Nardo dee, rap e schiettezza

Dai primi giorni di maggio è online su tutte le piattaforme digitali il nuovo disco di Nardo Dee, al secolo Davide Nardella, uno dei nomi di punta della scena hip hop bolzanina e regionale: un nuovo disco in cui il giovane musicista si toglie diversi sassolini dalle scarpe, quasi fosse un modo per sentirsi meglio, e difatti il disco s’intitola significativamente Meglio di prima, che è anche il titolo del cliccatissimo brano già uscito come singolo che sembra essere la risposta allo skit (breve introduzione parlata, in gergo rap) che apre il disco col titolo di Chiedimi come sto.

Nardo Dee, pur avendo poco più di trent’anni si considera un fuori quota in un mondo musicale in continua evoluzione, distante allo stesso modo da rapper e trapper di nuova generazione così come lo è da certi personaggi suoi contemporanei.
“Il riferimento – ci racconta – è a certe figure del mondo hip hop che mi hanno sempre snobbato e che sembrava non vivessero per altro che per il rap, personaggi che poi da un giorno all’altro sono scomparsi dalla scena quando fino al giorno prima pareva fosse per loro un credo fondamentale. Come chi smette di andare in palestra da un giorno all’altro. Sarà perché per me non è stato tutto facile e scontato dall’inizio, anzi il mio percorso nel mondo rap è stato in salita, ho fatto strada sì, ma mi sento ancora lungi dal considerarmi arrivato, sarà perché il rap per me è stato davvero importante, grazie al rap non sono diventato un delinquente, che per l’infanzia che ho avuto poteva anche essere”.
Il disco si presenta come un atto d’accusa fin dalla foto di copertina (opera di Matteo Groppo) che ritrae una bimba in abiti tirolesi che tiene in mano il disco in vinile di Nardo guardandolo con perplessità: un indice puntato verso le nuove generazioni che snobbano la sua e verso le istituzioni locali che da un lato sono sempre pronte a celebrare i propri artisti ma poi non sono capaci di offrire delle strutture in cui questi possano esibirsi.
“Non mi piace – prosegue Nardo – il voler trasformare tutto in un talent che diventa poi un contest: penso ad Upload, che è una cosa che considero molto cool come idea, ma che poi dovendo avere un vincitore e dei vinti finisce col degenerare in una gara che snatura l’idea di base del rap. Per esempio, io nei miei testi posso raccontare di un amore che è finito, di mia mamma che non c’è più, di valori che mi ha trasmesso mia nonna, di qualcosa che mi accade la mattina mentre vado a lavorare: tutte situazioni personali che racconto mettendole in musica. Nel momento in cui questo diventa oggetto di una competizione va a finire che la giuria invece che assorbire il messaggio che sto mandando mi critica per aver usato un tempo verbale sbagliato.”
Il disco si suddivide in dodici tracce, di cui una è l’introduzione di cui sopra e due sono brevi skit che precedono quello che per certi versi potremmo definire il brano guida del disco, Quelli del rap: nella fattispecie, lo skit punta il dito contro gli ex rapper, mente la canzone paga pegno a coloro che Nardo stima, che lo hanno consigliato, incoraggiato a perseverare nel percorrere la strada intrapresa, primo fra tutti il mai dimenticato Fabio 2 di Picche, un maestro oltre che un amico.
“Il disco – continua l’artista – è stato registrato con l’aiuto di vari produttori e colleghi. In realtà io sarei in grado di lavorare una base, ma preferisco affidarmi e confrontarmi con qualcun altro. Innanzitutto c’è il brano che ho pubblicato proprio un anno fa con il gruppo Birrette Posse, di cui facevo parte con alcuni musicisti trentini, e accompagnato da un video in puro stile tarantiniano girato da Claudio Zagarini (già rapper a sua volta col nickname di Tiso in un’altra vita artistica, n.d.r). E c’è anche l’altro singolo, Oh yes (nel locale) che ho realizzato con Berise, il frontman degli Shanti Powa. Ma tra le collaborazioni importanti c’è quella con DJ Fede”.
Il disco è costruito su una linea temporale che va all’indietro, un concept voluto in cui le differenti sonorità usate da Nardo e dai suoi collaboratori partono da quelle più all’avanguardia del brano d’apertura per andare verso il suono rap più classico di Di brutto e Summer 05, passando per il ragamuffin del brano con Berise e la struttura a più voci della composizione che vede coinvolta la posse.
“Il disco, per ora è solo in versione liquida – conclude Nardo – ma come lascia intendere la copertina, mi piacerebbe poterlo far diventare un vinile, sarebbe un sogno che si avvera, e magari si concretizzerà, più avanti, con un crowdfunding.”

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Tornano gli Slowtorch

Ci sono voluti sette anni perché gli Slowtorch potessero dare un seguito al loro disco precedente: il nuovo prodotto conferma l’ottimo stato di salute della band bolzanina e li vede per la prima volta alle prese col formato vinilico.

Da sempre alfieri, almeno a livello locale, di un certo modo di fare quello che gli addetti ai lavori chiamano stoner-rock, gli Slowtorch (Bruno Bassi alla chitarra, Matteo Meloni al canto, Karl Sandner al basso e Fabio “The Holy Barbarian” Sforza alla batteria) ne sono una delle migliori incarnazioni e, pur collocandosi perfettamente nella scia dei gruppi di riferimento contemporanei non mancano di avere ampi richiami nell’hard rock classico di gente come i Black Sabbath. The Machine Has Failed, questo il titolo del nuovo lavoro, è stato presentato lo scorso 29 aprile e in quell’occasione abbiamo avuto modo di parlare con Bruno Bassi, componente storico del quartetto.
“La gestazione del disco è stata abbastanza lunga – ci racconta – considerando il fatto che sono trascorsi quasi due anni tra la registrazione della prima facciata e quella della seconda. Un po’ perché all’inizio c’era l’idea di fare un EP, ma nel frattempo gli EP sono passati di moda, un po’, soprattutto, perché ci si è messa di mezzo la pandemia: i primi cinque brani erano già stati registrati a gennaio del 2020 e l’esperienza fatta presso lo studio Sotto il mare, a Verona, ha funzionato bene, tanto che a dicembre dell’anno scorso ci siamo tornati per incidere le quattro canzoni che sono finite sulla seconda facciata dell’LP”.
Ritmica incalzante, riff di chitarra convincenti al pari dei soli, una voce tra le più interessanti del panorama metal/hard altoatesino, forse appena appena indietro nel mix finale. Particolarmente riuscita la tripletta che chiude il lato A, composta da Man Vs. Man, Behold e dall’ottima Kraken, scelta come secondo singolo propedeutico all’uscita del disco, nonché la title track, posta sul lato B, che è stata il singolo apripista accompagnato da un video girato in maniera ultraprofessionale da Morgan Silvestri.
Il disco vede tra l’altro il ritorno nel gruppo del bassista originale Karl Sandner, che aveva lasciato la formazione dopo l’uscita di Serpente e il cui ruolo era stato ricoperto per un po’ di tempo da Marco Comi.
“I cambi di formazione – prosegue Bassi – ci hanno sempre imposto degli stop, visto che sia quando nel gruppo è arrivato Mela (nickname di Matteo Meloni, n.d.r.), sia quando Fabio ha sostituito Andrea Masetti alla batteria, prima di metterci a lavorare su materiale nuovo abbiamo dovuto prendere le misure con la nuova versione della band. Quando nel 2018 è rientrato in formazione Skan (Karl Sandner, n.d.r.) abbiamo cominciato a lavorare su nuovo materiale con l’intenzione di fare un disco. Durante lo stop forzato siamo entrati in contatto con l’etichetta sarda Electric Valley Records, che lo ha pubblicato. Anzi, per dirla tutta, c’era anche stata un’altra label che aveva dimostrato interesse, così abbiamo potuto permetterci il lusso non scontato di poter scegliere noi con chi andare”.

Il nuovo disco è uscito oltre che in formato digitale su bandcamp anche in due versioni viniliche, una marrone ed una quasi trasparente color acquamarina con striature più scure che richiama la copertina del disco realizzata dall’artista SoloMacello (che ha lavorato, tra gli altri per Bobo Rondelli e per le ristampe di colonne sonore morriconiane d’altri tempi). La copertina raffigura un’imbarcazione con quattro persone in balia di una tempesta, intente da un lato a sfuggire ai tentacoli di una creatura marina e dall’altro a cercare salvezza su una non meglio identificata fortezza che emerge dalle onde.
“Ci siamo rivolti a SoloMacello – conclude Bassi – perché ci piace molto lo stile dei suoi artwork, non solo per dischi: gli abbiamo chiesto se volesse occuparsi della copertina di The Machine Has Failed, gli abbiamo inviato i brani da ascoltare e lui ci ha mandato questa copertina. L’idea che ci siamo fatti è che si sia ispirato al brano Kraken, che parla di persone che scappano via mare. Lo abbiamo scritto nel periodo più critico degli sbarchi di profughi che arrivavano sulle coste italiane e il testo parla proprio di questo”.
Per l’estate è prevista anche la ripresa dei concerti, la prima data casalinga per il gruppo sarà il 21 maggio prossimo a San Lorenzo di Sebato.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Jörg Zemmler e il piano bar, ovvero: sfuggire alle classificazioni

Jörg Zemmler, artista multiforme e multimediale che ha la sua base tra Siusi e Vienna, è da parecchi anni attivo in più ambiti del campo artistico, muovendosi sui territori della letteratura, dell’arte visiva, della musica. Ed è proprio in campo musicale che ha mosso i primi passi facendosi poi assorbire dalle altre forme d’arte, a trecentosessanta gradi.

“Mi manca ancora – scherza a proposito Zemmler – il campo della danza, ma non perché mi sia posto un limite, è solo che non ci sono ancora arrivato. Prima o poi non escludo di lanciarmi in una performance di danza. Uno dei miei motti è che nella vita si può provare a cimentarsi in qualunque cosa, al di là dei risultati che si conseguono. Nella mia vita mi sono trovato a fare cose che non mi piacevano, come andare a scuola, fare il cameriere e altro. La musica è stata la prima forma artistica in cui mi sono imbattuto, dapprima come consumatore, se così possiamo dire, poi a un certo punto ho sentito l’esigenza di farla. All’inizio ascoltavo i Metallica ad esempio, il punk, i Nirvana, poi sono arrivato all’elettronica. A vent’anni ho avuto la mia prima band, non sapevo suonare niente, ma sapevo di voler fortemente avere una band.”
Sono almeno vent’anni che Zemmler si dedica a progetti musicali molto personali, anche quando si tratta di lavori realizzati con altre persone, dagli esordi d’inizio millennio nel progetto BOB condiviso con Peter Pichler ed intitolato curiosamente Greatest Hits vol.1.
Così come altrettanto curioso è il fatto che il nuovissimo disco (disponibile dallo scorso 16 aprile su vinile, CD e in formato download sulle piattaforme musicali) di Jörg si intitoli Piano Bar.
“La forma artistica con cui mi esprimo – ci spiega – non è importante per me, è solo una questione di momenti. Chiaramente nel momento in cui decido di lavorare in campo musicale allora mi concentro su quello, non avrebbe senso lavorare oggi su un progetto in musica e domani passare ad uno di letteratura e via dicendo, ci deve essere continuità. Innanzitutto le cose devono avere una certa bellezza, e anche nel brutto ci può essere bellezza; e ci vuole serietà nel farle. E naturalmente ci vogliono cuore e determinazione. A me piace cambiare, ora è uscito questo disco, in autunno uscirà un libro, lo scorso anno ho fatto un film. A volte le cose si incontrano, come in un concerto che terrò prossimamente a Brunico, per il quale mi è stato chiesto di fare anche delle letture, ma si tratterà di una cosa in via eccezionale, di solito preferisco non mescolare.”
Il disco è stato praticamente realizzato quasi in solitudine, lavorando con un pianoforte ed un computer.
Quest’ultimo usato in luogo di una loop station e di un sustain digitale con cui Zemmler cerca di estremizzare i limiti del suono dello strumento ottenendo digitalmente dei reverberi che in natura non ci sarebbero.
è una cosa che chi assiste ai suoi concerti può poi sperimentare dal vivo, considerato il fatto che l’artista sul palco costruisce il brano nota per nota, creando le parti che parti userà manderà in loop per poi eseguirci sopra il brano davanti agli occhi (e alle orecchie) del pubblico.
“Questo – prosegue Zemmler – fa sì che ogni esecuzione sia diversa dall’altra, ogni sera i brani si modificano. Non sono mai uguali alla sera precedente. Quanto poi al titolo, Piano Bar è una definizione convenzionale, un preconcetto. La società decide cosa debba essere il genere piano bar, ma in realtà le cose sono diverse, è l’ambiente in cui suoni che definisce il genere e non il contrario. Alla fine dello scorso anno ho suonato a Palermo in un locale che si chiama Tatum Art (un nome che è tutto un programma, n.d.r.), uno di quei posti dove la gente va per ascoltare ma anche per mangiare o socializzare, ballare. Per assurdo personalmente mi interessa di più il pubblico che non viene per ascoltare ma che poi finisce per farsi coinvolgere. A Palermo il pubblico all’inizio è rimasto spiazzato, essendo abituato a concerti jazz abbastanza standard; diciamo che il problema più grande è trovare qualcuno che organizzi concerti di questo genere, magari anche rischiando, ma con la voglia di non presentare per forza qualcosa di ascoltato.”
Il disco verrà presentato il 18 maggio prossimo all’UFO di Brunico con replica il giorno successivo presso il Künstlerbund a Bolzano.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Per Andrea Maffei è “una questione di pelle”

Per Andrea Maffei l’impegno a favore di qualcosa o di qualcuno è una cosa innata, una caratteristica che lo ha sempre contraddistinto nel combattere le sue battaglie in direzione ostinata e contraria, citando il suo amico Fabrizio De Andrè, senza per altro avere voglia o necessità di mettersi in mostra. Perché per lui è una questione di pelle, come recita il titolo di un suo nuovo e prezioso CD prodotto in totale autarchia e richiedibile contattando Maffei via Facebook.

Alla base di tutto c’era, per Andrea, il desiderio, anzi forse è meglio dire l’urgenza di poter fare qualcosa per certi suoi amici in difficoltà.
“Da alcuni anni – ci spiega Maffei – con alcune altre persone condivido la conoscenza di alcuni ragazzi che stanno in giro per le piazze di Bolzano, nel mio caso, visto che è la zona in cui mi muovo maggiormente, piazza Mazzini e piazza Vittoria. Mi riferisco ai cosiddetti senzatetto, un fenomeno che non si limita a queste piazze, ma che è piuttosto un problema riguardante tutta la città. Si tratta di persone che faticano a poter utilizzare certi benefit istituzionali in quanto provenienti da paesi europei, e spesso arrivano a Bolzano perché la nostra città sembra il paradiso, una vetrina luminosa e ricca. Invece qui inizia per loro la disperazione, la difficoltà di trovare un lavoro nonostante nel paese da cui provengono abbiano conseguito una laurea. Ecco, io parlo con loro, mi raccontano le loro storie, cerco di aiutarli; non vorrei usare il termine carità che è stato un po’ usucapito dalla cultura cristiana. Diciamo che li aiuto come posso, col mio tempo, con un pacchetto di sigarette o un pasto dal kebabaro, con un kebab sospeso potremmo dire”.
Sotto le feste di Natale, chiedendosi cos’altro potesse fare per queste persone, Andrea Maffei ha pensato che la cosa più naturale fosse di dedicare il suo naturale talento come cantautore a favore della causa di questi senzatetto, producendo il tutto al minimo delle spese, facendo tutto da solo, o quasi, e vendendo il disco ad un prezzo simbolico per mettere insieme un po’ di soldi per i suoi amici.
“Mi sono detto” – prosegue Andrea – “ho tante canzoni che non ho mai registrato, cose che magari mi sono anche scordato di aver scritto, o brani che non ho mai proposto alla Spritzband, le arrangio, le registro e faccio un CD da vendere per permettere a questi ragazzi di passare qualche momento più sereno. Soprattutto è importante il fatto di non limitarsi a portargli qualcosa, ma di dedicare loro un po’ del proprio tempo. Una cosa molto bella è che due di loro sono riusciti anche ad uscire da questa situazione, hanno trovato una compagna, si sono accasati, lavorano, e uno ha anche preso la patente”.
Venendo al disco, Questione di pelle si compone di undici brani. Maffei ci ha lavoro alacremente tra le mura domestiche, facendo tutto in autonomia, inclusa la copertina in cartoncino la cui confezione è chiusa elegantemente da un sigillo in cera, come si usava in tempi lontani, recante l’iniziale dell’autore.
“Mi sono aiutato con una tastiera con la quale ho programmato tutti i suoni, dalle chitarre alla batteria, mi sono improvvisato arrangiatore, mi sono occupato delle parti vocali, con l’eccezione di Canzone Blu che ho chiesto di cantare a Monika Callegaro e di Angiolina in cui la voce è della cantante trentina Roberta Kerschbaumer. Le canzoni in alcuni casi sono ripescate dal passato, altre fanno parte di un ciclo mio legato mia vita negli ultimi anni”.

Il disco, è giusto dirlo, va molto oltre la buona causa per cui è stato registrato: l’ascolto convince parecchio, e i brani sono tutt’altro che messi lì in qualche modo. Andrea Maffei ha fatto davvero un ottimo lavoro, anche nella scelta della scaletta, che vede tra l’altro canzoni dal testo importante come ‘Novembre ’66’, scritta con Marco Perissinotto e ispirata all’alluvione, ‘Sarajevo’, su una bomba esplosa al mercato in quella città, o ‘Angiolina’, che racconta una storia legata al terremoto in Abruzzo. Particolarmente da ricordare sono il brano che apre il disco, ‘Finalmente per te’, il nuovo arrangiamento dedicato a ‘Due cuccioli’, dal vinile dell’85, Gira e rigira e Il gruista scritta per Georg Clementi. “Sono un po’ tutte storie che in qualche modo mi arrivano – conclude – e che io racconto. Fabrizio De Andrè un giorno mi raccontò che lui si paragonava ad uno che se ne sta seduto su una bitta, al porto, in attesa del rientro delle navi per ascoltare i racconti dei marinai. Ecco, io mi sento esattamente così”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Albert “Knox” Mair: rock indipendente dalla Val Passiria

All’anagrafe si chiama Albert Mair, ma fin dai tempi della scuola superiore lo hanno chiamato Knox e dopo un paio di dischi classificati come dark-folk alla testa degli Undertaker’s Mom (azzeccatissimo nome considerando il genere musicale e gli argomenti trattati nei testi), visto che tutti lo conoscono così, ora ha deciso di debuttare come solista proprio usando quel nom de plume che gli è rimasto appiccicato addosso per tanti anni.

The Head, The Heart & The Fear è il titolo del disco, uscito nei primi giorni dell’anno ed è una buona prova all’insegna di un indie rock che paga dazio alla musica americana riletta però attraverso un sound molto moderno e coeso.
“Dopo aver terminato il secondo disco con gli Undertaker’s Mon – ci spiega Knox –, si è reso necessario prendere una pausa, il nostro fisarmonicista non era più interessato alla nostra musica, la cantante nel frattempo è diventata mamma e quindi il tempo a disposizione per la musica non era più quello di prima. Anche il bassista ha un bimbo, così è successo che il gruppo si è fermato. Io però avevo tanti brani e non volevo lasciarli nel cassetto”.
Ascoltando il disco risultano evidenti le influenze musicali del nostro, si va dal rock più tipico (con tanto di assoli in stile David Gilmour) ad atmosfere più minimali, a brani strumentali d’impronta country/bluegrass, quello che fa la differenza è la grande coesione sonora, segno della maturità artistica dell’autore, che dimostra di avere le idee ben chiare su come devono suonare le sue canzoni, tutte caratterizzate da testi introspettivi non propriamente d’argomento solare.
“Sì – ci dice –, spesso mi ritrovo a riflettere sulle cose che mi succedono, come credo avvenga a tutti, bisogna spesso fare i conti con argomenti come la morte e la separazione, intesa un po’ in tutti i sensi. Per quanto riguarda le influenze, fin da piccolo mi è piaciuta un sacco la musica americana, ma ho ascoltato anche Pink Floyd e Led Zeppelin, e tra i miei preferiti ci sono anche i Porcupine Tree e credo che un po’ di tutto questo sia andato a finire nella musica che faccio. La chitarra acustica è lo strumento che mi piace di più ma suono anche il basso, il banjo, il mandolino. Mi pace anche l’elettrica, ma con l’acustica sono maggiormente a mio agio. È la mia dimensione. Se ho tempo, fin dalla mattina, quando mi alzo, mi dedico un po’ alla chitarra, prima di colazione, quando tutto è calmo: così la giornata non può che cominciare nel migliore dei modi.”

Il disco è stato registrato nello studio in collina di Markus McMayr, che oltre a suonare la batteria ne è il produttore insieme a Knox stesso. La collaborazione e la stima reciproca tra i due musicisti è di lunga data: Knox ha registrato da McMayr anche i dischi degli Undertaker’s Mom: “Con Markus c’è una bella intesa, mi trovo bene da lui e lui riesce a capire alla perfezione come i brani suonano nella mia testa e quindi come farli suonare anche fuori. Sono rimasto con lui anche per il missaggio e il mastering. È stato lui a suggerirmi di coinvolgere nelle registrazioni Valerio De Paola, in un primo tempo solo come bassista, perché secondo lui se ci fosse stato qualcun altro io avrei potuto concentrarmi maggiormente sulle chitarre. Poi però Valerio ha avuto qualche buona idea da apportare al progetto, così oltre al basso ha suonato qualche tastiera e ha pure aggiunto delle chitarre. L’idea di chiamarlo è stata ottima, una gran scelta di Markus.”
Nel disco c’è anche la voce di Barbara Ladurner, la cantante degli Undertaker’s Mom, che duetta e costruisce ottimi cori alle spalle della voce di Knox, per un brano però il cantante ha voluto come ospite un amico, Paul B Movie (un altro nom de plume) della band meranese Bad bastrads, in cui Knox stesso ha suonato per un anno come mandolinista.
“Quando ho scritto questo brano, My Imaginary Dog – conclude Knox –, sapevo già che avrei voluto la voce di Paul. Ora spero di poter fare un po’ di promozione e già qualcosa si sta muovendo per fare dei concerti in estate. Il disco comunque è disponibile sulle classiche piattaforme in formato download digitale, mentre in forma fisica è distribuito dalla Three Saints Records di Herbert Pixner”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Isole Minori: un arcipelago sul pentagramma

Si intitola “Attorno a noi” il nuovo lavoro del gruppo musicale bolzanino, formato da Rino Cavalli, Andrea Palaia, Stefano Petrungaro e Nick Petricci.

Sono sulla breccia da una ventina d’anni queste Isole Minori, formazione che ruota attorno ai musicisti bolzanini Rino Cavalli (batteria), Andrea Palaia (basso) e Stefano Petrungaro (voce, slide e armonica), arricchita da qualche anno dall’entrata nel gruppo del polistrumentista trentino Nick Petricci. In origine si trattava di un ensemble con voci cantanti, recitanti, cori, nonché svariati strumentisti, sempre basato sulle canzoni scritte da Petrungaro ma poi elaborate di concerto dai soci musicali.
Dopo un indispensabile demo circolato – ahimè – solo tra gli amici ma realizzato con amore e professionalità all’inizio della loro storia, le Isole Minori hanno dato alle stampe un primo dischetto ufficiale una decina di anni fa, con quattro brani di studio e due dal vivo, con la line-up ridotta a trio ma con l’aiuto di qualche amico.
In questi giorni è disponibile sia in formato solido che sulle piattaforme musicali il nuovo lavoro significativamente intitolato Attorno a noi con il trio divenuto quartetto a tutti gli effetti.
“Facciamo un disco a decennio – ci scherza su Rino Cavalli – come Donald Fagen…”, poi è Stefano Petrungaro a prendere la parola: “Le prime mosse di questo nuovo lavoro sono cominciate appena prima del lockdown del 2020, eravamo molto carichi per il fatto che ora con l’ingresso di Nick il gruppo aveva trovato il suo equilibrio; ma abbiamo dovuto fare subito i conti con il periodo difficile che si andava prospettando, il non potersi vedere di persona per mesi, lo stare in casa, poi appena si è potuto abbiamo cominciato a registrare, magari senza trovarci tutti in contemporanea. Alla fine la pandemia l’abbiamo sfruttata a nostro vantaggio, riflettendo, lavorando a lungo sui brani, aggiustando il tiro senza avere l’urgenza di dover terminare in un momento preciso”.
I brani che compongono il disco sono stati registrati interamente nello studio del batterista che ci spiega come lui e gli altri intervengano sulle composizioni che Petrungaro sottopone alla loro attenzione: “Proprio l’altro giorno mi è capitato di ascoltare il primo provino che avevamo fatto per il brano Per sempre, che all’inizio aveva la struttura di un tango classico, nel corso delle prove e delle registrazioni ha assunto un colore completamente diverso, in realtà è comunque sempre un lavoro di gruppo perché oltre ad Andrea, Nick e me”. Non è un caso che nelle note di copertina del nuovo disco ci sia scritto arrangiamenti Isole Minori e proprio riguardo al nome del gruppo è interessante sentire le varie interpretazioni dei componenti: “Personalmente – ci racconta Nick Petricci – al nome dò un significato diverso, anche a seconda della giornata, guardando la copertina del disco realizzata da Giulia Palaia, mi viene da pensare che siamo come quattro piccoli isolotti che viaggiano in modo libero in uno spazio. Quattro musicisti che vagano in un ampio spazio musicale”.

Rino Cavalli non va a parare troppo distante da quanto affermato da Nick quando ci dice che vede il gruppo come un piccolo arcipelago formato da musicisti/isole con esperienze diverse, con idee che possono essere un po’ in comune e un po’ no, in mezzo ad un mare dove ognuno agisce in libertà senza mai dimenticarsi completamente dall’altro. “Siamo isolette poco lontane dal continente – chiosa Petrungaro –, con caratteristiche diverse da quelle delle cosiddette isole maggiori, stiamo in disparte, guardiamo quel che accade e quando si presenta la necessità di comunicare tra noi lo facciamo con la musica. Un isolotto minore è anche un luogo poco frequentato, ideale per ritirarsi e per riflettere”.
Il fatto che con l’arrivo del nuovo componente le Isole Minori abbiano sfoltito il parterre di ospiti la dice poi lunga sul fatto che ora abbiano finalmente terminato un lungo percorso alla ricerca della propria cifra; il disco vede infatti la sola presenza del già citato Mattuzzi (di fatto il quinto uomo) alle tastiere (e al mastering), alla voce di Roberta Manzini che duetta con Petrungaro e alla viola da gamba di Giuliano Eccher in Prima di andare.Venendo al disco, come abbiamo detto è disponibile sia fisicamente che in formato digitale su svariate piattaforme attraverso distrokid.com, sono sei i brani che lo compongono, tutti all’insegna di una connotazione sonora molto personale e senza tempo, attuale ma non collocabile in un periodo preciso, con testi che attraversano soprattutto la sfera personale, senza essere necessariamente autobiografici. “Quando sono tornato in Alto Adige – conclude il cantante – è stata chiara la volontà di proseguire, è sopraggiunto Nick e con mio grande stupore abbiamo ripreso a suonare come se non avessimo mai smesso, anzi come se nel frattempo avessimo continuato a fare prove insieme e quindi suonando di colpo meglio di prima”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Deception Store: voli pindarici a suon di prog rock

Verso la fine del 2021 ha fatto capolino nei negozi fisici in formato CD e sulle classiche piattaforme digitali in forma liquida, un disco meranese intitolato Pindaric Flights.

Si tratta di una specie di concept album, nella miglior tradizione del progressive rock, che gira attorno a Marco Pantozzi, non uno dei noti musicisti della città in riva Passirio, ma un appassionato di musica che ha avuto il coraggio di fare ascoltare alcune cose che aveva scritto a dei musicisti di razza che hanno deciso di dargli fiducia e lo hanno aiutato a realizzare questo disco.
“Deception Store, l’emporio dell’inganno, – ci spiega Pantozzi – non è nato come gruppo, in principio si trattava piuttosto di un progetto mio per cui i musicisti si sono entusiasmati, il nome deriva dall’ultimo verso di One More Time, uno dei brani portanti del disco, uno dei pericolosi voli pindarici del titolo. Poi il nome del progetto è stato translato alla formazione, dal momento che ci muovevamo in ambito progressive rock, pubblicati da un’etichetta specializzata in quel genere, e una delle caratteristiche del progressive è proprio quella di ruotare attorno a delle band piuttosto che attorno a dei solisti.”
L’emporio dell’inganno che denomina la formazione è la sala giochi, luogo in cui si sviluppa uno dei voli pindarici del titolo, quello legato alla ludopatia, cantato da Pantozzi con il tono drammatico che si addice alla situazione. I voli pindarici trattati nel disco sono un po’ i sogni più disparati dell’uomo, dal voler vivere la vita a modo proprio cantato nel secondo brano, I Do It My Way, al quello di coltivare un amore a distanza cantato in Distant Lover.
“È un lavoro che guarda molto indietro – prosegue Pantozzi –, io ho amato molto la musica degli anni settanta e ottanta; pur non essendo musicista professionista, mi sono dilettato in gioventù con qualche band scolastica e negli ultimi quindici anni mi sono riavvicinato alla musica, dapprima battendo la via delle cover band poi cominciando a pensare a cose mie. È stato Mike Frajria, che in questo disco mi ha aiutato supervisionando l’inglese dei miei testi, a instradarmi nell’uso dei software per realizzare di demo col computer e mi ha dato consigli a livello di composizione.”
A questo punto per Marco Pantozzi è stato evidentemente necessario trovare però dei musicisti veri a cui proporre quello che era riuscito ad abbozzare in proprio, dei musicisti che dessero respiro e forma alle sue canzoni.

“Conoscevo bene Joe Chiericati – ci dice –, così ho provato a fargli ascoltare qualcosa. Mi ha detto che secondo lui c’erano delle cose su cui valeva la pena lavorare, così a quel punto mi ha presentato Stefano Nicli che ha coinvolto nell’arrangiamento dei brani e nella produzione delle registrazioni, che abbiamo effettuato a Merano nello studio di Joe. La sezione ritmica è composta dal bassista Teo Ederle, cugino di Joe, e dal batterista Thomas Ebner, in più in, I Do It My Way e nella sua versione in italiano posta a fine disco, c’è la voce di Roberta Staccuneddu”.
Il risultato è un disco dalle molte sfaccettature e dalle molte influenze. Su tutte è evidente l’amore del leader per i Pink Floyd di Roger Waters, sia per l’idea del concept che per certi approcci vocali e musicali, però ascoltando con attenzione il disco si rivela molto vario e se da un lato Chiericati ci era già noto per escursioni musicali di questa scuola, con le sue tastiere che si muovono tra psichedelica colta e prog rock, è invece una sorpresa scoprire il poliedrico Nicli emulare David Gilmore e Bryan May, apparentemente distanti anni luce da quel blues che è da sempre la sua casa sicura.
“Il disco – conclude Pantozzi – è pubblicato e distribuito dalla Ma.Ra.Cash Records, specializzata in prodotti prog rock. Si tratta di un’etichetta indipendente che ha canali di distribuzione in tutto il mondo: è stata una sorpresa vedere siti russi e giapponesi che parlano del nostro disco, leggere recensioni francesi e americane. Certo non si tratta di un mercato mainstream, ma coloro che lo seguono sono uno zoccolo duro di appassionati che oltretutto sono molto legati al supporto fisico più che alla musica digitale online. Per questo motivo c’è stata anche una certa cura della veste grafica, di cui si è occupato Gigi Cavalli Cocchi, che come musicista è noto per il suo lavoro con Ligabue, ClanDestino e CSI, ma che è anche un grande illustratore. È stato proprio Gigi, tra l’altro, a indirizzarmi alla Ma.RaCash Records, per cui anche lui pubblica anche lui con i Mangala Vallis.”
Il disco è stato presentato dal vivo, naturalmente a Merano, al Teatro Puccini, in occasione dell’uscita, ma, sperando che la situazione si normalizzi un po’, con la bella stagione è probabile che i Deception Store possano prendere parte a qualche festival specializzato promosso proprio dalla loro casa discografica.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Un progetto musicale per celebrare il quartiere di Sciangai

Sciangai, scritto come si dice. Sarebbe interessante fare una ricerca sul perché il vasto quartiere che si estende nella parte meridionale della città al di qua dell’Isarco abbia preso questo nomignolo mutuato dall’omonima (ma non omografa città cinese).
Il confine tra Sciangai e il resto della città è sempre stato piuttosto labile, propendiamo per un confine che si è spostato nel corso del tempo a seconda della memoria di chi ci ha abitato e vi è cresciuto, ma approfondire oltre l’argomento in questa sede potrebbe scatenare polemiche.
A noi interessa parlare di una canzone che è stata pubblicata su youtube nelle scorse settimane e che ora è anche colonna sonora di un video distribuito gratuitamente in DVD che include anche un altro video, più lungo accompagnato da versi recitati da Emilio Insolvibile.
“Tutto è cominciato qualche anno fa – ci racconta Beppe Grandinetti, anima del progetto insieme a Luca Sommacampagna – mentre ero in sala prove con Coco Chinaglia, lui aveva un giro di chitarra attorno al quale si è sviluppata la canzone, intitolata Sciangai. Tra allora e la realizzazione del progetto è trascorso del tempo, ci sono state alcune traversie. Poi ho incontrato Luca, sciangaiolo come me e musicista, e la cosa ha cominciato a prendere forma. È lui che mi ha aiutato a dare forma al brano e che ha coinvolto altri musicisti.”
Grandinetti e Sommacampagna hanno così portato a termine il progetto non solo dal punto di vista musicale, per il quale si sono affidati ad altri bravi strumentisti e cantanti, ma anche sotto l’aspetto della ricerca e dell’assemblaggio di materiale fotografico e documentaristico che è finito a costituire le immagini che scorrono sulle sulle note della canzone. Il risultato è un omaggio sentito e molto riuscito ad un quartiere la cui storia è mutata paesaggisticamente non poco con l’abbattimento delle case semirurali che ne erano state la principale caratteristica.
“Fare un DVD oggi può sembrare un po’ fuori moda – spiega Luca Sommacampagna – ma volevamo che ci fosse un supporto fisico con il risultato del nostro lavoro, certo i video ormai girano con gli smartphone e sui social, ma ci pareva bella l’idea di poter dare qualcosa in mano alla gente.”
Il risultato del lavoro dei due appassionati sciangaioli di differente generazione è assolutamente godibile e ben riuscito, frutto degli sforzi congiunti di un gruppo di lavoro allargato che ha lavorato bene coinvolgendo molte persone.
“Innanzitutto – prosegue Sommacompagna – per poter depositare il brano alla SIAE ci siamo affidati a Tiziano Astolfi che ha anche fornito materiale video/foto dal suo archivio. Poi ci è parsa una buona idea chiedere ad un paio di cantanti storici, proprio provenienti dal quartiere, di dividere con Beppe le parti cantate del brano, così ci siamo rivolti a Memo Emeri e Macao Timpone che hanno aderito con entusiasmo. Per la parte suonata, io mi sono occupato della batteria e dei cori, Daniele Ceccarelli ha suonato il basso, Giorgio Fiore le tastiere e Gregor Marini ha curato gli arrangiamenti, suonato le chitarre e ha provveduto alla regia, dalla registrazione alla produzione.”
Il risultato è un brano eccellente, ben fatto, professionale e accorato: le tre voci si mescolano bene e ciascun vocalist mette davvero l’anima nella propria interpretazione, con un plauso particolare a Memo, che nonostante età e acciacchi ha una voce ancora parecchio grintosa. Insomma, una canzone che funziona, qui un altro plauso va indubbiamente alla produzione di Marini, e che racconta il quartiere attraverso immagini di repertorio: nei filmati si riconoscono senza fatica sia il giovane Grandinetti che il giovane Astolfi, ma soprattutto emerge la fisonomia di Sciangai, i volti, gli sguardi e le anime dei suoi abitanti. L’anima. Perché quello che sono riusciti a fare Sommacampagna e Grandinetti è lontano da scontate, facili e già ascoltate marchette musicali dedicate a una Bolzano o a un Alto Adige da cartolina: Sciangai, il quartiere Don Bosco, le semirurali non sono mai stati patinata meta turistica e le immagini finali delle ruspe che abbattono e vecchie case riportano lontanamente alla mente la storia cantata dal rocker californiano Ry Cooder dedicata al quartiere Chavez Ravine, a Los Angeles, che subì analoga sorte negli anni cinquanta.
“Ricordo persone – è Macao Timpone a raccontare ora – che non avevano idea che esistesse in Cina un posto con lo stesso nome e che si facevano mille meraviglie spalancando gli occhi quando ti dicevano: hai visto? In Cina c’è una città che si chiama come il nostro quartiere…”
Il gancio finale, per la realizzazione del brano e la sua diffusione sono stati l’appoggio della circoscrizione Don Bosco presieduta da Alex Castellano e dell’associazione CooolTour: “Castellano e Roberta Catania – ci dice Sommacampagna – sono stati importanti per concretizzare questo progetto, così come tutti coloro che ci hanno fornito con piacere il materiale filmato usato sia per la canzone che per il video con la voce di Emilio. Tutte persone animate dalla stessa filosofia positiva per cui tenersi le cose nei cassetti senza condividerle non è di alcuna utilità per nessuno.”
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POLEMICHE

Tra la stesura e la pubblicazione di questo articolo, attorno al brano dedicato a Sciangai sono scaturite polemiche infuocate riguardo alla paternità del brano: posto che la somiglianza tra il brano dei Dedy CEMM e quello cantato da Grandinetti/Macao/Memo è innegabile, posto che con ogni probabilità farà fede la data di deposito dello spartito alla SIAE, pensiamo che la verità – come spesso accade – stia nel mezzo e vogliamo astenerci dal commentare la cosa. Alla scena musicale bolzanina mancava giusto una faida del genere, non lontana da quelle che le bande di quartiere combattevano nei cortili di Sciangai negli anni cantati nel brano.
Peccato. Dispiace soprattutto per quelle associazioni e istituzioni che nell’appoggiare un bel progetto sono state messe in imbarazzo da una cosa che poteva essere evitata.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

S.R.F.: affari di famiglia sul pentagramma

Dire che si tratta di un caso esclusivo non possiamo, nella nostra regione il primato spetta ancora agli Still Blind, storica formazione metal attiva tra anni ottanta e novanta, i cui componenti erano tre fratelli, cosa che li ha consacrati come prima band a conduzione familiare della regione. Il caso del trio S.R.F. però è altrettanto degno di nota, visto che a comporlo sono un padre e due figli. La sigla S.R.F. indica le iniziali dei loro nomi: Francesco, Ricky, Stefano. Il cognome è Gobbo, ma per quanto riguarda il padre, bisogna dire che per le sue produzioni artistiche ha sempre usato nomi d’arte, dal Ricky Strehler dei suoi esordi come cantautore al Chris Taylor della fase pop dance.

Dire che si tratta di un caso esclusivo non possiamo perchè nella nostra regione il primato spetta ancora agli Still Blind, storica formazione metal attiva tra gli anni ottanta e novanta, i cui componenti erano tre fratelli, cosa che li ha consacrati come prima band a conduzione familiare della regione. Il caso del trio S.R.F. però è altrettanto degno di nota, visto che a comporlo sono un padre e due figli.
La sigla S.R.F. indica le iniziali dei loro nomi: Francesco, Ricky, Stefano.
Il cognome è Gobbo, ma per quanto riguarda il padre, bisogna dire che per le sue produzioni artistiche ha sempre usato nomi d’arte, dal Ricky Strehler dei suoi esordi come cantautore al Chris Taylor della fase pop dance.
“Questa nuova, emozionante avventura musicale – è papà Ricky a parlare – è cominciata poco più di un anno fa quando mio figlio Francesco, che è batterista, ma anche compositore, mi ha spedito una traccia su cui stava lavorando per chiedermi di aiutarlo a completarla. Mi ha spiegato che tipo di cosa voleva realizzare e così ci ho messo mano e poi gliel’ho rimandato in Toscana, dove lui abita. Francesco mi ha risposto che avevo perfettamente capito dove desiderava che portassi la sua idea di partenza. Ora il titolo finale del brano è Haus der Kraut ed è diventato un misto tra elettronica e techno; in realtà non mi piace definire la musica, ma è per rendere l’idea… Siccome il risultato non era male ho cominciato a covare di farlo diventare qualcosa di più che non una sola composizione, abbiamo così coinvolto anche Stefano, l’altro mio figlio, che ha studiato chitarra e pianoforte”.
A questo punto però, forte dei suoi contatti presso le case discografiche specializzate che Ricky aveva bazzicato sia come artista che come addetto ai lavori, decide di fare ascoltare il lavoro fatto con Francesco, suscitando l’interesse di più d’una label milanese, con il verdetto che se a quel pezzo fossero stati capaci di aggiungerne altri nove se ne sarebbe potuto fare un disco. Ovviamente a questo punto c’è stata una riunione di famiglia per decidere se fosse il caso di continuare a battere questa pista.
“Francesco e Stefano – prosegue Gobbo – si sono dichiarati possibilisti, senza montarsi alla testa. Mi hanno detto: ma sì papà, perché non provarci, se sono rose fioriranno. Io a questo punto ho scritto il secondo brano e l’ho mandato a loro, ciascuno ci ha messo del suo e Stefano nel frattempo ha mandato una terza composizione e siamo andati avanti così, ciascuna canzone è partita da un singolo, ma poi è diventata un lavoro di gruppo che andava a completarsi coi suggerimenti e le idee degli altri. Quando però siamo arrivati al brano intitolato Corto circuito, ho avuto l’idea che ci sarebbe stato bene un sax ed ho coinvolto Sandro Miori, un vecchio amico bolzanino che da tempo sta a Vienna e fa il musicista di professione”.
Così il disco si è andato arricchendo di piccoli cameo importanti: Miori, oltre ad aver fatto parte per breve tempo, in anni pionieristici, della mitica Statale 17, ha suonato con artisti internazionali del calibro di Lee Konitz. La cosa ha preso mano e Miori ha finito per suonare anche in altri brani del disco dei Gobbo, sia col sax che col flauto traverso. Un altro importante bolzanino che appare nel disco è Diego Ruvidotti, storico componente della Stanza, che ora lavora a Milano e che ha prestato al progetto la sua tromba.
“Il disco è andato avanti pian piano – è sempre Ricky a parlare – rispettando i tempi e gli impegni di ciascuno, ci è voluto un anno per finire tutto, anche perché siamo tutti e tre un po’ schizzinosi e perfettini, certi brani li abbiamo ripresi in mano sei o sette volte in fase di missaggio… Tira un po’ più su questo, tira giù quello, per essere d’accordo tutti e tre. Non è tutto perfetto, qualche sbavatura c’è, ma era un peccato rinunciare a dei contributi esterni suonati dal vivo, come quelli del batterista trentino Alessandro Motta, e quindi abbiamo deciso di tenercele queste piccole imperfezioni. In fin dei conti volevamo che suonasse come un disco umano e non come una cosa artefatta”.
Il risultato ha varie sfaccettature, alcune più ardite, altre più facilmente assimilabili, come quando Ricky ripercorre – con gli adeguati aggiornamenti – le orme già battute negli anni ottanta, con atmosfere talvolta psichedeliche e spaziali, tal altra fortemente dance, tanto che il disco, in uscita in formato digitale il 18 febbraio (ma entro l’estate è atteso il CD fisico) col titolo di The Flame Is Burning, sulla piattaforma Juno Download è stato inserito nella categoria Experimental/Electronic.
E come ulteriore chicca, diremo che per la grafica di copertina del prodotto, il trio si è affidato a Damir Jellici, un altro bolzanino, ora di stanza a Verona e grafico professionista, che negli anni ottanta ha militato negli eclettici Gegia Miranda.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

La musica da camera contemporanea del trio Tamayura

Tamayura è un termine del linguaggio poetico giapponese che indica qualcosa di molto prezioso ma di breve durata, giusto lo spazio di un momento; è anche il nome che un trio nato dall’incontro nella nostra regione di artisti con provenienza diversa, il cui disco, uscito proprio nell’anno della pandemia ha rischiato, a torto, di passare quasi inosservato, causa limitazione degli spostamenti e difficoltà nell’organizzare un’adeguata promozione a base concertistica.

Tutto è nato dall’incontro del sassofonista altoatesino Hans Tutzer con l’artista giapponese Karin Nakagawa, cantante, poetessa e in questo disco soprattutto musicista col suo koto, uno strumento a corda della tradizione nipponica che appartiene alla famiglia delle cetre. Tutzer, nato come batterista nella band giovanile degli Emphasis negli anni settanta, ma che è ora un apprezzato insegnante di musica, nonché membro di diverse realtà musicali come i Sax Four Fun e l’Ebnicher- Tutzer Project racconta così l’incontro con Karin Nakagawa: “Nel 2014 Karin ed io, che ancora non ci conoscevamo, siamo stati invitati a partecipare ad un workshop a Fiè, organizzato ogni due anni da Elisabeth Oberrauch. Si tratta di un’iniziativa durante la quale artisti, musicisti, attori vengono affiancati e si trovano a lavorare insieme per una settimana. Alla fine vengono presentati i vari lavori. Io sono stato sorteggiato per lavorare con Karin e abbiamo scoperto, oltre ad aver un grande affiatamento, che l’abbinata tra il suo koto e il mio sax soprano funzionava molto bene. Così è stato naturale decidere di continuare a sperimentare insieme”.
Karin Nakagawa, dal canto suo, pur essendo nata e avendo studiato in Giappone, negli ultimi anni è stata di base in Germania dove ha conosciuto il suo futuro marito, altoatesino: ecco spiegato l’arcano di come questa musicista che ha realizzato prestigiosi lavori approdando nel 2015 all’etichetta ECM, una delle leader per un certo tipo di musica jazz non tradizionale si sia trovata in Alto Adige. Il trio Tamayura si completa con il contrabbassista Paolino Dalla Porta, uno dei maggiori personaggi della scena europea nel suo strumento, nonché membro degli Oregon di Ralph Towner e Paul McCandless (ma i nomi inclusi nel suo curriculum potrebbero costituire una piccola enciclopedia del genere).
“Karin ed io – prosegue Tutzer – siamo andati ad un concerto degli Oregon a Bressanone, dopo lo spettacolo siamo andati a cercare i musicisti perché Karin aveva piacere di dare una copia del suo disco ECM a Towner, così abbiamo avuto occasione di parlare anche con altri del gruppo, tra cui Paolino, a cui abbiamo raccontato del nostro progetto come duo, è rimasto così ben impressionato che alla fine il duo è diventato un trio e nel giro di qualche settimana ci siamo trovati nel suo studio per provare!”.
Il disco è stato poi registrato all’inizio del 2018, in Germania, nello studio di Marco Ambrosini (anche lui del circuito ECM) che nel disco suona un’arpa tradizionale svedese parente stretta della viola d’amore oltre a figurare anche in veste di produttore insieme a Katharina Dustmann (che vi suona le percussioni).
Il risultato è un disco di notevole interesse, quasi interamente strumentale, eccezion fatta per alcuni interventi cantati dalla Nakagawa nel tipico stile vocale del Sol Levante: un perfetto equilibrio tra tradizione e jazz, una fusion non scontata che si lascia ascoltare come fosse un’attuale musica cameristica ricca di incredibili sfumature e passaggi, con brani composti da Tutzer e Nakagawa, in tandem ma anche per conto proprio o con altri partner, e con un brano firmato da Dalla Porta che nel disco è titolare con pieno diritto.

Dopo le registrazioni però, il disco è rimasto in stand by, un po’ per gli impegni di Dalla Porta e di Karin Nakagawa, un po’ perché Tutzer si è concesso il cosiddetto anno sabbatico e per un anno ha fatto un viaggio intorno al mondo. Al suo ritorno il Trio ha ricominciato a pensare a come pubblicare il suo lavoro. “Karin aveva da poco lavorato con una label norvegese che si chiama Losen Records, così abbiamo provato a rivolgerci a loro che sono stati ben disposti. Prima dell’uscita siamo anche riusciti ad esibirci una volta come trio in Umbria, ad un piccolo festival. Poi tutto si è bloccato, come tutti sanno. Il disco è uscito nel 2020, ma di promozione si è parlato solo nel 2021, quando Karin ed io abbiamo fatto qualche concerto in duo. Ora però si spera di poter riprendere il discorso e, se non ci saranno altri imprevisti, il 24 maggio siamo già in cartellone di nuovo con Paolino al Teatro Toniolo di Mestre.”

Autore: Paolo Crazy Carnevale