Dove l’amore per il giardino e per il paesaggio vanno di pari passo

In una vecchia guida di Merano leggiamo: “Quando in autunno i giardini splendono di dalie e petunie, di astri e di crisantemi, sui pendii soleggiati il gelsomino invernale richiama l’attenzione con i suoi fiori color giallo – oro, ma anche in maggio se ne vedono ancora dei singoli fiori. Già in dicembre il fiore invernale, il calicanto, diffonde dappertutto il suo profumo, così tanto apprezzato… facendo sì che a Merano sussista, sempre un’eterna primavera”.
La città del Passirio non deve la sua fortuna solo alla mitezza del suo clima – che da sempre ha attratto a sé turisti, viaggiatori, ospiti illustri – ma anche a delle scelte ponderate che hanno valorizzato la sua peculiare natura. Pensiamo alle varie “promenade”: la Tappeiner, la passeggiata Superiore, la passeggiata Passirio e la passeggiata d’Inverno.
Oltre a naturalmente a tutti i parchi pubblici e privati e da ultimo i Giardini Trautmannsdorf. Ma a Merano in qualche modo, giardino e paesaggio sembrano integrarsi magnificamente.
Tutto ciò si deve a chi ha percepito che questi due amori procedono di pari passo. Pensiamo a ciò che ha compiuto il dottor Franz Tappeiner nel 1893, il quale realizzò, a proprie spese, le omonime passeggiate: tuttora sono fra le più belle e apprezzate dai meranesi e dai turisti. Nel concetto stesso della passeggiata, come nel giardino, essi possono essere intesi come microcosmi, un mondo piccolo e compiuto.
Ma la passeggiata ha un merito in più: la visuale cambia continuamente lungo il cammino. Essa ci permette di percepire che il paesaggio è proiettato verso un concetto di totalità e di infinità. Cosicché, quando percorriamo le passeggiate d’inverno od altre, quando ammiriamo il paesaggio esso non è proprietà di nessuno.
Il filosofo Emerson scriveva : “Nessuno possiede il paesaggio. C’è una proprietà, all’orizzonte, che nessun’altra persona può possedere, se non quella il cui sguardo è capace di integrare tutte le parti”.
Il paesaggio è spesso anche lavoro dell’uomo, il quale lo ha plasmato e modellato in base alle proprie esigenze.
Ma l’integrazione perfetta e l’amore per la natura fanno sì che lo sguardo del poeta, proprio a Merano, non venga mai meno.

Autore: Flavio Schimenti

Quel palazzo municipale a firma dell’architetto Ettore Sottsass Senior

Fra i Portici della città una struttura architettonica si differenzia dalle altre e non può essere non notata. Si tratta di un blocco monumentale lapideo rivestito in marmo grigio: in questo palazzo ha sede la municipalità meranese. Si denota per l’utilizzo dei materiali, le forme e gli stili ornamentali usati, volutamente diversi rispetto alle architetture adiacenti.
L’ artefice di tale opera è l’architetto Ettore Sottsass Senior. Nativo di Nave San Rocco (Trento – 1892), frequentò la Scuola di Architettura e l’Accademia di belle Arti a Vienna sotto la guida dell’ architetto Friedrich Ohmann.
Dopo la prima guerra mondiale tornò in Italia, dove iniziò a partecipare a diversi concorsi per la realizzazione di edifici pubblici. Il suo primo incarico di rilievo fu proprio la progettazione del nuovo Municipio di Merano. Siamo nel 1928, in piena epoca fascista, e si decide di dare una discontinuità simbolica, rispetto al centro storico meranese. La presenza di tale architettura doveva denotare tutta la forza del nuovo corso della storia, con una rottura netta col passato. Il tentativo tuttavia , effettuato da Sottsass è quello di dialogare invece con esso.
Forte della sua formazione viennese, Sottsass cercò di mettere in contatto visivo la sua struttura con quella vicina del palazzo Principesco e degli altri edifici storici. Il risultato fu un edificio fortemente eclettico, con richiami al classicismo, allo storicismo ed alla modernità. Non un edificio monumentale, come nell’architettura piacentiniana del regime volute per Bolzano, ma un edificio in dialogo col passato.
Non mancò però un tono retorico con la “torre civica”, che caratterizzava all’epoca tutti i municipi, le G.i.l. e le Case del Fascio. Sotto di essa vi è tuttora scolpita la scritta “Anno VII dell’era fascista”… Ma, se gli esterni della architettura municipale sono basati su una architettura puramente formale, diverso è il discorso per quanto riguarda gli interni. Qui , Sottsass sfruttò al massimo le sue potenzialità creative, dando luogo a soluzioni architettoniche moderne ed ormai prossime al razionalismo, visibili in particolar modo per quanto riguarda gli spazi dei vani scala. In quegli stessi anni l’architetto trentino realizzò insieme a Willy Weyhenmeyer lo stabilimento balneare del Lido di Bolzano, uno dei capolavori riconosciuti dell’architettura razionalista a livello europeo.
Trasferitosi a Torino nel 1929, Sottsass collaborò attivamente con gli architetti razionalisti e nel 1931 fu fra i firmatari del Movimento Italiano per l’architettura razionale. Anche nel caso di Sottsass, come per altri progettisti ed artisti, Merano fu la città che diede il via ad una nuova maturazione creativa e concettuale.

Autore: Flavio Schimenti

Due artisti, due epoche, due stili che hanno lasciato il loro segno

Anno 1480: Hans Schnatterpeck nativo di Vipiteno apre la sua bottega artistica a Merano ed assume la cittadinanza meranese. Educato alla luce dei lavori di Hans Multscher, che proprio a Vipiteno aveva realizzato uno dei più importanti altari a portelle della regione, cercherà di eguagliarlo negli spunti creativi.
A Merano la sua bottega coinvolgerà, per una trentina d’anni, pittori, scultori e maestri artigiani con importanti commissioni in città e fino in Val Venosta: proprio dalla sua bottega meranese uscirà il più grande altare realizzato in Trentino Alto Adige e, pare, di tutta la regione alpina.

L’altare della chiesa parrocchiale di Lana realizzato da Hans Schnatterpeck
foto: ManfredK


Siamo nel 1503, Hans Schnatterpeck ottiene la commissione di costruire l’altare maggiore per la chiesa parrocchiale di Lana. Il maestro impiegherà otto anni per assemblare il grande altare ligneo con i vari pezzi che usciranno dalla sua bottega. Il grande altare a portelle, alto complessivamente 14 metri, occuperà per estensione tutto il catino absidale, e sarà un ricco, intrigato ed elaborato linguaggio di coronamento dello stile gotico e con decine di figure in altorilievo. Di notevole pregio una “Adorazione dei Magi” ed una “Nascita di Cristo”.
Nel 1540 Schnatterpeck muore presso l’Ospedale di S. Spirito di Merano, proprio sotto la volta di quella S.S.Trinità che anch’egli aveva raffigurato.
Duecento anni dopo, nel 1680, un altro grande artista si trasferisce a Merano dando luogo ad un’altra bottega d’arte, sarà quella dello scultore Matthias Pussjaegher. Nativo di Rottenbuch in Baviera aveva studiato a Venezia, e influenzato dalla pittura caravaggesca apre il suo studio nella città del Passirio. Già nel 1681 ottiene l’incarico per la realizzazione dell’altare maggiore del duomo meranese (oggi a Lana), quello per la chiesa di Santa Barbara, due pale d’altare per la chiesa di Maia Bassa e l’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini, sempre a Merano.
Due artisti, due stili elaborati in epoche diverse, che hanno lasciato il loro segno, la loro “pietra” nel contesto della città e non solo.

Foto principale: L’altare della chiesa di Santa Barbara realizzato da Matthias Pussjaegher

Autore: Flavio Schimenti

Un capolavoro seminascosto nel duomo di San Nicolò

In una gelida notte di inverno, quasi alla vigilia di Natale, mi trovai a passare sotto le arcate della torre campanaria del duomo meranese. Lì alla luce quasi crepuscolare mi colpì un bell’affresco, inserito dentro una lesena gotica dove compare il dipinto affrescato col tema della Santa Croce di due pellegrini e di un giardino “mistico” e quasi incantato.
Il tema è un po’ atipico nell’arco dei cicli pittorici di inizi del quattrocento, ma ha diverse affinità iconografiche e linguistiche con altri dipinti del periodo sia in Alto Adige che altrove. L’opera è attribuita a Maestro Venceslao (1352 – 1411), pittore boemo artefice del bel ciclo di affreschi del Castello del Buonconsiglio a Trento (1390 – 1400), dove il pittore boemo si caratterizza per l’intreccio fra il mondo cavalleresco, la natura ed il quotidiano. L’incarico trentino all’artista avvenne tramite il principe – vescovo Giorgio di Liechtenstein, quello meranese per passaparola dal vescovo di Coira. La datazione è attribuita all’inizio del ‘400, subito dopo l’incarico di Trento.
A Merano – come nell’analogo esempio trentino – la natura ha un aspetto preponderante per il novanta per cento del campo visivo; l’opera è composta da un folto giardino nel quale compaiono sul lato destro inginocchiati un pellegrino con accanto ad un uomo con abiti orientaleggianti, sul lato opposto compare una semplice croce. Essa si caratterizza per un particolare: il tronco verticale è del classico colore ligneo, mentre quello orizzontale è di un netto colore azzurro, che rappresenta il Cielo; vuole indicare che il martirio del Cristo è stato solo un “passaggio” verso la definitiva Resurrezione. I due personaggi a lei rivolgono lo sguardo e l’Orientale indica all’Occidentale dove guardare.
Il bosco è rappresentato come se fosse un giardino, le file degli alberi sono composte in maniera ordinata ed il pittore si concede a rappresentazioni realistiche, dipingendo un’infinità di specie arboree e di piante. Sopra la scena, delimitata da tre colline, in uno spicchio di cielo compare un Sole ardente. La composizione è gentile e per niente consolatoria, lascia all’osservatore un senso di gradevole armonia fra il mondo reale e quello spirituale.
Qui a Merano il Maestro Venceslao anticiperà di novant’anni quello che Friedrich Pacher farà nel ciclo di affreschi del chiostro dei Domenicani a Bolzano e l’opera del pittore olandese Hieronymus Bosch.

Autore: Flavio Schimenti

Holzmeister, quell’architetto che cambiò l’immagine delle chiese

Clemens Holzmeister, Luis Trenker e Merano. Cosa hanno in comune un grande architetto, il primo, un altro architetto e noto alpinista, scrittore, regista il secondo, e la città sul Passirio?
Clemens Holzmeister nasce a Fulpmes in Austria il 27 marzo del 1886 da genitori tirolesi emigrati in Brasile e tornati in patria. Si diploma ad Innsbruck e prosegue i propri studi a Vienna, dove si laurea con una tesi sulla architettura dell’ Abbazia Cistercense di Stams. Nel 1924 apre uno studio di architettura con l’amico, di vecchia data, Luis Trenker.
Sarà proprio Trenker ad incentivarlo ed a stimolarlo nei grandi progetti architettonici. Agli inizi degli anni Trenta conta già la realizzazione di tre grandi opere architettoniche : l’Hotel Adler ad Ortisei, l’Hotel Tre Cime a Sesto e Villa Pretz a Bolzano.
Holzmeister nel 1935 è a Merano dove gli viene affidato l’impegnativo incarico di ricostruzione e ristrutturazione della chiesa parrocchiale di San Vigilio di Maia Bassa. Negli schizzi preparatori dal tratto fortemente espressionista, egli dà luogo ad una basilica dalla facciata neoromanica, con due campanili gemelli, alla maniera Normanna. Negli interni esegue un intervento rivoluzionario per quell’epoca: mantiene una parte consistente della primitiva impostazione della chiesa medievale facendo sì che il Coro ed il presbiterio precedente diventino cappella laterale posta sul lato sinistro.
L’edificio nella planimetria diventa una chiesa con formazione di pianta a “croce greca”. Anche qui è qualcosa di innovativo ed interessante. Nei coevi esempi dell’epoca veniva privilegiata l’impostazione della basilica tradizionale a “croce latina”, mentre quella scelta permette di avvicinare i fedeli alle funzioni religiose, cosa che avverrà solo con la riforma ecclesiale a partire dal 1965 (Concilio Vaticano Il, normative sugli edifici ecclesiastici).
Grande cura viene destinata al recupero degli elementi precedenti, affreschi e altorilievi, arricchendo la chiesa con nuove opere, quali l’affresco del nuovo altare opera di Rudolf Stolz (1936 / 38) e le nuove vetrate opera di Hans Pruester.
Sicuramente la sua formazione culturale e poetica, a partire dalla tesi di laurea, ha fatto sì che Holzmeister diventasse a partire da Merano uno dei più ascoltati e realizzatore di edifici ecclesiastici (una decina costruiti fra Austria e Germania ).
Allontanato dai regimi fascista e nazista, dal 1938 si rifugia in Turchia dove vi resterà fino al 1954 e dove continuerà la sua opera di architetto realizzando strutture di notevole pregio architettonico.
A Merano ed in tutto l’Alto Adige lascerà il segno. E sarà da guida per tutte le future generazioni di architetti e progettisti europei.

Autore: Flavio Schimenti

Quando Sinigo era Borgo Vittoria

Percorrendo la vecchia strada nazionale che da Bolzano conduce verso Merano, uno degli edifici che mi ha sempre particolarmente colpito, prima di giungere nella città del Passirio, è la cosiddetta “palestra” di Sinigo.
Sorge sul lato sinistro della carreggiata per chi proviene da Bolzano.
Sinigo, oggi secondo quartiere di Merano per popolazione, un tempo chiamato “Borgo Vittoria”, deve la sua nascita alla bonifica compiuta fra il 1926 ed il 1937.
Esso sorgerà con l’opera di drenaggio del fondovalle paludoso ed acquitrinoso del fiume Adige, per volontà dell’Opera Nazionale Combattenti e dell’insediamento dello stabilimento della Montecatini. Tale nuovo insediamento urbano, strappato all’acqua (come ha scritto Andrea Rossi nel suo libro “L’acqua ci correva dietro”) portò in quegli anni ad un nuovo nucleo urbano con più di mille abitanti, provenienti da tutte le regioni d’Italia.
La bonifica di Sinigo anticipò di quasi dieci lustri quelle compiute dal fascismo nell’Agro Pontino e nel resto della Penisola, servendo da presupposto e da modello in altre regioni.
Insieme alla fabbrica ed alle strutture connesse vennero create tutta una serie di servizi legati al dopolavoro, ma soprattutto alle strutture sportive. Ed è ben noto a tutti quale rilevanza avesse lo sport e l’attività fisica in generale durante gli anni del regime fascista. Venne così realizzata nei primi anni Trenta una palestra. Una bella palestra, con una struttura e molto semplice e lineare, ed i miei attenti lettori riconosceranno subito che si tratta di un edificio in puro stile razionalista.
Una breve scalinata di accesso ci introduce ad una facciata realizzata con rivestimenti di blocchi in laterocemento di produzione autarchica, sulla quale fanno bella vista di sé quattro portali disposti simmetricamente. Anche qui il “modello di Sinigo”, anticipa scelte progettuali ed architettoniche compiute dai grandi architetti decine di anni dopo. Non vi è retorica nel linguaggio visivo materico edilizio, anzi la struttura risulta calda, studiata ed accogliente. E come in tutti i complessi edilizi sportivi dell’epoca, le strutture di servizio erano tutte moderne ed all’avanguardia.
Sulla scia della palestra si rafforzerà anche l’attività della squadra di calcio Sinigo – Montecatini, fondata nel 1928 e partecipante all’allora Terza categoria di campionato. Fu non solo una palestra, ma anche un luogo di socialità e di aggregazione per generazioni di abitanti di Sinigo e non solo.

Autore: Flavio Schimenti

Merano e la sua stratificazione storica tutta da rileggere

Scriveva Tomas Maldonado in “La speranza progettuale” nel 1970: “Da sempre abbiamo vissuto in un ambiente costruito in parte da noi stessi. Tuttavia la consapevolezza di un tale ambiente, d’essere circondati e condizionati da un territorio specificamente nostro, da un intorno fisico e socioculturale che oggi definiamo ‘ambiente umano, è paradossalmente una conquista recente”.
Per la città di Merano, ciò cosa implica?
Per secoli, per millenni, chi ha detenuto il potere ed i progettisti che si sono succeduti hanno immaginato un insediamento urbano che fosse conseguente alla loro concezione spaziale.
I conti di Tirolo hanno immaginato un borgo commerciale che fosse direttamente soddisfacente ai propri interessi territoriali. Nel corso dell’Ottocento e Novecento la città ha scoperto la propria vocazione turistica. Sono nate quindi le grandi strutture alberghiere e tutti i manufatti urbani ed architettonici di supporto: ponti, stazioni, passeggiate, luoghi di divertimento e di svago (quali il teatro Civico o il Kursaal).
Ogni progettista ha immaginato un concetto di città che fosse direttamente conseguente alla propria idea di spazio, con una declinazione del gusto di una specifica epoca.
I magnifici disegni del Kursaal del viennese Fr. Ohmann del 1912 o i grandi alberghi disegnati dagli architetti Munsch & Lun, ci testimoniano tutto il gusto di un’epoca, ma anche una ricca immagine che la città del Passirio poteva essere. La sua vocazione di “città giardino”, con i suoi viali alberati e le belle villette immerse nel verde concepita nel corso del XIX secolo e portata avanti anche nel secolo successivo, sono state in parte stravolte dalle speculazioni edilizie del XX e XXI secolo.
Merano rappresentata una stratificazione storica tutta da rileggere: essa è il frutto, oggi, di una concezione di diversi spazi urbani che si sono sovrapposti. Tornando al professor Tomas Maldonado, egli ci ricorda come bisogna necessariamente tornare al nostro sistema biotico: l’acqua, l’aria ed il suolo. Solo così si potrà tornare ad immaginare una città vivibile, ecologicamente sostenibile e socialmente più umana senza che essa rinneghi il proprio passato o che venga stravolta la propria struttura urbana.

Autore: Flavio Schimenti

Una villa intitolata alla Duse dall’impresario innamorato della città

La cosa potrà stupire o trarre in inganno: cosa ci fa la villa Eleonora Duse a Merano?
Ricordiamo che l’attrice italiana, forse la più famosa ed omaggiata a cavallo tra l’ottocento ed il novecento, sublime interprete di William Shakespeare, di Dumas e di Ibsen, e notoriamente musa ispiratrice di Gabriele D’Annunzio (compose per essa numerose opere), non abitò ufficialmente, mai a Merano.
L’attrice morì in America, a Pittsburgh, nel 1924, lontana dalla città del Passirio e dall’Italia. E, dunque, per quale motivo esiste una villa col suo nome ?
La Duse, come tante attrici, aveva un famoso impresario, il suo nome era Joseph Mandelkern. Diventato molto facoltoso grazie all’attrice, si innamorò di Merano e volle proprio, in questa città, una propria residenza. Riconoscente ed in nome della diva del teatro e del cinema, battezzò la propria villa col suo nome. Alla costruzione della propria residenza meranese nel 1932, chiamò un giovane architetto, Franz Lottersberger, il quale progettò per il ricco impresario una villa in puro stile razionalista. Egli, forte dell’esperienza precedente, della realizzazione di villa Kloeckner, sempre a Merano del 1931 ripropose nei modi formali un modello molto simile.
La città è in piena trasformazione del linguaggio architettonico, tutta rivolta verso il moderno, ed egli, nato nel Tirolo orientale nel 1903, ma già a Merano dal 1922, allievo dell’ architetto razionalista Clemens Holzmeister, ne ripropone i modi interpretativi del linguaggio architettonico.
A Bolzano Holzmeister aveva realizzato con successo villa von Pretz nel 1930, e quell’edificio per Lottersberger è un modello da poter reintepretare. Già nella villa Kloechner egli aveva sviluppato la sua configurazione spaziale architettonica in un unico volume, un cubo: in maniera sorprendente, nella villa Duse egli concepisce due volumi cubici, di dimensioni diverse, uno maggiore ed uno minore, affiancandoli ma facendo emergere il maggiore con un arretramento del secondo e sviluppandolo il primo in altezza.
Le forme sono semplici e geometriche, le ampie finestre sono poste in maniera regolare, la superficie del tetto è piana, come richiede una casa in stile razionalista. Con villa Duse si apre a Merano la ricca stagione della trasformazione urbana, seguita da villa Ceran (A.Ronca, 1935), e da tanti altri esempi.

La musa di Gabriele D’Annunzio

Attrice teatrale e cinematografica, Eleonora Duse conquistò una grande fama a livello internazionale per le sue interpretazioni teatrali, tanto che negli anni Trenta il regista Rouben Mamoulian avrebbe voluto fare un film su di leiinterpretato da Greta Garbo, ma per la complessità del personaggio vi rinunciò.

Figlia di commedianti in costante peregrinazione, si accostò al teatro giovanissima (aveva quattro anni, quando, a Chioggia, recitò nella parte di Cosetta dei “Miserabili” di Victor Hugo), ma fu in seguito alla malattia della madre che dal 1870 si trovò a sostituirla, e quindi ad affrontare ruoli di maggior impegno. Nel 1884 l’incontro con Gabriele D’Annunzio a Venezia: i due già si erano già incontrati di sfuggita a Roma, mentre lui era cronista mondano della “Tribuna”. Ma l’incontro decisivo ci sarà l’anno seguente, sempre a Venezia: Eleonora lo ispirerà per otto anni, a lei D’Annunzio dedicherà “La città morta” e “Il Fuoco”.
Nel 1898 partirono assieme per l’Egitto e per la Grecia, ma la loro storia d’amore finì, nel 1904, per la conflittualità dei caratteri ma anche per i debiti che la diva accumulò per aiutarlo e per la grande umiliazione che ricevette in quello stesso anno, quando “La figlia di Iorio” esordì al Teatro Lirico di Milano con Irma Gramatica nella parte di Mila. Ripresa l’attività teatrale in Italia nel 1921, nel 1923 fu in tournée a Londra e Vienna. Recatasi negli Stati Uniti nell’ottobre dello stesso anno, ottenne gli ultimi successi in teatro. Poco dopo si ammalò e morì a Pittsburgh.

Autore: Flavio Schimenti

Mamming: nei cuore di Steinach

Nel piazzale superiore del Duomo e più precisamente nella estremità occidentale dell’antichissimo quartiere di Steinach, dominato dalla Torre Polveriera, si affaccia uno dei più bei palazzi di Merano. Dal 2015 è sede del Museo Civico meranese, il suo nome è conosciuto attualmente come palazzo Mamming, in precedenza era citato come Palais Desfour, o Steinachheim.
I primi proprietari e committenti furono i baroni Mamming, i quali nel 1675 diedero l’incarico all’architetto Karl Delai di realizzare una residenza in stile tardo – rinascimentale.
L’edificio si staglia nettamente dalle altre costruzioni della piazza, per la rigorosità delle sue forme classiche e geometriche, quasi palladiane. Un maestoso portale in bugnato a tutto sesto, ne fa la sua porta d’accesso. Nei piani superiori è scandita la sequenza regolare delle aperture finestrali e dei grandi mensoloni seicenteschi che sorreggono la copertura sovrastante. La particolarità e l’accentuazione dello “stile italiano” è data dal balcone, in corrispondenza del portone d’ingresso. Ricordiamo che nell’architettura tirolese questa struttura aggettante è molto rara, in quanto invece viene privilegiato l’Erker. Gli interni sono affrescati sia nelle volte che nelle pareti superiori laterali in una intersezione e sequenza di elementi concavi e convessi, intercalati da lunette con volta a spicchio.
L’affresco di maggior rilievo è dato dalla “allegoria della Vittoria alata”.
Fino alla morte di Angelika Steiner Lupi palazzo mamming era sede del Museo Steiner ed era conosciuto come palazzo Desfour, dal nome della penultima proprietaria. Angelika Steiner era figlia del famoso scultore meranese Hermann Steiner (1878 – 1963), e proprio lei fece del palazzo un museo per poter esporre al pubblico le opere del padre, un artista premiato in Europa ed in America, ma forse poco conosciuto ed apprezzato nella sua città natale.
Il museo poneva in bella vista la sua opera più famosa, “La marcia della libertà”. L’opera – un altorilievo dalla potente carica espressiva lungo cinque metri e nel quale sono rappresentate più di trecento figure – veniva custodita con orgoglio e passione dalla figlia. Alla morte di Angelika Steiner il palazzo ed il suo patrimonio rischiarono di essere dispersi, ma nel 1991 il Comune di Merano lo acquistò, restituendoci, restaurato, questo prezioso gioiello architettonico.

Autore: Flavio Schimenti

Quando Ronca “inventò” le gallerie di Corso della Libertà

Nello scenario collettivo, passare per Corso della Libertà e percorrere una delle due gallerie piene di negozi o per raggiungere la passeggiata Lungo Passirio è una cosa ormai usuale.
Non fu però così semplice, nel 1959, per Ronca progettare e costruire il complesso architettonico commerciale in quell’epoca. Da un lato si trovò contro gli esercenti del centro storico, timorosi dello stravolgimento del commercio meranese, dall’altra i nostalgici della Merano asburgica e dei suoi edifici d’epoca.
Venne organizzata una raccolta di firme per impedirne la sua realizzazione, ma prevalse il buon senso: la città era in pieno rilancio economico, e un edificio al passo coi tempi poteva contribuire a rilanciare Merano a livello europeo. A pochi passi dal centro storico, Ronca porta dunque la prima galleria con negozi, uffici, abitazioni con tutto il linguaggio dell’architettura moderna.
Soffermandosi sull’ aspetto compositivo, l’architettura è contrassegnata da tutte quelle forme a “spigolo” che diventeranno sue caratteristiche a partire dagli anni ‘60. Qui, per la prima volta abbandona le forme del passato, che avevano caratterizzato un’architettura più “morbida”, tipica invece del linguaggio roncaniano degli anni ‘30 / ‘50.
I negozi sul fronte strada e nelle gallerie si sviluppano su due piani con ampie superfici vetrate a “tutta vista”. A Merano diventa interessante da parte del progettista la rivisitazione delle gallerie ottocentesche tipiche delle grandi capitali europee, riconcepite con il linguaggio del moderno. Ronca adegua il suo lessico alle forme architettoniche locali, in primo luogo gli Erker: sul prospetto verso Corso Libertà vengono proposti movimenti di rientro e di sporgenza su tutta la facciata. Marcapiani e pilastri a vista demarcano la struttura compositiva, mentre rivestimenti in tessere ceramicate arricchiscono i prospetti principali. Elementi di completamento – come lampadari, altorilievi bronzei e la cura di altri particolari – ne fanno un insieme piacevole ed armonioso. Un modello come la galleria, portata a Merano, diventerà da subito un archetipo vincente: ultimata nel 1963, vide la quasi contemporanea costruzione di quella di via delle Corse (1960-1965). A queste ne ne seguiranno tante altre.

Autore: Flavio Schimenti