitenese di nascita, ha ben pensato di festeggiarsi dal vivo, con tre concerti, che si terranno sui palchi di San Giacomo (sabato 23 marzo, ore 20.30) , Vipiteno (sabato 15 giugno) e Bolzano (Teatro Cristallo, in dicembre, giorno da definire) e in cui salirà sul palco accompagnato dalle formazioni musicali con cui si è esibito negli ultimi trentacinque/quarant’anni, quelle con cui si sente più coinvolto e che ha contribuito lui stesso a fondare.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, ragazzino, insieme ad un amico era sceso nella piazza della sua città d’origine con chitarre e amplificatore per suonare del blues. Ai carabinieri che gli avevano fatto una semplice lavata di capo aveva risposto che non trovava giusto che lui dovesse sorbirsi ad ogni piè sospinto la musica della banda cittadine e che per la musica che piaceva a lui non ci fosse posto!

“La matrice blues c’è dappertutto – ci dice Ghirardini –, in qualche modo compare sempre in ciò che suono, ma i quattro gruppi con cui festeggerò questo compleanno sono in realtà molto diversi, con i Deja Vu rivisitiamo il repertorio di Crosby Stills Nash & Young, con l’Incredible Southern Blues Band è protagonista il blues elettrico, con i Pangea l’approccio è più di carattere etnico con l’esplorazione della musica africana che sta alla base del blues ma anche con influenze orientali. Il gruppo di più recente formazione si chiama MeBo e ne fanno parte anche Manni Pardeller in veste di percussionista e il chitarrista meranese Rolando Biscuola: quello che proponiamo è un blues acustico che gioca tra lo stile finger picking in cui Rolando è un portento e il mio lavoro con la slide.”

Gianni, che ai suoi esordi ha suonato persino con Enrico Micheletti in una mai decollata del tutto Hard Time Blues Orchestra che avrebbe dovuto essere un’evoluzione della defunta Hard Time Blues Band, ha suonato spesso con la Spolpo Blues Band e fin dagli inizi ed è stato il chitarrista di una storica formazione chiamata Trinciato Forte, in auge negli anni ottanta.

“Nell’organizzare questi concerti mi sono trovato a fare una riflessione – ci confida il chitarrista –, nella vita mi è capitato spesso a fare l’autostop, ho chiesto un sacco di passaggi, e spesso ne ho dati a chi ne chiedeva. E ho trovato l’analogia con quello che è stata la mia vita musicale: quante volte mi sono ritrovato a chiedere ad un gruppo di amici se mi portavano a fare un viaggio musicale con loro? E quante altre, invece, sono stato io a chiedere ad altri se volessero salire a bordo del mio progetto per venire a fare un viaggio musicale con me. È uno spirito forse tipico della mia generazione quello che ti porta a fare dei viaggi musicali con altre persone. Senza un background basato sullo studio, ma per il gusto dello scoprire insieme, esplorare un territorio musicale. La stragrande maggioranza delle cose che ho fatto nella mia vita l’ho fatta seguendo questa attitudine. Senza maestri, senza internet, sempre e solo scambiandosi conoscenze con gli altri, io ti insegno questo accordo, tu mi insegni quel trucchetto… Adesso tutto è diventato più veloce, non ci sono più questi incontri preliminari, questa ricerca. I musicisti si vedono mezz’ora prima del concerto e via. Uno arriva da qui uno da lì, tutti sono bravissimi, ma lo spirito si è perso.” Per quanto riguarda la struttura dei concerti ognuno sarà costituito da quattro mini set in cui ciascuna formazione avrà il suo spazio, con Ghirardini sempre sul palco a fare da filo conduttore suonando e raccontando, con jam finale al termine ad appannaggio della Incredible Southern Blues Band che ospiterà gli altri amici.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Cantanapoli: Napoli con lo Spritz!

Parafrasare il tipico incipit di molte canzoni dell’immenso Renato Carosone ci pare il modo migliore per occuparci di questo prezioso dischetto intitolato “Napule è…” che vede la Spritz Band di Andrea Maffei alle prese con un repertorio bastato esclusivamente su alcuni classici della canzone partenopea, sette canzoni composte tra la fine dell’ottocento e gli anni settanta del novecento, da Carosone a Salvatore Di Giacomo a Pino Daniele, canzoni che fanno ormai parte del DNA non solo dei napoletani.

La canzone napoletana è un classico, indiscutibile. Ne è profondamente convinto lo stesso Andrea Maffei che con i suoi compari è protagonista del dischetto. Non è un caso che molti anni fa in un’intervista Maffei abbia confessato di avere un sogno nel cassetto: cantare “Reginella” dal vivo accompagnato da un’orchestra. Quel sogno si è realizzato poco più di un anno fa quando Andrea ha collaborato con la Merano Pop Symphony Orchestra, e ora quel brano è anche incluso in versione Spritz nel disco di cui ci occupiamo. Ma da buon sognatore, Maffei ha ora un altro sogno:

“Stavolta sogno in grande – ci racconta – ma ammetto che mi piacerebbe poter cantare sul palco di un grandissimo teatro di Napoli Era de maggio, la più antica delle sette canzoni incluse nel disco, e la vorrei cantare però non da solo, ma in duetto con Maria Pia De Vito! È una canzone che amo tantissimo; io penso che dalle canzoni napoletane sia partita tutta una serie di melodie mondiali, non solo italiane. Se andiamo a guardare e ascoltare un po’ in giro, soprattutto sulle sponde del Mediterraneo, vediamo come la musica napoletana sia passata ed abbia lasciato delle influenze, lasciandosi dietro una ricchezza unica di melodie”.

A dispetto dello spritz del nome del gruppo, che al bar sta a significare un vino più o meno annacquato, la proposta dell’Andrea Maffei Spritz Band è tutt’altro che diluita con l’acqua, Andrea è perfettamente credibile nel suo cantare in napoletano e gli arrangiamenti che la sua formazione (Davide Dalpiaz, Giorgio Mezzalira, Marco Gardini, Mirko Giocondo e il neoacquisito Davide Groff) hanno tessuto per le canzoni sono indovinatissimi: c’è rispetto per la tradizione ma c’è anche innovazione, mai sopra le righe. Tutto è suonato in presa diretta in sala prove, i brani, collaudatissimi, erano già stati eseguiti nell’ambito di una selezione più ampia per un concerto tenutosi a San Giacomo. Gardini pennella qua e là con la chitarra elettrica, le chitarre acustiche e classiche di Mezzalira vengono fuori come forse non era mai accaduto in precedenza, non ci sono sbavature e c’è persino un po’ di rock’n’roll, con ironia (una delle caratteristiche storiche del gruppo) quando nel refrain finale di “Tu vuò fà l’americano Maffei e soci cantano “spritz and soda e rock’n’roll” al posto del canonico whiskey and soda.

“Questo amore per la musica napoletana – prosegue Maffei – mi deriva da uno zio: quando ero piccolo, questo zio, che deportato in Germania durante la guerra vi era poi rimasto a lavorare a guerra finita, tornava solitamente per le festività e si portava la sua chitarra e deliziandoci cantando queste canzoni napoletane, magari con un testo un po’ ad orecchio visto che lui era veneto e lo aveva imparato da qualche compare d’immigrazione o da una trasmissione radiofonica. Mi teneva in braccio e mi cantava queste canzoni ed io sono cresciuto con queste melodie in testa. È da lì che mi arriva il rispetto per questa scuola musicale. Durante la pandemia, per non stare con le mani in mano ho cominciato a postare delle mie versioni di brani napoletani, poi la cosa ha preso piede, abbiamo cominciato a provarle in gruppo e ci è stato proposto di suonarle dal vivo a San Giacomo. Alla base della spontaneità c’è il fatto che stiamo bene a suonare insieme, ci divertiamo e cerchiamo di non prenderci mai troppo sul serio. Il fatto di averle registrate per un disco, è la logica conseguenza, volevamo lasciare un segno, anche se i dischi non li compra più nessuno. Visto che avremmo cominciato a lavorare ad un disco nuovo di brani originali, abbiamo deciso di farne due di dischi. E intanto ecco pronto questo. L’altro arriverà presto”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale