La repubblica del frastuono: Casanova Republik

Una ventina d’anni fa erano tre studenti delle scuole magistrali che sognavano di fare i musicisti rock, senza una direzione ben precisa se non quella in cui li portava l’istinto, sull’onda della musica metal o punk che ascoltavano. Ora sono indubbiamente tre adulti che hanno deciso di provare a rimettersi in gioco, uno è un DJ, un altro ha optato per la letteratura e il terzo è rimasto in campo musicale come batterista pur essendo più noto come fonico e produttore: hanno scelto il nome di Casanova Republik (il nome che avevano ai loro esordi dicono di non ricordarlo nemmeno più), in omaggio al quartiere in cui due di loro abitano e che ritengono multietnico, a vocazione popolare e internazionale.

“L’idea – ci racconta il bassista e portavoce Andrea Montali – è stata di Alessandro Damian, il nostro batterista, che aveva un credito da riscuotere legato ai contributi per i lavoratori dello spettacolo danneggiati dal covid-19: bisognava però creare un progetto da presentare e lui ha chiesto a David Boscolo e me se volevamo ripartire da quell’ultimo giorno di scuola in cui la nostra band aveva cessato di esistere. David non prendeva in mano la chitarra da allora, io erano almeno dieci che non suonavo il basso ma abbiamo deciso di raccogliere la sfida lanciata da Ale.”

Così i tre ex-ragazzi si sono chiusi in sala prove per vedere cosa sarebbero stati in grado di combinare e una volta realizzato che le idee e il potenziale c’erano, si sono messi a registrare: il risultato è L’ultimo giorno di scuola, un EP interamente strumentale (fatta eccezione per un cameo di Mr. Alex nel brano 7 Up), otto brani in tutto, essenziali, all’insegna di quello che i Casanova Republik (scritto alla tedesca ma rigorosamente pronunciato all’inglese) indicano come il frastuono, nel nome del ricordo di ciò che suonavano nella palestra della scuola quell’ultimo giorno di scuola citato nel titolo che è anche una sorta di breve racconto (non dimentichiamo che Montali è anche scrittore e autore teatrale) che fa da corredo al disco nella sua confezione creata appositamente dal chitarrista. E Frastuono è anche il nome del gatto nero mascotte del gruppo, raffigurato sul retro del digipack con cui il CD è confezionato.

“Casanova Republik – prosegue Montali – va considerato più come un collettivo artistico a trecentosessanta gradi che come una band: ad esempio, quando ci siamo messi al lavoro abbiamo fatto circolare dei demo di quanto stavamo facendo, ci sono stati amici e artisti che ci hanno contattato per offrirsi di prendere parte al nostro lavoro, alla fine è rimasto solo il contributo di Mr. Alex perché le contingenze ci hanno portato a stringere i tempi. Mr. Alex ci ha mandato nel giro di ventiquattrore delle tracce vocali per il brano e ci ha scritto: prendete queste tracce, usatele, campionatele, il pezzo mi esalta. Noi gli abbiamo risposto: Alex, evviva, meraviglia! A lavorare sul brano in sede di mixaggio ci ha poi pensato Fabio Sforza.”

Mr. Alex sarà presente alla presentazione ufficiale del disco il 3 dicembre prossimo al Sudwerk, nel corso di uno spettacolo strutturato in due parti, una col concerto dei Casanova Republik ed una con il DJ set del chitarrista, e ci sono già diverse altre date in cantiere, in via di definizione e conferma. Ma prima del concerto, il 29 ottobre intorno alle 17.30, i tre musicisti incontreranno amici e fan presso il negozio di dischi Rebel Rebel per brindare alla pubblicazione del loro EP; tra l’altro al negozio è dedicata la terza traccia del disco, Disco New/Rebel Rebel, una sorta di dedica all’amico che ha rilevato il negozio la scorsa estate congiunta con l’omaggio allo scomparso Walter Eschgfäller nel cui negozio i tre musicisti spendevano le paghette e poi gli stipendi in cerca di buona musica.

“Non sarà uno showcase – conclude Montali –, però abbiamo lanciato un contest, visto che consideriamo Casanova Republik una comunità, un collettivo: abbiamo invitato la gente a mandarci foto e video col nostro disco, noi sceglieremo quello che ci piace di più e lo premieremo in quest’occasione con un biglietto omaggio per il concerto del Sudwerk.”

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Giovani cantautrici crescono

Lo scorso mese di settembre si è segnalato per le uscite in video/singolo nel giro di pochi giorni di tre giovani cantanti in cerca di affermazione o di riconferma. Se per Waira si tratta di un ritorno a tutto tondo dopo una lunga assenza dalle scene dovuta a problemi alle corde vocali, per Alice Ravagnani è un quasi debutto dopo aver fatto per un po’ pratica con le cover. Per Zelda Mab invece si tratta dell’anticipazione di un nuovo EP a lungo annunciato e ora finalmente alle porte, via Riff Records.

Cominciamo con Waira, al secolo Camilla Cristofoletti, che dopo un debutto folgorante targato ormai 2016 che aveva impressionato critica e pubblico per la sua freschezza, nel 2018 aveva subito una battuta d’arresto: “Le cose stavano andando troppo in fretta – ci racconta dal suo attuale domicilio amburghese –, le attenzioni, il concerto a Londra, l’aver incontrato un sacco di gente… Credo di non aver neppure fatto in tempo a maturare una vera passione per la musica. Guardando indietro è come se alle mie spalle ci fosse un cassetto in cui ho dimenticato troppe cose”.

Pare comunque che ora per Waira sia venuto il tempo di recuperare: il nuovo brano, Jolene (youtu.be/ElXsnclpgcY) è decisamente una bella sorpresa, come lo è il video diretto da Majda Brecelj che ci fa apprezzare la crescita di questa giovane di Salorno. Si tratta di una canzone introspettiva legata al proprio vissuto e, soprattutto, scaturita da  una collaborazione che si auspica possa dare presto ulteriori frutti, quella con Thomas Traversa e Alejandro Zarate in veste di produttori, ma soprattutto amici. “Era da un po’ che Thomas mi proponeva di fare qualcosa insieme – prosegue la cantautrice – ma non l’ho mai preso sul serio, poi l’ultima volta che me lo ha proposto è stato in un periodo in cui avevo ripreso a comporre parecchio, così ho detto sì, mi aspettavo qualcosa di semplice, giusto in amicizia, chitarra acustica e voce, e invece mi sono trovata in un garage adibito a studio, con gli strumenti e le persone che li suonavano. Fino ad allora avevo sempre lavorato con Mattia Mariotti, trovandomi benissimo, ma stavolta è stato differente. Durante le prove ho scritto Jolene che abbiamo poi scelto come singolo. Ecco tutto. La cosa più bella è che per la prima volta mi sono sentita coinvolta nella produzione con potere decisionale, e ora non vediamo l’ora di dare un seguito al progetto, ci sono altre cose già pronte che aspettano solo di essere finite”.

Mattia Mariotti, produttore del primo EP di Waira lo è anche  del secondo singolo (nonché l’autore del video)di Alice Ravagnani, On My Way (youtu.be/mD9MN9cil_g), su youtube dallo scorso 5 settembre. Si tratta di una dichiarazione d’amore alla musica con un brano decisamente orecchiabile spinto da un refrain molto orecchiabile, con un arrangiamento essenziale tutto giocato sul mettere in evidenza la voce di Alice, ma non si può fare a meno di applaudire agli irrinunciabili cori ad opera di Monika Callegaro, che proprio lo scorso anno, in questo periodo, aveva a sua volta pubblicato in un delizioso EP con un brano analogo (MK), anche lei sotto la produzione di Mariotti.

“Con On my way – spiega Alice Ravagnani – ho voluto un po’ raccontare la storia d’amore tra me e la musica. Storia che dura da sempre e che, come ogni love story degna di nota, ha avuto molti alti e bassi. Ma forse rappresenta anche la relazione con me stessa. Mi sono però resa conto dell’impossibilità di scappare realmente da questi momenti, perché alla fine ritornano sempre, soprattutto le sensazioni, a volte negative, che nel cantare salivano a galla. Avevo talmente paura di sentirmi vulnerabile, che ero arrivata a smettere di cantare del tutto e quei due anni sono stati penso i peggiori della mia vita”.

Concludiamo con Facile preda (youtu.be/s2R3O82emxw), il nuovo singolo di Zelda Mab, che solo nei primi tre giorni ha avuto quasi tremila visualizzazioni: il brano precede l’EP Elettricità, atteso per il 28 ottobre prossimo e su cui avremo modo di tornare. Rispetto alle sue colleghe di cui ci siamo appena occupati, Zelda Mab, paga il dazio di cantare in italiano che con la metrica poco aiuta. Lanciato da un video molto d’effetto che conta sulla partecipazione di un inatteso Giulio Todaro (già sparring partner del mitico Macao in anni lontani), Facile preda ci è parso ripetitivo e non ha convinto del tutto. Ma ne riparleremo col disco in mano.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Un gradito ritorno: i misteri di Scandalo e Redenzione

Da qualche settimana ha fatto a sua comparsa in rete sotto forma di download gratuito il nuovo disco di un duo particolarmente underground, nato da ben due costole dei famigerati Klakson, band bolzanina dalle molteplici potenzialità e dalla genialità mai sufficientemente decantata, nonostante negli anni novanta abbiano ricevuto apprezzamenti sulla stampa nazionale di serie A, approdando persino sulle pagine di una nota rivista musicale americana.

Due costole, si diceva, visto che Scandalo e Redenzione altro non sono che BG e PS (non necessariamente in quest’ordine). 

Postcards of The Hangin’ – che come tradizione del gruppo madre ruba il titolo al verso di una canzone di Bob Dylan – è un piccolo delizioso affresco di musica acustica composto quasi nella sua totalità di brani firmati da PS nel suo inconfondibile stile ben radicato nelle molteplici forme della musica d’oltreoceano che Scandalo e Redenzione hanno ben masticato, assaporato, deglutito e digerito, tanto che i brani di questo disco potrebbero provenire benissimo da una produzione d’oltreoceano.

“Le varie influenze del genere Americana – ci racconta PS, che abbiamo raggiunto telematicamente nel suo eremo di Notthingham, la poco ridente città britannica in cui risiede da una ventina d’anni – sono ben evidenti in Postcards Of The Hangin’, come d’altronde erano evidenti in molti dei pezzi con i Klakson: bluegrass, outlaw country, tex mex. E quindi tutta la tradizione della frontiera, che ci tiriamo dietro almeno dai tempi in cui abbiamo registrato Cinco de Mayo, a fine anni ottanta.” 

Comunque, a parte la matrice borderline, nel disco non vanno dimenticati pezzi come Day After Day, Head in the Clouds, o When I Am Done With Working, perché non si tratta solo di occasionali omaggi al genere di una volta, addirittura quasi dei primi inizi, ma anche di prospettive diverse a tutto quello che sta loro attorno. Se esistono western swing o Seldom Scene (band bluegrass particolarmente cara al PS, n.d.r.), per dire, è solo perché, in quel momento, erano tasselli di quello che qualcuno, probabilmente uno di noi, ha definito stile Klakson.”

A differenziare un disco come questo dai tanti di genere che circolano sulle due sponde dell’Oceano Atlantico è poi la particolare poetica di PS, assolutamente caratteristica e spesso illuminata da rime genialmente inarrivabili, “You’re eating enchilada, I say niente, You say nada, it’s all about tostada and guacamole, I drive the autostrada while you’re talkin’ yadda yadda, I cry inside and I’m looking for ravioli” cantano i nostri in All the Way To Yucatan, svelando così uno sense of humor degno del miglior Frank Zappa sposato con sapienza alla musica della frontiera.

“Le sortite di Scandalo e Redenzione – prosegue PS – si sono fatte più frequenti, anche se non ci siamo mai esibiti in pubblico con questo nome, da quando Matita, il chitarrista dei Klakson, si è trasferito in Val di Non. Solitamente Scandalo e Redenzione facevano cover e infatti c’è un omaggio inconscio a questa vena nelle tre bonus track poste alla fine del disco, anche se in due casi si tratta di cover dei Klakson. Comunque, dopo la trasformazione del chitarrista Matita in gnomo della Val di Non, Scandalo e Redenzione sono rimasti l’unico sbocco per la creatività sia di Scandalo che di Redenzione, anche se, è giusto dirlo nessuno sa chi, tra me e BG sia Scandalo e chi Redenzione. Io vorrei che, come nella storia di Spartacus, ciascuno dei nostri ascoltatori si alzasse in piedi dichiarando: ‘Io sono Scandalo, io sono Redenzione!’ Perché il linguaggio sarà anche la casa dell’essere, ma il linciaggio (evidente il riferimento al titolo del disco, n.d.r.) è lo sgabuzzino del malessere.”

Nonostante l’uso di qualche aiutino tecnologico, per altro mai invadente o eccessivo, Postcards Of The Hangin’ si fa apprezzare per i suoni acustici cristallini che PS può sviscerare mentre BG lo sostiene con la sua acustica ritmica che suona come una batteria: “Ci sono chitarre e anche un mandolino – spiega PS –. Ho suonato un paio di chitarre economiche, inclusa una affidabilissima Squier Telecaster da circa 100 euro. Ma la mia preferita è stata una Ibanez acustica, anche quella economicissima alla quale poi ho limato molto a caso il ponte.” Il disco è scaricabile all’indirizzo web:
stefanopredelli.wixsite.com/klakson

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Un pugno di colonne sonore per la Merano Pop Symphony Orchestra

A Ferragosto la Merano Pop Symphony Orchestra ha presentato nella sua città d’elezione con un concerto in piazza delle Terme un gradevole disco intitolato Fratello Sole Sorella Luna, dedicato alle colonne sonore e incentrato soprattutto sull’opera di due assoluti protagonisti del commento sonoro per film, due italiani, tra i più importanti in questo settore: Riz Ortolani e Ennio Morricone.

Nata otto anni fa nella città del Passirio per iniziativa di un gruppo di musicisti appassionati – se non tutti titolati a tutti gli effetti, tutti comunque di talento e preparati – la Merano Pop Symphony Orchestra si è costruita uno spazio ed una credibilità non da poco, esibendosi con successo al fianco di autentici big del mondo musicale (pensiamo a Dodi Battaglia, tanto per dirne uno che tutti conoscono) e coniugando con gusto l’essere un’orchestra d’impostazione classica con un repertorio di natura pop che passa con disinvoltura dai Beatles, ai canti natalizi, ai Queen.
Lo scorso 15 agosto, la Merano Pop Symphony Orchestra (MOPS, da qui in poi) ha presentato nella sua città d’elezione con un concerto in piazza delle Terme un gradevole disco intitolato Fratello Sole Sorella Luna, dedicato alle colonne sonore e incentrato soprattutto sull’opera di due assoluti protagonisti del commento sonoro per film, due italiani, tra i più importanti in questo settore: Riz Ortolani e Ennio Morricone.
“Tenere insieme una formazione di settanta elementi – ci confida il direttore d’orchestra Roberto Federico – è un lavoro molto impegnativo, ma ricco di soddisfazione. I riscontri sono sempre crescenti e prima del rapporto professionale, tra noi c’è un rapporto di stima e amicizia. Ogni volta che abbiamo occasione di ritrovarci è una festa. Riguardo al disco, la casa discografica Azzurra Music ci aveva contattati prima del lockdown: erano a conoscenza del nostro lavoro in quanto sono loro a pubblicare i dischi di Dodi Battaglia e ci hanno chiesto se volessimo interpretare un CD di colonne sonore. Le registrazioni avremmo dovuto farle proprio l’otto marzo, il giorno in cui hanno chiuso tutto nel 2020, ma il discorso è rimasto aperto e, avendo in programma un concerto al Teatro Puccini in gran parte incentrato sui brani pensati per quel disco in sospeso, la scorsa primavera abbiamo deciso che fosse la volta buona per registralo”.
Il risultato è un prodotto fresco e fruibile per il quale Roberto Federico e Francesco Brazzo hanno adattato e arrangiato una serie di composizioni, talune molto conosciute, talaltre meno: in apertura ci sono tre classici moderni come il tema di Pirati dei Caraibi, quello composto da John Barry per il film La mia Africa e la Bond song cantata da Adele per Skyfall, con tanto di citazione del tema originale del primo film con James Bond protagonista.
“La scelta di questi brani – prosegue Federico – è ben precisa, Out of Africa ad esempio, è strettamente collegata al fatto che noi abbiamo in corso un progetto dedicato ad alcune popolazioni di quel continente. Ci tengo a sottolineare che tutto il nostro lavoro è gratuito, nessuno di noi viene pagato e gli incassi dei nostri concerti, al netto delle spese, sono devoluti in beneficenza. L’aver voluto includere Morricone può sembrare un’opzione scontata ora che tutti lo omaggiano all’indomani della sua scomparsa, ma noi lo avevamo in repertorio anche prima e la sua grandezza non si mette in discussione. Per Ortolani la cosa è andata diversamente, di lui conoscevo solo la celebre Dolce sentire, che qui non solo abbiamo ripreso ma abbiamo voluto intitolare il disco proprio come il film da cui il brano è tratto. Avendo deciso di approfondire il discorso su questo compositore sono entrato in contatto coi suoi figli, che mi hanno fatto conoscere molta musica di cui ero all’oscuro e si è sviluppata così l’idea di un ulteriore omaggio a questo artista che vedrà la luce nel 2024 in occasione del decennale della sua scomparsa”.
Dal celebre documentario Mondo cane, la MOPS esegue nel disco il brano Oh My Love affidato alle corde vocali della solista Roberta Manzini, c’è poi il tema di un vecchio film di mafia intitolato I Consigliori, che Federico ha arrangiato sostituendo l’armonica con la tromba di Karl Hanspeter, mentre a Monica Moro è affidata la parte di clarinetto di Fantasma d’amore, che nell’originale era suonata nientemeno che da Benny Goodman.
Nell’imminente futuro, la MOPS sarà di nuovo sul palco a Merano il prossimo 15 ottobre mentre a Bolzano, al Teatro Cristallo, il 29 dello stesso mese andrà in scena un omaggio al repertorio di Fabrizio De André con le canzoni arrangiate in chiave sinfonica e la voce ospite di Andrea Maffei.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Bello, di nome e di fatto: il nuovo disco di Herbert Pixner

Schïan! è la trascrizione della pronuncia in dialetto sudtirolese della parola tedesca schön, che vuol poi dire bello. E bello, è quello che si sono detti Herbert Pixner e i suoi compari (Manuel Randi, Heidi Pixner e Werner Unterlercher) dopo aver ascoltato il risultato delle registrazioni che hanno dato luogo a questo tredicesimo disco del gruppo, nato come Trio ed evolutosi in Projekt quando una decina di anni fa ne è entrato a far parte Randi.

Negli anni la proposta musicale del fisarmonicista Herbert Pixner si è molto evoluta, osando, battendo nuovi territori, dando sempre maggior spazio alla chitarra elettrica solidamente impiantata su una base acustica in cui non c’è mai una virgola fuori posto. Il disco di studio precedente (Lost Elysion) aveva visto una netta virata verso un sound a tratti sperimentale, quasi psichedelico. Schïan! non è da meno, è più incentrato sul formato canzone (anche se trattandosi di brani strumentali il termine è inesatto) mentre il predecessore era un concept basato su composizioni più d’ampio respiro. Ed è coraggioso perché non vi è nessun richiamo preciso alla musica popolare della nostra regione o dell’arco alpino germanofono da cui Pixner ha cominciato a costruire la propria fortuna artistica.
“Il nostro pubblico – ci racconta il fisarmonicista – si è abituato a questo nostro spaziare e sperimentare, mescolando le carte. Anzi, dirò di più, chi ci segue sembra apprezzare parecchio, la gente non viene ai nostri concerti per ascoltare sempre la stessa cosa, abbiamo un pubblico davvero aperto alle novità. Per questo Schïan! riprende il fatto di usare molto la chitarra elettrica, ma in modo differente, e in alcuni brani abbiamo voluto provare a vedere come si sarebbe inserito un pianoforte a coda nella nostra musica, per questo abbiamo coinvolto Alex Trebo e il risultato ora è alla portata delle orecchie di tutti, nel disco. Lo avevamo ospitato nel tour dell’anno scorso, quando Alex si è unito a noi per alcuni concerti, ma il disco rende particolarmente onore al suo lavoro e per il 2024 (tanto per dare l’idea degli impegni a lunga scadenza di questi artisti, n.d.r) speriamo di fare un tour come quintetto”.
Il risultato è davvero eccellente, Schïan! mette sul piatto suoni suggestivi, si fa ascoltare dall’inizio alla fine stupendo, passando da brani introspettivi, come il preludio iniziale, al tango di Tango n° 5, passando per il blues di Lörget Blues (che cita John Lee Hooker e gli ZZ Top), fino alla musica gitana e al calypso finale di Schallalalala, con coro di bambini e cla batteria di Mario Punzi.
Unterlercher è sempre ottimo, sia col contrabbasso che col basso elettrico, Pixner passa dalla fisarmonica all’organetto diatonico, ai fiati, a seconda della bisogna e l’interplay tra la Stratocaster di Randi (che si esibisce anche con chitarra manouche e flamenco nonché nella splendida Poppy al mandolino) e l’arpa di Heidi Pixner ha un che di magico.
“Quando abbiamo cominciato come trio – spiega Pixner – l’arpa aveva un ruolo prevalentemente percussivo; con le nuove composizioni Hedi è molto più libera di fare dei suoni più aperti rispetto ai valzer e alle composizioni gipsy”.
Lo scorso 28 luglio il gruppo si è imbarcato in un lunghissimo tour che terminerà a Vienna il 27 novembre, con molte date sold out, tre sole in regione (28/9 a Plan de Corones, 26 e 27/10 al Kursaal di Merano), segno che dopo la pausa imposta dal Covid 19 Pixner e soci hanno ripreso a girare alla grande, con un bel calendario concertistico anche per l’anno venturo.
“Gli ultimi due anni e mezzo – prosegue Herbert – hanno visto bloccarsi tutto, abbiamo dovuto annullare interi tour, nel 2021 qualcosa abbiamo fatto, ma è stato un tour sotto continua pressione, spostarsi da uno stato all’altro, da una città all’altra vuol dire incontrare ogni volta un differente tipo di provvedimenti in materia pandemica. Il fatto che ci fosse l’incognita virus a condizionarci ci ha portato via molta energia, bastava solo un bambino di ritorno dall’asilo positivo per dover annullare una data e stare fermi dieci giorni. Non è stato proprio un bel tour quello, per questo quest’anno ci siamo buttati a capofitto nel nuovo progetto, per la gioia di essere di nuovo insieme sul palco, senza pressioni, per poter incontrare di nuovo il nostro pubblico. Per questo ho voluto chiudere il disco con Sciallalalala, un brano festoso, gioioso, con ritmi caraibici; ad un certo punto del brano sembra di aprire una porta e trovarsi ad una festa, tutto il disco è un invito ad aprire quella porta e ad uscire”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Piero Messina #2: l’arrivo alla corte dei Van Der Graaf Generator

Nello scorso numero abbiamo lasciato il ventenne Piero Messina negli studi milanesi della Numero Uno in qualità di chitarrista dei veronesi Alpha Centauri: “Il gruppo era una meraviglia – ci racconta il musicista – l’etichetta lo voleva assolutamente, ma aveva imposto che avessero un chitarrista e che se non ci avessero pensato loro gliene avrebbero imposto uno d’ufficio. Io ero giunto a Verona da poco e fui invitato per un provino: secondo me erano già perfetti senza chitarra, ma tant’è, fui presto a bordo e per un po’ quella è stata la mia vita”.
Lavorare per la casa discografica di Battisti e Mogol, voleva dire avere a che fare con gente come Bruno Lauzi, Sandro Colombini, lo stesso Battisti, nomi che parlano da sé; gli Alpha Centauri (il nome era stato imposto dall’etichetta) divennero, con la Formula Tre, il nome di punta dell’etichetta per la sezione complessi, e si dice che se non si fossero sciolti sarebbero stati anche meglio dei loro compari di scuderia.
“Ci fecero registrare due brani per un singolo – prosegue Messina –: la versione di un brano dei Fruitgum Company, che avevano da poco sfondato in classifica con Simon Says, e una ben più consistente versione in italiano di un brano di Cliff Richard e Hank Marvin (voce e chitarra degli Shadows, n.d.r.). Registrammo tutto in appena tre ore, perché lo studio pur essendo di proprietà dell’etichetta per mantenersi aveva bisogno di lavorare anche per altri e quindi agli artisti di casa rimanevano delle tempistiche molto ridotte. Lavoravamo molto sugli impasti vocali, il tastierista era un fenomeno e per un anno abbiamo suonato nello stesso giro della Formula Tre”.
Narra la leggenda che nel singolo del gruppo, Dai treno dai / Immagine bianca, abbia suonato la chitarra acustica lo stesso Battisti, ma se così è il suo strumento è parecchio sepolto nella registrazione. Il disco è divenuto oggi oggetto da collezione, venduto in certi casi a quasi duecento euro. La fine del gruppo fu decretata dalla decisione del tastierista di mollare per frequentare il quarto anno di composizione al conservatorio. Nel frattempo Piero Messina aveva continuato a frequentare alcuni amici bolzanini, in primis Giancarlo Bertoni, colui che gli ha fatto conoscere dischi bellissimi e lo ha introdotto, tra l’altro, alla musica dei Van Der Graaf Generator, formazione di prog rock assai in auge all’epoca, con particolare seguito in Italia pari se non maggiore di quello dei coevi Genesis.
“I Van Der Graaf – ricorda Messina – vennero a suonare al Lem di Verona, un locale col palco basso che permetteva di stare a poca distanza da chi suonava: a fine concerto presi il coraggio di andare dietro le quinte per parlare con loro. È stato così che ho fatto amicizia col sassofonista David Jackson, cominciammo a scambiarci per posta cassette su cui entrambi registravamo le cose che stavamo facendo. Pochi mesi dopo tornarono al Lem e coinvolsi anche Giancarlo, che mi aveva introdotto alla loro musica, così dopo il concerto trascorremmo la nottata con alcuni di loro in giro per la città”.
I Van Der Graaf erano allora allo scadere del loro contratto con la Charisma e venne fuori l’idea di fare qualcosa insieme, in un primo tempo addirittura il brano di Piero Fairhazel Gardens avrebbe dovuto essere cantato da Peter Hammill, ma questi decise a breve di fare il solista così la collaborazione fu tra Messina e gli altri componenti del gruppo. “I Van Der Graaf e la loro musica – prosegue a raccontare – sfuggivano ogni possibile etichettatura, erano musicisti fenomenali; ci siamo ritrovati in una fattoria sperduta nel Galles in cui fu allestito lo studio mobile della Polydor. Il banco era in cucina, in una stanza suonava il batterista Guy Evans, in un’altra suonava Jackson, io al piano di sopra, tutti con lunghissimi cavi per le cuffie suonando tutto in diretta. Le finestre e le porte erano coperte di materassi per attutire i rumori esterni… Una cosa che non è mai stata detta è che Giancarlo è stato determinante in senso assoluto per la realizzazione del disco (uscito su United Artits col titolo di The Long Hello, e con disegno del bolzanino Paolo Paglia in copertina n.d.r.) visto che si è occupato della produzione esecutiva e del budget lasciando a noi la parte artistica. Ricordo che la moglie di David cucinava per noi nello chalet di fianco alla fattoria e per tarare i volumi e fare un po’ di riscaldamento il primo giorno abbiamo suonato brani degli Shadows. Sono stati anni bellissimi ed esperienze molto importanti, quello che rimane sono i bei ricordi. L’anno prossimo saranno cinquant’anni giusti, giusti…”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Piero Messina #1: dai banchi del Carducci agli studi della Numero Uno

Quello di Piero Messina è un nome che chi ha frequentato il mondo delle sette note bolzanino nella seconda metà degli anni sessanta, abbina a ricordi fantastici, citandolo senza esitazione come uno dei nomi leggendari (la definizione è tutt’altro che fuori luogo come avremo modo di scoprire) della sei corde. Messina, oggi docente di chitarra e composizione di stanza a Verona, è stato uno dei cosiddetti bolzanini di transizione, come spesso accadeva a quei tempi, che giunto a Bolzano con la famiglia da teenager vi ha abitato fino al temine degli studi superiori, vale a dire in un’età molto importante dal punto di vista formativo e delle amicizie. Essere un teenager appassionato di musica negli anni sessanta era poi un’esperienza topica.

“Sono stati anni fantastici – ci racconta Messina – in cui ci si trovava ad ascoltare le ultime novità discografiche a casa degli amici che compravano i dischi e si andava ai concerti per rubare ad altri trucchi e segreti su come fare un accordo o come suonare un determinato passaggio. Se si voleva suonare musica leggera, come si diceva allora, bisognava imparare l’arte di arrangiarsi. Avevo comprato un registratore e mi registravo la canzone continuando ad ascoltare e riavvolgere brevemente per trovare la nota e la tonalità esatte senza perdere un passaggio.”
Tra le prime frequentazioni musicali di Piero ci fu Carlo Domeniconi, figlio dell’allora direttore della Biblioteca Civica, poco interessato alle discipline classiche e futuro concertista e compositore in ambito jazz contemporaneo.
“Domeniconi – prosegue Messina nel suo racconto –, abbandonò le superiori appena gli fu possibile e andò a vivere di musica a Berlino. Ma per i mesi che siamo stati in classe insieme, ho avuto modo di suonare con lui e imparare. Tra le amicizie importanti, fu però fondamentale l’incontro con Giancarlo Bertoni: lui frequentava lo scientifico e mi portò nei Sound System, il gruppo in cui suonava. Sempre lui aveva una collezione di dischi incredibile che mi permise di conoscere artisti a me sconosciuti. Quando a Giancarlo fu proposto di sostituire Luciano Casagrande negli We, mi portò con sé: a quell’epoca, il gruppo era composto da Memo Emeri, cantante, da Gilberto Gabrielli al basso, Sergio Nervo alla chitarra d’accompagnamento, Giancarlo e me.”
Gli We, sia con la formazione precedente che con questa sono stati uno dei nomi di punta della Bolzano post beat, proprio grazie all’inarrivabile voce di Memo e alla chitarra di Piero, che ricorda: “Fummo chiamati alla Rai locale per registrare alcuni brani nel loro auditorio: c’erano i tecnici in camice bianco, come dei medici. Io avevo un distorsore, così avvertii un tecnico di tenere presente che ci sarebbe stato un suono particolare ad un certo punto. Per gli standard degli studi Rai di allora era una cosa non contemplata e quando l’ho usato, il tecnico, allarmato, è corso a dirci di stare attenti perché c’era uno strumento che distorceva! Eppure si chiama distorsore…”
Questa formazione degli We durò fino alla maturità, nel 1968, i ragazzi avevano una qualche idea che la loro storia potesse essere giunta al capolinea visto che dopo gli esami ciascuno avrebbe intrapreso strade diverse, ma fu il bassista Gil Gabrielli a prendere la palla al balzo e a comunicarlo sia ai compagni di band che ai loro fan: durante un’esibizione al vecchio cinema Augusteo (dove ora sorge l’Auditorium dell’orchestra Haydn) durante l’esecuzione dell’ultimo brano, Mean Woman Blues nella versione dello Spencer Davis Group, si avvicinò al microfono e disse: «Questo è il nostro ultimo concerto».
A questo punto, mentre a Bolzano gli We continuarono ad esistere in una nuova versione guidata da Memo e dal congedato Casagrande, Piero Messina si unì agli ex Tornados, un gruppo veronese del periodo beat, che stava per essere assoldato dalla Numero Uno, la casa discografica fondata da Lucio Battisti, e aveva avuto il diktat di trovarsi un chitarrista: Messina che aveva seguito il trasferimento della famiglia a Verona al termine delle superiori finì col fare un’audizione con loro venendo arruolato seduta stante nella band che prese il nome di Alpha Centauri.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Peter Burchia: guardare indietro con la prospettiva di andare avanti

Un evento intimo, meno di dieci persone tra amici e addetti ai lavori, così il poliedrico Peter Burchia ha presentato il suo primo disco da solista, nella cabina di regia del suo studio atelier, un ascolto privilegiato sul piatto di un vecchio giradischi, come una volta, quando a casa degli amici si ascoltava il nuovo ellepì di questo o di quell’artista, per condividere prime impressioni e sensazioni.

Peter Burchia non è un novellino, è noto per essere uno degli Shanti Powa, per aver fatto parte dei Color Colectif e, perché no, anche per il suo essere un busker che non disdegna (anzi!) di suonare agli angoli delle strade.
Look Back, questo il titolo del lavoro solista, è frutto di una selezione tra molte canzoni scritte da Burchia negli ultimi anni, canzoni suonate e risuonate nelle situazioni più disparate che non avevano però trovato spazio fisico su un supporto e che lui non voleva assolutamente andassero perdute: uno sguardo al passato per potersi poi dedicare al futuro senza correre il rischio che il passato passi in cavalleria.
“Negli ultimi dieci anni ho scritto davvero molte canzoni – ci racconta tra l’ascolto del primo e del secondo lato del disco –, e le ho spesso cantate nei concerti, ma non le avevo mai registrate. Rischiavano di finire nel dimenticatoio per fare spazio a nuove idee, a nuovi brani. Così ho deciso che era venuto il momento di fermarle. Ma dovevo farlo in un modo che mi fosse congegnale, naturale, dovevo essere attrezzato in ogni momento per non perdere la scintilla, così ho cominciato a pensarmi il disco, la scaletta, i suoni. La cosa principale è che tutto doveva essere essenziale, senza troppi artifici. Così ne ho parlato con Jürgen Winkler, ci siamo sondati a vicenda per capire se c’era il feeling giusto, poi lui ha installato un po’ di apparecchiature nel mio atelier in modo che quando ci fosse stata l’ispirazione, giorno o notte che fosse, mi bastasse schiacciare un pulsante per registrarmi. Avevamo considerato l’idea di usare come studio la cabina di regia, ma poi è stato naturale dirottarsi sullo spazio dove dipingo, lì è il mio habitat, il posto in cui mi trovo in assoluto più a mio agio.”
Ci sono voluti cinque mesi, ma ora, ascoltato e riascoltato il disco ha dell’incredibile, un vinile (ma in formato digitale è sulle classiche piattaforme) dal sapore antico ma fresco, incredibilmente contemporaneo. Burchia e Winkler sono riusciti ad assemblare un piccolo miracolo, un disco senza trucchi in cui i brani sono suonati dall’inizio alla fine, e le poche sopraincisioni sono integralmente dal vivo, niente copia e incolla, niente loop, niente inganni. Non sono moltissimi i musicisti che sanno già come un brano debba suonare prima ancora di cominciare a registrarlo, ne conosciamo qualcuno, e Burchia è uno di questi. La sua voce ne esce ottimamente, una voce ricca di colori, sfumature, umori, senza bisogno di autotuner e altre diavolerie.
Jürgen Winkler, architetto e musicista (è il chitarrista degli eclettici Eseleptitun) si è occupato di trovare i microfoni giusti: “Peter – ci dice – aveva le idee molto chiare su quello e il disco lo abbiamo fatto nel rispetto di queste idee, la voce avanti rispetto agli strumenti, e gli strumenti che si possono ascoltare in maniera distinta ma al tempo stesso compatta. È tutta farina del suo sacco, prima ha fatto i take con chitarra acustica e voce, tutto d’un fiato, poi le altre chitarre, acustiche o elettriche, io mi sono limitato al basso e all’organo, sempre in accordo con lui, e a dare qualche consiglio sulla take da scegliere.”
Il risultato è un disco con sonorità elettroacustiche che talvolta riconducono ai dischi Nick Drake, senza quella coltre di pessimismo e malinconia che è il marchio di fabbrica del songwriter britannico, ci sono richiami agli anni settanta, ma nel contempo citazioni ragamuffin fanno più che capolino in Those Days of Love, in cui la vena del Burchia cantautore si miscela con i suoi trascorsi negli Shanti Powa, complice il compare Berise nella stesura del rap. Unica ospite del disco (oltre al coproduttore Winkler) è Nina Duschek, busker meranese la cui voce si mescola perfettamente e senza esagerare con quella del titolare nel brano Things To Change; tra gli altri titoli da tenere presenti anche Black Countryside e The Wind, oltre al brano d’apertura Walking Threw e alla title track in chiusura, entrambi rigorosamente in versione acustica: “Una cosa su cui non ho mai avuto dubbi – conclude Burchia – è che il disco dovesse cominciare e finire senza null’altro che la mia voce e la mia chitarra acustica”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

The Sound: i ricordi beat di Fausto Manfrini

In questo numero facciamo un salto nel tempo di quasi sessant’anni, scandagliando nella memoria di Fausto Manfrini, un bolzanino che negli anni ‘60 fece parte della prima scena rock cittadina.

Tutto, come per una folta generazione di giovani musicisti sparsi per il mondo, cominciò con l’uscita del 45 giri Please Please Me: era il febbraio 1963 e il bolzanino Fausto Manfrini si trovava in collegio a Domodossola. A Natale la nonna gli regalò una chitarra, un suo compagno di scuola ricevette il disco dei Beatles e per il resto dell’anno scolastico è facile immaginare cosa sia successo. La Bolzano del 1965 in cui Fausto tornò, aveva una scena musicale in grande fermento, c’erano i festival studenteschi e c’erano le serate a Villa Boscoverde e quelle sui palchi più ambiti di cinema e piccoli teatri. Non gli ci volle molto per entrare in contatto con altri coetanei desiderosi di mettere insieme un complesso con cui divertirsi, facendo divertire il pubblico. “Giancarlo Bertoni – racconta Manfrini – frequentava il liceo scientifico come me ma era più giovane, lui suonava la batteria mentre io avevo cominciato a dedicarmi al basso; un giorno mi propose di formare un gruppo con un tizio che stava cercando musicisti. Il tizio era Franco Mugliari, che si portò un chitarrista solista di nome Antonio Falezza, un autentico genio che frequentava l’ITI e si era progettato e costruito un dispositivo per ottenere l’effetto di un distorsore. A questo punto i Sound erano nati. Ci mancava una sala prove, però, e i condomini della casa in cui abitava la mia famiglia storsero il naso quando tentammo di provare in cantina”.

A trarre d’impaccio la neonata formazione, arrivò Carlo Allitto Bonanno, coetaneo appassionato di musica, che offrì ai Sound la cantina di via Fago, dove abitava la sua famiglia. Bonanno poi, era in grado di dare agli amici delle belle dritte riguardo alla pronuncia del repertorio in inglese.

“Quello che suonavamo – racconta Manfrini – era un misto tra quel che si ascoltava in quel periodo, c’era il beat italiano dei Rokes e dell’Equipe 84, soprattutto tanto materiale dei Beatles, che cantava Franco, e tanto dei Rolling Stones, che cantavo io. I Rolling Stones erano i miei preferiti, anche se suonavo un basso Hofner come quello di Paul McCartney. Trovare degli ingaggi era fondamentale per poterci comprare strumenti e attrezzature. Era Franco a fungere un po’ anche da nostro manager”.

Grazie all’intraprendenza del giovane Mugliari, i Sound finirono per esibirsi sul palco del cinema Corso come spalla dell’Equipe 84 e dei Rokes (con Full, Dedy Cemm e Satellites) e la notte di capo d’anno all’Hotel Osvaldo a Selva di Val Gardena, guadagnando l’ingaggio stagionale presso un’altra struttura alberghiera, per l’estate 1966. Memorabile anche la partecipazione al festival beat di Merano, vinto dai Dedy Cemm: i Sound riscossero però un buon successo, la sede RAI locale filmò un passaggio della loro performance, trasmessa anche a livello nazionale, ma purtroppo quel frammento televisivo è andato perduto.

Su input di Mugliari, che conosceva una magliaia in Via della Roggia, i Sound ad un certo punto adottarono come divisa – un must per i complessini beat – una giacca turchese dai bordi neri con le iniziali del componente del gruppo ricamate sul taschino basso. “Nel 1967 – conclude Manfrini – Franco decise di percorrere altre strade musicali e noi, su suggerimento di Giancarlo, al suo posto arruolammo Piero Messina, dotato chitarrista con tanto di studi di chitarra classica. Da un po’ avevamo anche mutato il nome in Sound System, ma nella primavera del 1967 la storia del nostro gruppo finì, complici gli esami di maturità imminenti e l’abbandono di Giancarlo, rubatoci dagli We, per sostituire Luciano Casagrande partito per il servizio militare. Piero seguì Giancarlo nel nuovo gruppo e negli anni ‘70 suonò addirittura in un disco degli ex Van Der Graaf Generator. Io misi insieme un gruppo con ragazzi di tutte le classi e al festival studentesco vincemmo con un adattamento di Vecchio Scarpone sulla musica di The Under Assistant West Coast Promotion Man, una canzone dei Rolling Stones!”.

Nardo dee, rap e schiettezza

Dai primi giorni di maggio è online su tutte le piattaforme digitali il nuovo disco di Nardo Dee, al secolo Davide Nardella, uno dei nomi di punta della scena hip hop bolzanina e regionale: un nuovo disco in cui il giovane musicista si toglie diversi sassolini dalle scarpe, quasi fosse un modo per sentirsi meglio, e difatti il disco s’intitola significativamente Meglio di prima, che è anche il titolo del cliccatissimo brano già uscito come singolo che sembra essere la risposta allo skit (breve introduzione parlata, in gergo rap) che apre il disco col titolo di Chiedimi come sto.

Nardo Dee, pur avendo poco più di trent’anni si considera un fuori quota in un mondo musicale in continua evoluzione, distante allo stesso modo da rapper e trapper di nuova generazione così come lo è da certi personaggi suoi contemporanei.
“Il riferimento – ci racconta – è a certe figure del mondo hip hop che mi hanno sempre snobbato e che sembrava non vivessero per altro che per il rap, personaggi che poi da un giorno all’altro sono scomparsi dalla scena quando fino al giorno prima pareva fosse per loro un credo fondamentale. Come chi smette di andare in palestra da un giorno all’altro. Sarà perché per me non è stato tutto facile e scontato dall’inizio, anzi il mio percorso nel mondo rap è stato in salita, ho fatto strada sì, ma mi sento ancora lungi dal considerarmi arrivato, sarà perché il rap per me è stato davvero importante, grazie al rap non sono diventato un delinquente, che per l’infanzia che ho avuto poteva anche essere”.
Il disco si presenta come un atto d’accusa fin dalla foto di copertina (opera di Matteo Groppo) che ritrae una bimba in abiti tirolesi che tiene in mano il disco in vinile di Nardo guardandolo con perplessità: un indice puntato verso le nuove generazioni che snobbano la sua e verso le istituzioni locali che da un lato sono sempre pronte a celebrare i propri artisti ma poi non sono capaci di offrire delle strutture in cui questi possano esibirsi.
“Non mi piace – prosegue Nardo – il voler trasformare tutto in un talent che diventa poi un contest: penso ad Upload, che è una cosa che considero molto cool come idea, ma che poi dovendo avere un vincitore e dei vinti finisce col degenerare in una gara che snatura l’idea di base del rap. Per esempio, io nei miei testi posso raccontare di un amore che è finito, di mia mamma che non c’è più, di valori che mi ha trasmesso mia nonna, di qualcosa che mi accade la mattina mentre vado a lavorare: tutte situazioni personali che racconto mettendole in musica. Nel momento in cui questo diventa oggetto di una competizione va a finire che la giuria invece che assorbire il messaggio che sto mandando mi critica per aver usato un tempo verbale sbagliato.”
Il disco si suddivide in dodici tracce, di cui una è l’introduzione di cui sopra e due sono brevi skit che precedono quello che per certi versi potremmo definire il brano guida del disco, Quelli del rap: nella fattispecie, lo skit punta il dito contro gli ex rapper, mente la canzone paga pegno a coloro che Nardo stima, che lo hanno consigliato, incoraggiato a perseverare nel percorrere la strada intrapresa, primo fra tutti il mai dimenticato Fabio 2 di Picche, un maestro oltre che un amico.
“Il disco – continua l’artista – è stato registrato con l’aiuto di vari produttori e colleghi. In realtà io sarei in grado di lavorare una base, ma preferisco affidarmi e confrontarmi con qualcun altro. Innanzitutto c’è il brano che ho pubblicato proprio un anno fa con il gruppo Birrette Posse, di cui facevo parte con alcuni musicisti trentini, e accompagnato da un video in puro stile tarantiniano girato da Claudio Zagarini (già rapper a sua volta col nickname di Tiso in un’altra vita artistica, n.d.r). E c’è anche l’altro singolo, Oh yes (nel locale) che ho realizzato con Berise, il frontman degli Shanti Powa. Ma tra le collaborazioni importanti c’è quella con DJ Fede”.
Il disco è costruito su una linea temporale che va all’indietro, un concept voluto in cui le differenti sonorità usate da Nardo e dai suoi collaboratori partono da quelle più all’avanguardia del brano d’apertura per andare verso il suono rap più classico di Di brutto e Summer 05, passando per il ragamuffin del brano con Berise e la struttura a più voci della composizione che vede coinvolta la posse.
“Il disco, per ora è solo in versione liquida – conclude Nardo – ma come lascia intendere la copertina, mi piacerebbe poterlo far diventare un vinile, sarebbe un sogno che si avvera, e magari si concretizzerà, più avanti, con un crowdfunding.”

Autore: Paolo Crazy Carnevale