Mauro Cabassa ricorda i Liqid

Sono trascorsi ormai trentacinque anni dalla gloriosa epopea dei Liqid, una delle formazioni locali che ai suoi tempi fece parlare molto di sé ed era vista come “the next big thing in town”, per dirla come l’avrebbero definita gli inglesi, tradizionalmente sempre un passo avanti per quanto riguarda le novità in campo musicale. Per entrare nell’universo Liqid è necessario immedesimarsi in un tempo ormai lontano in cui a Bolzano e provincia erano in pochi davvero a cercare di fare qualcosa di diverso, più nell’ottica di certa new wave di matrice anglosassone che non in ambito prog, blues, hard rock (e a seguire heavy metal), generi che da noi sono sempre stati più seguiti e suonati.

Certo, c’erano in circolazione almeno un altro paio di band che in quegli facevano un discorso musicale differente, pensiamo ai Gegia Miranda e ad Anna e i Dentici, molto apprezzati ma sicuramente più underground. I Liqid erano nati dall’unione di alcuni personaggi che si erano già distinti abbondantemente nella prima metà del decennio: il chitarrista Gigi Mongelli che proveniva dai mitici Zot in cui nell’ultimo periodo aveva militato anche il batterista Mariano Keller (già con Hard Time Blues Band, Rockeller, Fraiso e molto altro), il cantante Luca Calò (Noisegate) e, entrambi già nei Trackl, Marco Dalle Luche (tastiere) e Mauro Cabassa (bassista).

“Mariano aveva una sala prove sotto la Speckstube in via Goethe – è Cabassa a raccontarci la storia del gruppo – e lì è iniziato tutto, solo dopo ci siamo trasferiti nella sala di via Zara. Il progetto ha richiesto molto tempo di assestamento prima che riuscissimo a presentarci in pubblico. Erano anni in cui a livello di strumentazione si sperimentava molto, si usavano tastiere, i primi strumenti midi, sequencer”.

La prima uscita in pubblico, secondo i ricordi del bassista (ma anche responsabile della parte elettronica insieme a Dalle Luche), dovrebbe essere stata il 23 marzo del 1988, quando i Liqid si esibirono come spalla dei Neon, band fiorentina di new wave in salsa italiana abbastanza in voga in quegli anni.

“Nel nostro DNA musicale – prosegue Cabassa – c’era un po’ tutto quello che girava in quegli anni a livello di new wave, dai Police ai Simple Minds, senza dimenticare i Japan. Naturalmente ognuno di noi ci aggiungeva poi le proprie influenze personali. La cosa funzionava bene perché comunque, dovunque andassimo a suonare c’era interesse da parte del pubblico”.

Le cose sembravano dover andare a gonfie vele per la formazione bolzanina, tanto che dopo lunghe selezioni i Liqid si assicurarono l’accesso alla finale italiana di un’importante concorso musicale indetto dalla Yamaha. Purtroppo ci mise lo zampino il destino e la chiamata alle armi del cantante portò sul palco milanese un gruppo monco, tutt’altro che la formazione che si era aggiudicata l’accesso a una finale che con ogni probabilità in altre circostanze avrebbe vinto. Questo portò ad una prima implosione dovuta ad una serie di intemperanze giovanili che solo il tempo ha parzialmente lenito.

“Per un po’ – aggiunge il bassista – abbiamo provato a ricompattarci. L’interesse per i Liqid era rimasto. I locali ci chiamavano ancora per suonare e la formazione fu completata col cantante trentino Franco Depedri. Non durò molto, ma nel 1989 partecipammo ad una rassegna importante organizzata dal Boston Bar di Trento, locale storico di quegli anni. La manifestazione si chiamava Festivalpub e nonostante non fossimo più i Liqid degli esordi, ci siamo aggiudicati la vittoria che consisteva nella registrazione di un vinile, un dodici pollici a quarantacinque giri. Ne venne fuori una cosa molto spartana, senza distribuzione, senza copertina. Noi eravamo comunque ancora provati dall’abbandono di Luca, per di più il tizio dello studio ci aveva detto che in un pomeriggio avremmo dovuto concludere, così abbiamo preparato tutto a casa, siamo andati in studio coi suoni midi e col sequencer, praticamente non abbiamo suonato nulla lì. Per non dire che era la prima volta che lavoravamo con tecnologie digitali, così il risultato è stato quel che è stato”.

Il disco fu stampato nudo e crudo. Oltre alla voce di Depedri, c’era quella di Monica Merz che tutto sommato creava un bell’effetto nell’alternarsi con quella maschile molto debitrice al David Bowie berlinese (Depedri è ancora in circolazione in Trentino e ha perseguito come cantante la sua passione per il Duca Bianco). Il disco finì sepolto in cantina e nessuno dei Liqid lo riascoltò più.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Timbreroots: armonizzazioni e suoni cristallini

Si sono formati poco prima che la pandemia bloccasse l’intero pianeta, sono giovanissimi e propongono un genere musicale fresco e geniale, difficile da incontrare alle nostre latitudini, dove solitamente hanno vita più facile rockettari incalliti, cantautori, jazzisti e cover band.

Eppure, quella dei Timbreroots, un quintetto di base nella Bassa Atesina, sembra essere una scommessa già vinta, nonostante abbiano cominciato a venire allo scoperto appena un paio d’anni fa, non appena le restrizioni pandemiche si sono allentate.
Le buone carte di questi cinque ragazzi sono diverse, ma se dobbiamo dire quale sia il loro punto di forza non ci sono dubbi, le armonie vocali a quattro o cinque sono davvero senza precedenti da queste parti.
Lo scorso primo luglio, nel corso del concorso nazionale Music 4 the Next Generation, si sono aggiudicati un meritatissimo secondo posto, preceduti dal Lorenzo Bellini Quartet.
“Si tratta di un concorso molto interessante – ci racconta Thomas Vicenzi, bassista della formazione nonché baritono basso – ai gruppi partecipanti viene assegnato un brano di musica classica da arrangiare e proporre in chiave moderna secondo il proprio stile, a noi è toccato in sorte La follia, un brano originariamente barocco che abbiamo convertito in Madness e a cui abbiamo abbinato un testo originale che affronta il tema della follia in cui versa il mondo attuale. L’arrangiamento è venuto fuori in cinque quarti, molto particolare, con l’uso di strumenti come banjo e marimba”.
I Timbreroots sono tra i sedici gruppi sopravvissuti alla preselezione e hanno presentato il loro brano nella semifinale tenutasi a Verona, accedendo quindi alla finalissima che si è svolta a Trento con una giuria superstar composta da Malika Ayane, Gegè Telesforo e Alberto Martini.
Senza concedersi troppo riposo, una settimana dopo il gruppo (che è composto oltre che annovera oltre a Thomas anche da Benedikt Sanoll, voce solista e chitarra, Philipp Sanoll, tenore, batteria e percussioni varie, Sebastian Willeit, tenore, chitarre e banjo e il pianista e baritono alto Simon Oberrauch) si è esibito a Collalbo nell’ambito dello storico festival Rock Im Ring.
Un anno quindi del tutto a pieno ritmo, visto e considerato che a gennaio i Timbreroots hanno anche pubblicato il loro primo disco, un bel CD composto da dodici brani originali che mescolano i diversi stili a cui si ispirano, con una particolare predilezione per rock e folk di matrice indie.
“Ci piacciono molto Coldplay e Mumford & Sons – prosegue Thomas Vicenzi – ma soprattutto, a livello di armonizzazioni vocali ci rifacciamo molto alla musica corale di matrice classica. I brani sono scritti quasi esclusivamente da Benedikt: lui ha una formazione come vocalista jazz, ma tutti abbiamo studiato musica a livello scolastico e anche all’università”.
E non c’è che dire, ascoltando il loro disco, Numen’s Dreams (i sogni della divinità), si percepisce totalmente che siamo alla presenza di ragazzi assai dotati e preparati, con una strumentazione essenziale e senza contare su collaborazioni esterne, i Timbreroots hanno registrato il disco in una sperduta località austriaca, complice il fatto che tutti studiano a Innsbruck. Le composizioni sono ariose, mai cupe, talvolta dominate da melodie e ritmi che invitano alla danza, talaltra più riflessive, ma sempre elaborate cin cura e garbo. Inoltre, da non sottovalutare, c’è il fatto che anche a livello di liriche emerge chiaramente la volontà di non dire cose scontate, come è chiaro fin dalla prima traccia del CD, Lets Give The A Chance, un piccolo inno all’inclusività, senza barriere dovute al colore della pelle, allo stato sociale, all’età.
“È così che ci piace pensare debba essere la nostra musica – conclude Vicenzi – una cosa diretta a tutti coloro che vogliono esserne coinvolti: è anche il senso del nome che ci siamo dati, l’unione tra il timbro musicale e le radici musicali di ciascuno, quali che esse siano”.

Angelo Ippati, Thomas Maniacco e il poderoso progetto Owl Riddim

Il termine riddim è la base della musica giamaicana, che sia reggae, dub, reggaeton o ska. La parola – che è una storpiatura del termine anglosassone rhythm (ritmo, evidentemente) – dice tutto, fin dai tempi in cui la musica giamaicana ha cominciato a ritagliarsi un posto nel panorama internazionale grazie a piccole etichette come la Trojan, in seguito con l’interesse dimostrato da Chris Blackwell che a quella musica dedicò la propria label denominata Island.
Il ritmo era infatti alla base della struttura musicale di ogni brano, tanto che uno stesso riddim, veniva usato per molteplici brani.
Proprio questa forma musicale di origine giamaicana sta alla base del progetto realizzato dal musicista salentino (ma ormai di stanza da tempo nel capoluogo altoatesino) Angelo Ippati e dal bolzanino Thomas Maniacco. I due sono noti da tempo a chi segue la scena musicale di quassù, il primo è il sassofonista degli Skankin’ Drops, il secondo suona la tromba negli Shanti Powa: entrambi però sono sempre aperti a nuove avventure sonore.
“Owl Riddim – ci racconta Angelo Ippati – è un progetto nato durante le lunghe giornate in cui siamo stati forzati a restarcene a casa. Pensavo di provare a realizzare qualcosa di più orientato verso la cosiddetta scena sound system che è una delle forme musicali giamaicane più vicine a quello che può essere il set di un DJ. Un DJ col microfono però, non una cosa da band reggae. Mi è venuta fuori una bella base e uno dei primi pensieri è stato quello di coinvolgere Thomas per fargli scrivere un testo e cantarlo su questa base”.
In men che non si dica il progetto era partito, Thomas Maniacco, oltre a diventare Athomos, il cantante del primo brano del disco (sia sul lato A in versione classica, che sul lato B in versione dub) è diventato il socio musicale di questo Owl Riddim, così denominato in onore del gufo (owl in inglese) che Angelo vedeva ogni notte dalla finestra mentre lavorava alla base.
“Appena è stato possibile tornare a uscire di casa – è ora Thomas a parlare –, ci siamo ritrovati nello studio che ho ad Aica di Fiè con Florian Gamper e lì, un gruppo misto Skankin’ Drops e Shanti Powa ha registrato la base originale: Florian alla batteria, Angelo, Andreas Galante ed io ai fiati, Marco Pellin alle tastiere, Fabian Pichler alle chitarre. La versione del riddim del gufo cantata da me ha preso il nome di Lion Pow”.
A questo punto però, la tentazione di sentire come sarebbe stato il brano con altre voci ed altre parole è stata troppo forte, anche perché questa è appunto l’essenza di questa formula musicale, così Angelo ha spedito la base alla cantante africana, di base nei Paesi Bassi, Empress Black Omolo.
“Devo dire che quando mi sono messo a lavorare sul riddim – prosegue Ippati – ero stato proprio ispirato dal lavoro di questa importante protagonista del genere. Sono riuscito a contattarla e a spedirle la base strumentale, confessandole che mi sarebbe piaciuto molto collaborare con lei. Per tutta risposta dopo un po’ di tempo, Omolo mi ha rispedito il tutto con la sua versione, diventata nel frattempo Freedom Is A State Of Mind. È stato un onore grandissimo per me il fatto che abbia preso in considerazione il mio lavoro mandando il suo cantato con tutte le armonizzazioni”.
Il passo successivo è stato cercare un terzo interprete, trovato presto nella persona di un altro specialista, Galas, che avevo già avuto modo di incontrare in Salento, così l’ultima versione è diventata Zion Train. Per la seconda facciata del disco, un dodici pollici a 45 giri che può contare su una distribuzione a livello internazionale, Angelo e Thomas hanno chiamato in causa Michael Exodus che ha realizzato, rigorosamente dal vivo, le versioni dub dei tre brani.
Il primo brano, Lion Pow, era uscito nel 2021 in formato videosingolo su youtube (youtu.be/CbGV9HuLZvM), da allora il progetto continua ad evolversi. Ippati e Maniacco stanno già lavorando e pensando al seguito che Owl Riddim potrebbe avere, anche col coinvolgimento di ulteriori voci e testi per la base da cui tutto è partito.
Durante l’estate c’è già qualche presentazione nel Salento, ma in autunno è lecito attendersene una anche a Bolzano.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Singoli e intingoli #3

L’inizio dell’estate e dei primi bollori climatici ci ha portato una ventata di musica fresca e nuova nell’ormai sempre più comune formato singolo o videosingolo. Vediamoli insieme.

L’uscita più sorprendente ci è però giunta in solo formato audio lo scorso 2 giugno ed è davvero una delle cose musicali più belle ascoltate in questa prima metà del 2023. Si tratta del debutto assoluto della giovanissima cantante di Vadena Sara Sgarbossa, in arte Bossa, che si è presentata alla corte dei Roots Stable Studios ad Aica di Fiè, la casa musicale di Florian Gamper e Thomas Maniacco, con una canzone da lei composta, intitolata Like Wendy. È stato una sorta di colpo di fulmine, la bontà della canzone, la voce non comune di Bossa, hanno convinto i due produttori a realizzare al più presto la registrazione che ora possiamo ascoltare tramite il link youtu.be/I627E8vrW7A: il brano è stato rivestito con un arrangiamento mai invadente, essenziale, con una formazione che include alcuni dei musicisti più in vista del panorama bolzanino, vale a idre oltre ai produttori, entrambi negli Shanti Powa, Mirko Giocondo (Homeless Band) e Antonio Del Giudice (Atop The Hill).

Tutt’altro genere quello proposto dal meranese Diego Federico, che il 9 giugno ha consegnato alle stampe – si fa per dire – il suo nuovo video, Wow Ciao. L’artista della città in riva al Passirio aveva già dato un’ottima prova quando lo scorso inverno aveva pubblicato Son Of Titan (youtu.be/IVh6PMNT5r0). Col nuovo lavoro ci consegna un’altra composizione all’insegna del pop elettronico caratterizzato da una voce che si distingue nella moltitudine, il brano ha la giusta orecchiabilità e sicuramente funzionerà bene nei circuiti dedicati alla musica dance. Per quanto riguarda il video (youtu.be/IVh6PMNT5r0) la produzione del singolo precedente era sicuramente più elaborata e interessante, ma per quel che concerne la musica il risultato c’è.

Il terzo brano di cui ci occupiamo è quello dei Lost Zone, la versione acustica di Other Side (youtu.be/L4o7EeSU6Oo) condivisa con la cantante Tracy Merano in un connubio sicuramente avvincente e riuscito. I Lost Zone avevano realizzato la scorsa primavera una ristampa del loro album di debutto, Resilience, uscito appena un anno fa, con in aggiunta la versione acustica dei brani del Cd pubblicato dalla Drakkar, etichetta dal nome evocativo. Il brano proviene proprio da quelle registrazioni, che includevano appunto degli ospiti, il primo singolo della nuova versione vedeva un duetto col cantante dei Meinfelt, Patrick Strobl. Il connubio tra la voce folk pop di Tracy e la vocalità teatrale del frontman Florian conferma la statura della band e ovviamente anche della cantante.

L’ultimo singolo di cui ci occupiamo è Stringimi le mani (youtu.be/D_crNMUdZ5o), la produzione più recente del cantautore Stefano Mascheroni, un veterano della scena locale. Mascheroni si è recentemente proposto di presentare ogni tre mesi un nuovo brano e stavolta si è affidato ad Andreas Perugini per realizzare il videosingolo. “È un modo – dice Mascheroni nel comunicato di presentazione – per mantenere vivo il contatto con tutti quelli che amano la musica, ed in particolare chi mi segue e mi vuole bene”. Il brano risente un po’ degli arrangiamenti ridondanti e molto anni ottanta del trentino Marco Mattia, tanto che l’uso smodato della batteria elettronica lo fa sembrare quasi un demo, cosa che invece non sembra essere per quanto riguarda la parte cantata.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Il solido ritornodi Frederick Helmut Pinggera

Col suo disco di debutto, all’età di quasi sessant’anni, Frederick Helmut Pinggera, venostano di nascita ma pusterese d’adozione, si era guadagnato la palma di rivelazione dell’anno nel 2018, come ospite applauditissimo al Tom Keller Show di Rai 3 Sender Bozen e poi organizzatore di un riuscito festival per cantautori nella suggestiva Dobbiaco, per non dire degli applauditi concerti in supporto al disco. Cantautore rock a tutto tondo, con modelli del calibro di Springsteen e Zucchero, Pinggera ha creato un genere tutto suo, complice una voce unica e vincente, in cui le lingue si mescolano nell’ambito della stessa canzone, in particolare nel nuovo disco, intitolato Fred 22, in cui oltre a tedesco e inglese troviamo anche ladino e italiano, trattati con eguale competenza linguistica.

Oltretutto, con l’alternanza del tedesco all’inglese e al dialetto sudtirolese si crea, nelle liriche una sorta di gramelot che vince su tutti i fronti, quando solitamente, con un paio di eccezioni, le asperità della lingua germanica mal si adattano al rock e suoi derivati.

“In un primo momento – ci racconta Pinggera –, il disco avrebbe dovuto avere un titolo diverso, poi il grafico ha creato questa scritta scambiando per titolo un appunto che gli avevo lasciato, ed è venuto fuori con questa scritta, che suonava un po’ come l’autostrada A22. Ci è sembrato funzionasse benissimo, così l’altro titolo me lo tengo buono per la prossima volta. Le registrazioni sono state fatte da Marc Giugni, Magoman, come mi piace chiamarlo, nella sua cantina.”

Il modo di lavorare è sempre lo stesso, Pinggera porta le sue idee e le butta giù con la chitarra acustica, le canzoni vengono registrate e poi Giugni ci lavora su suonando da solo chitarre, basso, batteria e tastiere.

“I brani – ci spiega il cantautore rocker – sono come un’ossatura intorno a cui Magoman mette la carne, o più poeticamente, come dei bimbi a cui cuce addosso un cappottino. Lascio tutto a lui il lavoro di sartoria: a volte li veste con pantaloncini corti e maglia a righe, altre con il giubbotto di pelle da rocker. Poi lasciamo tutto lì un po’ per riascoltarlo a distanza e capire se suona bene. Va sempre a finire che mi affeziono a tutti i bambini e a tutti i vestiti.”

E quanto a suonare, suonano indubbiamente bene. Pinggera ha una vena creativa molto felice, sembra che per lui scrivere canzoni sia la cosa più naturale del mondo”. Giugni da parte sua dimostra un eccellente gusto musicale, molto rock quando c’è da esserlo. Il brano iniziale, Il falco, suona come un potenziale hit radiofonico, la conclusiva Fliach me hoam ha i toni della ballad da titoli di coda, le chitarre sono sempre al posto giusto, il suono dell’organo convince. Il blues di I spiel in blues firr diar ha il suono del blues più verace, lontano da essere una citazione di qualcosa di già ascoltato. Partigiano e partigiana suona come un folk rock in stile Gang e il brano in ladino Tucela por Diana, pare una delicata ninnananna impreziosita dal controcanto della cantante di madrelingua Maria Craffonara.

“Spesso le canzoni nascono di notte – ci confida Frederick –, mi sveglio di colpo con delle immagini che mi girano attorno. Prendo appunti sul cellulare per non perdere gli spunti. Al mattino poi li trascrivo, e magari nella trascrizione qualcosa muta o si perde. Dopo qualche giorno li rileggo e sento che c’è qualcosa che non è come vorrei, magari una parola che suona troppo comunemente, allora riprendo gli appunti e scopro che lì c’era la parola giusta e che nella lucidità del giorno l’avevo cambiata, perdendone l’effetto. Il brano Il falco ha avuto una genesi particolare, la prima volta che si è manifestato è successo nel 2020, quando Reinhold Giovanett mi è venuto a intervistare a casa, mi dava la sensazione di essere di passaggio, un po’ come il falco. Quando è presente, è presente, ma non vuole essere presente più di tanto. Ma c’è anche un’altra cosa cui il brano è legato, mi trovavo a Fez, in Marocco, dove ci sono i falchi che volano sui monti dell’Atlante e si dice che portino l’anima dei morti; mentre ero lì ho ricevuto una telefonata da mia mamma che voleva dirmi che era stanca, ma di non preoccuparmi, di godermi il viaggio. Il giorno dopo mi ha chiamato mio fratello per dirmi che la mamma non c’era più. La canzone parla anche di questo”.

Oltre a Pinggera e Giugni, nel disco si possono ascoltare la già citata Maria Craffonara al canto, il gardene Tommy Vinatzer e la sua pedal steel guitar, che pennella col suo suono allungato un paio di brani. Ci sarebbe anche la bella voce di Annika Borsetto in ben tre brani ma, unica nota negativa, per qualche inspiegabile ragione è rimasta sepolta nel missaggio e la si percepisce appena.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Noi 3, loro 2: Caramelage, un connubio a suon di standard

Franco Mugliari è un personaggio con radici musicali molto profonde nella scena locale, radici che affondano nella Bolzano beat e in quella più “impegnata” e cantautorale dei primi anni settanta: la sua passione però è il jazz e da alcuni anni, oltre a studiare con applicazione il contrabbasso, ha stretto un produttivo sodalizio con Toni Gazzignato, batterista di lungo corso ed esperienza e con lo straordinario Walter Pitscheider, chitarrista, sassofonista e arrangiatore.

Dopo aver realizzato un paio di dischi, assumendo dal secondo in poi la denominazione Noi 3, il gruppo torna in questi giorni con un elaborato e riuscito progetto in cui, coronando il sogno di avere anche delle registrazioni cantate, ha coinvolto Angela Musolino e il veterano Sergio Lazzarin dando vita ad un estemporaneo quintetto molto ben assortito e ad un riuscito CD intitolato Caramelage.

“Walter, che è quello bravo del trio – dice scherzando Mugliari –, si annoia perché deve fare tutto lui, così è nata l’idea di provare a fare qualcosa in formazione allargata, e visto che con Sergio eravamo in contatto da tempo gli abbiamo proposto di provare qualcosa con noi. Walter dal canto suo conoscendo Angela per motivi professionali l’ha invitata a partecipare alle prove. Si è creato subito il mood giusto, e quello che a me piace di più è il fatto che Sergio non fosse un crooner di formazione e che Angela non venisse da un background jazz e non avesse mai cantato in altra lingua che in italiano”.

“A casa mia – spiega Angela – si è sempre cantato nei raduni familiari, musica melodica italiana, stornelli, ed io non avendo una formazione specifica cantavo per diletto, come accade nelle famiglie canterine. Di pari passo mi sono ritrovata poi a cantare ai matrimoni delle amiche, alle prese con un repertorio che partiva da Mina per toccare le varie sfumature della musica italiana. Non nego di aver seguito per un po’ il sogno di cantare ad un livello più elevato, poi quando non l’ho più cercato, un collega che mi ha sentita cantare mi ha indirizzata da Roberta Carlini da cui ho cominciato a prendere lezioni di canto, ed ora eccomi catapultata in una bella storia come quella di questa collaborazione. Direi che è un grande regalo che la vita mi ha fatto”. 

Dal canto suo, Sergio Lazzarin, proviene da esperienze più legate al mondo rock e pop vantando una più che trentennale esperienza nella Second Hand Revival Band, la versione allargata, da metà anni ottanta in qua degli storici 36-24-36; Mugliari ci ha messo del tempo a convincerlo che aveva le doti per cimentarsi con un repertorio così differente.

“Mi hanno fatto ascoltare i cinque dischi di Rod Stewart dedicati a questo tipo di musica – confessa Lazzarin – e così ho scoperto un mondo che mi ha aperto occhi e orecchie. Poi con Angela abbiamo trovato da subito una forte sintonia, le nostre voci si combinavano bene. Scoprirmi crooner a settantaquattro anni è stato davvero una rivelazione”.

Il disco dal fantasioso titolo Caramelage, ha un significativo sottotitolo che recita: Qualcuno vuole una caramella? il riferimento è al fatto che le canzoni messe in piedi dall’estemporaneo quintetto sono come le caramelle, una tira l’altra.

Ed effettivamente, mettendo il CD nel lettore, le canzoni scorrono via piacevolmente, non importa se alcune le abbiamo ascoltate e risentite in decine di altre versioni, qui conta il momento d’insieme, il fatto che i cinque protagonisti si stiano divertendo.

Per quanto riguarda gli arrangiamenti di ciascuna canzone è stato ovviamente fondamentale l’apporto di Pitscheider, mentre Gazzignato, oltre che dietro ai tamburi, anche in questo caso è l’uomo seduto alla consolle: due figure assolutamente indispensabili, al pari degli altri, per la riuscita del disco.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Discodex: i grandi successi diAndrea Beggio ed Emanuele Zottino

Le storie musicali di Emanuele Zottino e Andrea Beggio sono partite nei lontani anni novanta e fanno echeggiare nomi come Khalmo e Croma, formazioni che si muovevano un po’ al di fuori, sia musicalmente che come raggio d’azione, degli angusti confini di questa piccola provincia spesso autoreferenziale. Negli ultimi quindici anni, le loro strade si sono incrociate spesso e i due sono stati anima e cuore di band non scontate come Controfase e RCCM: i loro anni venti del ventunesimo secolo si aprono con un nuovo progetto denominato Discodex che ha appena pubblicato un lavoro intitolato ironicamente Greatest Hits e dedicato alla produzione di brani strumentali da discoteca, ma non solo. I brani in esso contenuti sono per lo più intitolati con nome di stelle o comunque legati all’astronomia. Abbiamo chiesto loro se ci sia un motivo particolare a riguardo.

“Questo è un disco strumentale – ci ha risposto Zottino –, e quando abbiamo iniziato a lavorarci avevamo l’esigenza di nominare i file. Così, senza pensarci troppo, abbiamo dato ai pezzi che nascevano titoli provvisori riferiti allo spazio. Ricordo che dopo aver finito i pianeti, eravamo arrivati a titoli scemi come Cratere, Antimateria o Black Hole. Poi, come accade, ci si affeziona e un paio di loro si sono incollati così bene ai relativi mood che li abbiamo tenuti. Venus e Andromeda infatti sono perfetti così!”

Proprio Venus e Vesper, tra i molti brani del disco, si distinguono per la loro struttura che va molto al di là della semplice definizione di disco music elettronica. Come per le altre composizioni sono stati usati dei campionamenti tratti da composizioni altrui.

“Nei nostri brani – spiega Beggio – i campioni non sono strutturali, il nostro scopo non è quello di cercare e assemblare materiale già suonato per creare qualcosa di nuovo quanto piuttosto di inserire uno o due sample che interagiscono con il resto delle parti. In alcuni casi, come ad esempio in Drive, Alfa Gt Junior e Take Me Out, il campione è lo spunto di partenza; in altri casi, come ad esempio in Danguard e in Deutsche Disco Republik, i campioni sono stati aggiunti a pezzo compiuto, come sfumatura di colore.”

Ovviamente la domanda che nasce spontanea è quella che riguarda chi possano essere i fruitori di questa produzione, il pubblico delle discoteche o anche un pubblico che ascolta la musica a casa, in cuffia.

“La musica è ispirata alla disco elettronica – è sempre Beggio a parlare –, pensiamo che possa essere apprezzata anche al di fuori delle discoteche e attraversare diverse fasce d’età. Oltre alle suggestioni disco c’è anche un po’ di pop e minimal, il che dovrebbe far apprezzare questa musica anche a chi come me, non ha mai messo piede in una discoteca!”

L’uscita di Discodex Greatest Hits ci consente di provare a tirare le somme sulla scena attuale alla luce delle molte esperienze dei due artisti.

“Difficile dire cosa sia cambiato dai Novanta a oggi – è ora Zottino a parlare –, perché ovviamente anche noi siamo cambiati e a giudicare le cose oggi non hai lo stesso atteggiamento che avevi trent’anni fa. Ma mi piace la scena musicale oggi, per quel che conosco, e mi piace molto l’approccio che i giovani hanno alla musica di adesso e alla musica di una volta: sono sicuramente più aperti e liberi di come lo ero io alla loro età! Per quanto riguarda invece il gestire un progetto musicale, quello che trovo faticoso oggi è la sovrabbondanza di comunicazione: se una volta per suonare in giro ti bastava avere qualche contatto telefonico, ora passi molto più tempo sui profili social e ad adottare varie strategie comunicative. Per uno che vorrebbe occuparsi quasi solo di cose creative, questa comunicazione può risultare molto dispendiosa.”

Differente invece il punto di vista di Beggio, comunque interessante e condivisibile: “I Khalmo potevano permettersi di non confrontarsi con la scena locale per girare i locali e i centri sociali e tornare arricchiti di esperienza umana e musicale. Oggi la scena locale mi sembra (come allora) costituita per lo più da gruppi che orbitano a stretto raggio fra i pochi locali che ci sono in provincia. Inoltre sembra che l’idea di suonare in giro non interessi molte le nuove generazioni come invece interessava le vecchie.”

Discodex vi aspetteranno per il concerto inaugurale – “Greatest Hits release party” il 25 maggio prossimo al Sudwerk di Bolzano.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Delladio e Rossetto: è solo rock’n’roll ma continua a piacerci

Marco Delladio e Matteo Rossetto recentemente hanno dato alle stampe un EP solido di puro rock venato di blues, il cui titolo è Underwater Blues.

Per molti il rock’n’roll (in senso lato) è un genere musicale alla frutta, senza nulla da dire; basti pensare che Sting già nel 1990 o giù di lì lo aveva dichiarato definitivamente morto. Il DJ trentino Agostino Carollo, nello stesso periodo andava predicando che il nuovo rock era diventato la techno. Sono trascorsi trent’anni, eppure il rock’n’roll non accenna a spirare. Altre correnti musicali hanno smesso di esistere e – se non sono proprio morte – sono senz’altro cadute nel dimenticatoio, perdendo smalto e credibilità. Il rock’n’roll no, perché per lì è una questione di spirito; finché ci saranno ragazzi che avranno voglia di imbracciare una chitarra elettrica e rullare sui tamburi, il rock continuerà ad esserci. Chiaramente mancherà lo spirito di ribellione che era stato alla base della sua nascita, ma quello probabilmente si era affievolito già quando Elvis Presley finì sotto le sgrinfie del pessimo colonnello Parker, firmando il contratto con la major RCA.

Due che se ne infischiano totalmente delle dichiarazioni sulla presunta morte del rock’n’roll sono sicuramente Marco Delladio e Matteo Rossetto, distanti anagraficamente circa una generazione, ma vicini nella scelta della musica da suonare. Devoto al verbo rock il primo, fin da quando coi fratelli e altri tre amici aveva dato vita a una cover band dei Rolling Stones, rivelatosi poi talentuoso autore di canzoni pop-rock in anni recenti, più vicino alle sonorità del rock sudista il secondo. I due hanno dato alle stampe nelle scorse settimane un EP solido di puro rock venato di blues. Il sodalizio tra Rossetto e Delladio è di lunga data, Matteo aveva suonato nei due dischi solisti di Marco, fungendo anche da direttore artistico, ora per la prima volta Rossetto diventa primattore o quantomeno appare in copertina alla pari dell’amico e socio. “Non è stato semplice – ci racconta Marco Delladio –, Matteo ha sempre preferito fare il comprimario ed ho dovuto faticare per convincerlo a entrare in prima persona nella nuova denominazione. Ora siamo la Delladio & Rossetto Band, a tutti gli effetti. Lui preferiva stare in secondo piano, così gli ho detto che ero stufo di essere solo io a figurare in cartellone o sulle copertine. È un musicista conosciuto ed apprezzato, era giusto che avesse il meritato riconoscimento: il fatto di stare sempre nelle retrovie era un po’ un autogol. Poi lui è determinante nella fase di arrangiamento delle canzoni. Prendi questo disco, è composto di cinque brani, tre dei quali erano già apparsi nei miei due dischi da solo, ma la veste è cambiata, il blues ha preso il posto del pop-rock originale, il suono si è fatto più americano, e di questo va reso merito a Matteo”.

Ed effettivamente, ascoltando Underwater Blues – questo il titolo dell’EP – la cosa si avverte pienamente. Il brano più riconoscibile è Take Me To The Station, nonostante il ritmo più rallentato: probabilmente i Rolling Stones venderebbero nuovamente l’anima al diavolo per avere un riff ed una canzone così. In altre parti del disco, come l’iniziale You Are Clearly Not A Saint e soprattutto l’unico inedito del disco, We Left Our Troubles Behind, il rock-blues assume caratteristiche degne della miglior scuola sudista. L’unica cover del disco è un brano tradizionale mutuato, guarda caso, dalla versione che ne facevano i Rolling Stones ad inizio carriera. “Per registralo ci siamo recati in uno studio veronese – prosegue Delladio – la band doveva essere quella con cui suoniamo dal vivo, Andreas Marmsoler al basso e Federico Groff alla batteria. Il giorno prima però Andreas ha avuto un imprevisto e, con lo studio prenotato non potevamo permetterci di annullare tutto, così per l’occasione gli è subentrato Flavio Zanon, che ha fatto un ottimo lavoro. Quello che ci interessava era fare un disco live, in studio certo, ma suonato come fosse dal vivo. Avevamo prenotato solo due giornate, e la mattinata della prima è andata via solo per sistemare gli strumenti e fare i suoni, poi abbiamo registrato i cinque brani uno dopo l’altro. Il secondo giorno io ho sovrainciso le parti vocali e Matteo quelle di chitarra solista. Ti assicuro che per fare cinque brani con questa tempistica bisogna davvero pedalare. Doveva essere quasi sempre buona la prima take. E il risultato è quello che alla fine volevamo, una cosa immediata, diretta, senza fronzoli”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Andrea Brillo: la passione di un collezionista dylaniato

Lo scorso 29 marzo, il bolzanino Andrea Brillo ha dato alle stampe un prezioso volume in lingua inglese da lui stesso compilato, risultato di una certosina ricerca relativa alle registrazioni effettuate da Dylan nel suo eremo di Woodstock nel 1967, registrazioni note come Basement Tapes (i nastri della cantina) che costituirono nel 1969 l’ossatura del primo disco illegale della storia del rock, intestato appunto a Dylan.

L’universo che si muove attorno al mondo musicale non comprende solo i musicisti: certo loro sono un po’ il sole della situazione, ma attorno a loro girano altre persone, moltissime: dai fonici di palco, ai tecnici di studio, ai cronisti delle loro gesta, ai fotografi che li ritraggono, ai designer che creano le copertine dei dischi. Non ultimi i collezionisti.

Il bolzanino Andrea Brillo ha cominciato a collezionare Bob Dylan una cinquantina di anni fa più o meno con l’uscita del disco intitolato Planet Waves, rimanendo folgorato irreversibilmente un anno dopo dall’epocale Blood On The Tracks. Da allora ha cominciato a collezionare i dischi del musicista americano andando in cerca non solo di edizioni differenti del medesimo vinile ma dando la caccia anche a tutta quella serie di dischi per così dire clandestini come il whisky che durante il proibizionismo veniva distillato al chiar di luna per essere venduto sottobanco.

E sottobanco venivano venduti anche i dischi in questione, con copertine artigianali ma dal fascino quasi pari a quello del contenuto dei solchi di quei vinili.

Lo scorso 29 marzo, Andrea Brillo ha dato alle stampe un prezioso volume in lingua inglese da lui stesso compilato, risultato di una certosina ricerca relativa alle registrazioni effettuate da Dylan nel suo eremo di Woodstock nel 1967, registrazioni note come Basement Tapes (i nastri della cantina) che costituirono nel 1969 l’ossatura del primo disco illegale della storia del rock, intestato appunto a Dylan.

“Sono quasi cinquant’anni che colleziono Bob Dylan – ci racconta l’autore – e in particolare negli ultimi anni mi sono concentrato sul riascolto delle canzoni che fanno parte di questo monumentale corpus musicale risalente al ritiro di Dylan dalle scene all’indomani dell’incidente motociclistico dell’agosto 1966 in cui qualcuno lo aveva addirittura dato per morto. Si tratta di un mondo affascinante in cui non è né semplice né automatico districarsi. Nel mercato discografico clandestino sono circolati almeno una trentina di bootleg in vinile, ristampati in modo altrettanto illegale, magari anche con lievi cambi di scaletta. Solo l’ascolto attento, l’identificazione di rumori di sottofondo, di brevi interludi parlati più che differenze nell’esecuzione, mi hanno consentito di stabilire di che versione dei brani si trattasse”.

La luce che si accende negli occhi di Andrea Brillo mentre parla del suo lavoro non dev’essere differente da quella che risplendeva negli occhi di Heinrich Schliemann quando scavava in Asia minore in cerca delle rovine di Troia. Lo spirito del collezionista di vinile, nello specifico di un collezionista come Brillo (tout court possessore di una delle più complete raccolte di materiale dal vivo di Dylan e di vinili clandestini dello stesso) non è dissimile dalla passione dell’archeologo.

Oltre a raccogliere i dischi in questione, spesso differenti solo per via di un codice inciso quasi primitivamente laddove finiscono i solchi del vinile, o per via di una minuscola iscrizione o di un timbro sul cartoncino dell’anonimo packaging, il collezionista bolzanino ha raccolto anche tutto quanto gli è stato possibile trovare a livello di letteratura sulla materia. Oltre ai due fondamentali libri dedicati da Greil Marcus e Sid Griffin all’analisi delle liriche spesso non semplici di queste canzoni, c’è anche una lunga serie di articoli apparsi sui giornali e nel web dal 1968 ai giorni nostri.

“Sono particolarmente soddisfatto del lavoro – conclude Brillo – e soprattutto sono orgoglioso dell’introduzione che mi ha scritto Alessandro Carrara, docente all’università di Houston e traduttore in italiano dell’opera omnia di Bob Dylan. Quando mi è stato suggerito di mandargli la mia ricerca non speravo davvero che mi avrebbe scritto un’introduzione così bella!”

Il volume di Andrea Brillo, ampiamente illustrato con riproduzioni a colori delle molteplici versioni dei dischi, delle copertine e delle etichette, è intitolato, Basement Tales (Bob Dylan – The Basement Tapes On Disc 1968-2014) ed è disponibile su tutte le librerie online, da Feltrinelli a Mondadori, fino al classico Amazon. L’autore è contattabile via email all’indirizzo portarossa57@gmail.com

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Feline Melinda:il metallo non smette mai di ruggire

Nella nostra regione abbiamo avuto il metal granguignolesco degli Skanners, ma il metal locale ha avuto tra i suoi alfieri anche gli Still Blind dei fratelli Giovanett e, sempre in Bassa Atesina, i Feline Melinda, tutt’ora vivi e scalcianti col loro heavy rock dai toni più melodici e romantici. È notizia di questi giorni che l’interesse nei loro confronti è tale che una piccola etichetta veneta ha deciso di pubblicare un dieci pollici in vinile con i brani del primo demo inciso da Rob Irbiz e soci.

Cosa determina realmente il successo di un gruppo? Quali sono i fattori che ci permettono di stabilire se la sua musica abbia fatto breccia o meno, se abbia lasciato il segno?

Non sono certo i like su facebook o le visualizzazioni su youtube.

No, quello che ci dà un tangibile riscontro riguardo al fatto che un gruppo ha lasciato una traccia, seppur minima, è il tempo. Solo il tempo.

E il tempo, magari con le sue tempistiche – vi piace il gioco di parole? – la dice senz’altro lunga sul fatto che tra coloro che a distanza di anni sono rimasti nella memoria del pubblico, ci siano i gruppi di heavy metal, quello classico, quello che ha spopolato negli anni ottanta, prima di soccombere all’inserimento di porcherie elettroniche (pensiamo agli orrendi Europe), ai capelli cotonati e, soprattutto, all’arrivo del grunge, che sul finire del decennio fece letteralmente piazza pulita del metallo ruggente e pesante.

Piazza pulita per modo di dire: quelli che lo facevano per moda o per comodità sparirono, ma chi ci credeva, chi dell’heavy metal – che vi piaccia o meno – aveva fatto il suo credo, ha continuato a proseguire per la sua strada. Tanto che nell’ultima ventina d’anni si può dire che, seppur in tono minore rispetto agli anni ottanta, i vecchi protagonisti sono tornati alla ribalta, a suonare con largo seguito, a partecipare a festival e fare dischi.

“Si tratta di un’edizione speciale, a tiratura limitata e numerata – ci racconta con orgoglio Irbiz dei Feline Melinda –, a cura della AUA-Records, che ha dato il via alla collana di dischi Italian Metal Heroes, che per l’occasione ripropone i demotape dei gruppi del periodo 1980-90 su vinile. Praticamente una specie di memoria storica indirizzata a collezionisti e cultori di quel periodo in cui autentici gruppi di pionieri del metal/hard rock italico cominciarono a farsi conoscere e apprezzare. Pochi mezzi e tanta passione che hanno caratterizzato quegli anni in cui l’Italian Metal non veniva preso troppo sul serio oltre i nostri confini.”

Col tempo però quei confini sono crollati e i metallari italiani, Feline Melinda inclusi, si sono fatti apprezzare, dopo il primo demo recuperato sul dieci pollici della AUA-Records il gruppo si recò in Germania per registrare il disco d’esordio, a sua volta oggetto di una ristampa digitale alcuni anni fa su etichetta Mygraveyard.

“Il demotape – prosegue Irbiz – si chiamava Praeludium e lo abbiamo registrato a Ora in un piccolo studio nel 1987, con l’allora line up che comprendeva Helmuth Giovanett alla batteria, Andy De Santis al basso e me alla chitarra e voce. Lo studio era di Erich Dibiasi a Ora, Erich era stato uno degli Anonym, formazione in voga a fine anni settanta nella Bassa e aveva ricavato lo studio nella sua cantina: ci fece il favore di registrare il demo perché era un collega della mia morosa di allora! Quanto all’idea di documentare i primi passi delle band storiche da parte di AUA-Records mi è piaciuta tantissimo, perché solitamente chi ti propone un’operazione di questo tipo ti fa pagare, e non poco. Al Veneto Rock Festival, dove abbiamo suonato l’anno scorso, abbiamo avuto il piacere di conoscere personalmente Luca e lo staff di questa piccola azienda, e posso confermare che ci vorrebbe molta gente in più che fa le cose anche con il cuore e tanta, tanta passione. Non diventeranno mai ricchi con queste operazioni nostalgiche, ma il loro intento è promuovere e mantenere vivo il rock duro made in Italy di allora. Oggi si guarda in primis ai numeri dei like, alle vendite, ai follower. Peccato, perché lo spirito dovrebbe innanzitutto concentrarsi sull’amicizia, la condivisione di una passione, la stima”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale