La città della Belle Epoque si riflette nel ponte della Posta

Otto ponti attraversano il Passirio, nella città di Merano. Fra queste otto strutture a più campate che attraversano l’antico borgo meranese, oltre al cosiddetto “ponte romano”, una delle più suggestive ed affascinanti è senza dubbio il ponte della Posta. 
Venne costruito fra il 1890 ed il 1909, per opera e per commissione dei commercianti del borgo di Santo Spirito, per collegare l’ abitato al resto della città. Esso volle per bellezza e fascino superare tutti gli altri ponti presenti o in costruzione a Merano: siamo nell’epoca della Belle Époque, la città è avviata al turismo internazionale e riesce a far concorrenza alle più grandi capitali europee.
Il Ponte della Posta doveva racchiudere tutto lo spirito di quel periodo aureo. Come la Torre Eiffel diventerà un simbolo per Parigi, così questa struttura, insieme a tante altre, doveva assurgere a simbolo della città. 
Il ponte, oltre ad essere un piccolo capolavoro dell’ingegneria moderna, unisce elementi strutturali con elementi decorativi in una sorprendente armonia. 
Supera il Passirio poggiandosi su basamenti strutturali in pietra a carena di nave, gli archi ribassati sulle quali poggia tutta la struttura portante, gli intradossi e gli estradossi sono interamente decorati, con motivi geometrici a reticolo evidenziati dal colore in oro sulle superfici incavate. Alle ringhiere in ferro battuto con motivi floreali tipici del periodo Jugendstil – anch’essi tinti in oro – si alternano balaustre classiche in pietra, ispirate al seicento e all’arte barocca. In corrispondenza delle diverse campate si avviluppano e sporgono verso l’esterno elementi decorativi in ferro battuto, che esprimono la singolarità di questo ponte. 
Il motivo decorativo è rappresentato da nastri in ferro intrecciati, rivestiti in oro, alla cui base terminale sono posti ricchi tralci di foglie e di uva a grappoli, che dovevano fornire l’auspicio di un augurio, nel dare il benvenuto in città. Sui quattro pilastri angolari su basamenti in pietra vengono poste delle tessere mosaicate, quattro figure simboliche con grande risalto della decorazione in oro: in essi vengono rappresentate al contempo l’Aquila asburgica con la doppia configurazione (che guarda ad Oriente ed Occidente), l’ Aquila Tirolese e lo stemma della città meranese. 
Sembra quasi di vedere, ancora adesso, ufficiali austroungarici in alta uniforme insieme alle loro consorti con l’ombrellino parasole e le ricche gonne in crinoline, attraversare il ponte della Posta. Il ponte di un epoca perduta per sempre.

Autore: Flavio Schimenti

Locus qui dicitur Mairania

857 dopo Cristo: per la prima volta in un documento ufficiale compare il nome di Merano, con la dizione “locus qui dicitur Mairania”. Il piccolo insediamento abitato si affacciava sulle rive del Passirio, in corrispondenza all’attuale rione Steinach, estendendosi da piazza Duomo fino a porta Passiria. Una piccola chiesa era ivi presente, quella che nel corso dei secoli verrà trasformata nell’attuale Duomo. 
Nel 1237 viene citato un “forum Mairani”, nel 1260 un “burgum Merani”, nel 1278 “civitas Merani”. Nel 1295 Mainardo II conte di Tirolo farà di Merano la capitale del suo regno, e la data ufficiale sancita è il 1317. 
Ma già prima egli aveva dato un’impronta alla sua nuova città, rendendola un centro commerciale in competizione con Bolzano, riprendendone l’impostazione urbanistica attraverso un nucleo abitato porticato che si affaccia su una principale arteria di comunicazione. Il borgo era cinto da una cerchia di mura di forma quadrangolare, al quale si accedeva da quattro porte maestre. Il nucleo meranese ha però una particolarità rispetto a quello bolzanino: è più lungo di 100 metri, questo per rimarcare la sua importanza rispetto alla città “sorella”.
In più Merano venne dotata dell’Ospedale di Santo Spirito, vale a dire la struttura assistenziale più importante della regione. A ciò si aggiunsero l’istituzione del conio e della zecca, nonché di tutti i più importanti mercati stagionali. L’impostazione delle singole particelle edilizie sulla via dei Portici va dai 3,5 fino ai 5 metri. Sotto i portici si trovavano le botteghe, sopra le abitazioni e le corti interne, dietro di esse gli orti che giungevano fino alla cinta muraria.
Le architetture delle singole abitazioni nella loro conformazione attuale sono caratterizzate da forme del 500 e del 600. Fra le più belle svetta “Casa Turri”, con stilemi a carattere barocco. Come molti sanno, i Portici rivolti a nord sono chiamati “a monte”, mentre quelli rivolti verso sud “dell’acqua”. 
Gli Erker, come in tutto il territorio del Tirolo del Sud, caratterizzano con i loro giochi di sporgenze e rientranze anche i bei Portici di Merano. Essi erano il centro della vita domestica, soprattutto quella femminile: consentivano alle donne di guardare per strada senza essere viste o disturbate dagli sguardi insistenti di qualche sconosciuto. 

Autore: Flavio Schimenti

Knillenberg: il “buen retiro” dopo la guerra contro i Turchi

A causa della sua posizione privilegiata, panoramica e climaticamente mite, nel corso del XVII / XVIII secolo Maia Alta venne scelta dalla nobiltà meranese come luogo ideale per soggiornarvi. Vi sorsero numerose residenze nobiliari: Winkl, Rundegg, Reichenbach, Erlach, Rottenstein e Knillenberg. La storia di quest’ultima, in particolare, parte qualche secolo prima, quando Andrea Knillenberg, eroe della guerra contro i Turchi del 1493, chiese all’imperatore Massimiliano I la concessione per costruire una propria dimora nel meranese.
Egli acquistò nel 1513 un terreno a Maia Alta dagli allora proprietari, i signori di Zekolf, già in possesso di un castello del XIII secolo. La precedente costruzione venne in parte ristrutturata con l’aggiunta di una torre occidentale, mentre il palazzo residenziale venne sviluppato su tre piani sul lato nord ed altre costruzioni di servizio sorsero sul lato sud. Nel 1614 i Knillenberg cedettero il castello ad Hans Eckhard von Rosenberg; il nuovo proprietario vi apportò delle modifiche sostanziali, ponendo mano a forti interventi di trasformazione.
Il castelletto divenne una dimora tardo – rinascimentale, seguendo le nuove esigenze dell’epoca. Per eseguire tale intervento venne chiamato uno degli architetti più brillanti di quel periodo presenti nel territorio tirolese: Francesco Lucchese. Il progettista di origine italiana aveva operato con successo ad Innsbruck, riportando gli echi dell’architettura manierista lombarda e romana nelle vallate alpine. Fra il 1614 ed il 1616 mise mano alla residenza nobiliare, trasformandola in comoda abitazione rinascimentale. 
Mantenendo l’aspetto severo del castello, come avviene in quasi tutti i manieri dell’ Alto Adige, lo trasformò in una maestosa architettura adorna di lesene, losanghe, timpani, frontoni e quant’altro. I torrioni medievali vennero trasfigurati in splendidi elementi verticali a base quadrata sui quali venirono a dipanarsi, su più livelli, tutti i linguaggi architettonici del mondo classico. La torre principale venne fatta culminare con una lanterna a base ottagonale sovrastata da una base quadrangolare. 
A detti interventi ne seguiranno altri, apportati dagli altri proprietari che si sono succeduti.
Nella metà del ‘700 i Knillenberg tornarono proprietari della nobile residenza e nel 1776 il pittore Josef Wengenmayr adornò le sale degli interni con scene di gusto settecentesco. Lo stesso artista decorò la cappella ricavata sul torrione del lato sinistro. Nel 1960 il barone Kripp provvederà quindi al restauro dell’intero ciclo di affreschi.

Autore: Flavio Schimenti

Quando Armando Ronca portò un angolo di Hollywood in città

Dell’ingegnere Armando Ronca e di come abbia inciso fortemente nella storia urbanistica ed architettonica di Merano nel corso del ‘900, ne abbiamo scritto anche di recente. Questa volta parleremo invece di un precedente architettonico che stravolgerà l’estetica e le costruzioni locali, nei primi trent’anni del novecento.
Nel 1935 il giovanissimo Ronca ottiene l’incarico di realizzare in via Cavour 66 a Merano una residenza per il Cavalier Antonio Cembran. 
La collocazione del sito è spettacolare, leggermente in posizione elevata rispetto al centro storico meranese e poteva godere di una visione privilegiata sulla città. Il progettista ha praticamente “carta bianca” da parte della committenza e non vi sono vincoli urbanistici o paesaggistici particolari. Tutte le fantasie progettuali di Ronca possono dunque essere attuate, proprio a Merano, anticipando di qualche anno ciò che realizzerà in Alto Adige ed altrove. L’obiettivo è quello di avere grandi superfici vetrate che guardano verso la città ed il suo contesto verde ed ambientale. 
Il progettista opterà per una “pianta libera” alla maniera razionalista, il linguaggio è quindi geometrico e non formale. La costruzione verrà realizzata su due livelli, dove una scalinata con un ampio terrazzo introduce i visitatori ad un ampio salone d’ingresso di 9 metri per 9,30. Il piano sottostante è destinato a studio e in parte ad abitazione. La pianta è sostanzialmente  quasi quadrangolare, con una leggera traslazione sul lato sinistro. 
Sul lato dove colloca gli studi del cavaliere, Ronca realizza anche un grande terrazzo con il “giardino d’inverno”, il quale si estende per tutta la lunghezza della facciata. Le dimensioni degli ambienti sono tutti ampi e spaziosi ed i percorsi abitabili sono tutti concettuali e razionali. Come in gran parte degli edifici realizzati da Ronca, per la distribuzione degli spazi interni il concetto di “corridoio” è abolito. Uno spazio centrale, distribuisce infatti tutti gli spazi abitati interni. 
C’è un po’ di cultura veneta in tutto questo: Ronca era nato a Verona e le ville venete, nonché quelle palladiane, sono proprio impostate su tale concetto. Le superfici esterne rivestite in travertino di un bianco abbagliante – in contrasto col giardino verdissimo, trattato all’inglese – ne fanno una delle ville più belle ed invidiate di Merano e non solo.
A questa magnifica villa mancano le quattro statue che erano previste nei due scaloni di ingresso, forse bocciate dalla committenza per gli eccessivi costi, ma che ne avrebbero fatto a tutti gli effetti una residenza hollywoodiana.

Autore: Flavio Schimenti

Un principe-frate fra le mura del convento dei Cappuccini

Il nome di Giovanni Battista da Modena forse non ci dirà un granché. Se a tale nome aggiungiamo Alfonso III d’Este allora il racconto della nostra storia, che andremo a narrare, ci  parrà un po’ più chiaro. 
Alfonso d’ Este, principe di Ferrara, Modena e Reggio Emilia, appartenente ad una delle casate più antiche d’Europa (1039), abbandonò i propri abiti nobiliari ed i pregi di corte, per indossare l’umile veste del saio cappuccino. Prese il nome di padre Giovanni Battista da Modena dopo aver abdicato nel 1629 ed al suo superiore del convento di Bologna chiese di essere mandato in missione. Il superiore lo accontentò e il frate venne inviato al convento dei Cappuccini di Merano. Il suo arrivo mise in subbuglio tutto il territorio tirolese ed i loro regnanti, i quali avevano favorito la costruzione dei conventi cappuccini in quasi tutte le località del Nord e del Sud Tirolo. La costruzione di quello dei Cappuccini di Merano era recentissima, 1615, realizzata per volere del vescovo di Coira e della casata degli Asburgo. 
Gli stilemi dell’architettura cappuccina, uguali in tutto il territorio del Tirolo, della Baviera e del Veneto, erano stati dettati dalle regole edilizie prescritte dal frate fabriciere Antonio da Pordenone. Presente anch’esso nel nostro territorio, egli aveva coniugato lo stile e la semplicità francescana con la razionalità palladiana e l’ispirazione della architettura alpina.

Padre Giovanni Battista, arrivato a Merano nel luglio del 1629, infervorò subito la piazza meranese con le sue possenti prediche. Divenne ben presto famoso, tanto che altre città ed altri conventi richiesero la sua presenza. Venne chiamato ad Innsbruck, Ratisbona, Gorizia e Milano. 
A Merano vi restò poco meno di due anni fra il 1629 ed il 1631. Nelle sue note si lamentava del clima rigido e poi anche scriveva : “Son più Italiano che Todesco … e mi rammarico per le tante calamità che affliggono l’Italia…”.
La sua presenza a Merano, come quella di tanti frati, non venne dimenticata: l’Ordine dei frati Cappuccini divenne fra i più amati dalla popolazione altoatesina; nel convento dei Cappuccini della città del Passirio gli venne eretta una piccola edicola, con la sua immagine tutt’ora venerata e custodita gelosamente.
Il principe – frate tornò verso le proprie terre natali e si spense in quel di Castelnuovo il 24 maggio del 1644, mantenendo però un caro ricordo dell’esperienza meranese, dove finalmente aveva ritrovato, come disse, “l’animo quieto”.

Nell’immagine principale: il convento dei Cappuccini

Autore: Flavio Schimenti

Un superarchitetto per creare l’ippodromo più importante d’Europa

Per più di un secolo il nome di Merano in tutto il mondo è stato associato, per molti, al suo ippodromo, alla sua storia ed alla sua rinomata lotteria. L’attuale impianto ha un progenitore; le cronache infatti ci narrano che già nel 1896, nella stessa area venne realizzata una prima pista destinata alle corse dei cavalli sul piano e ad ostacoli. Nel 1900 viene abbozzata una struttura più consolidata, ma bisognerà aspettare altri 28 anni per dare luogo all’impianto che oggi conosciamo. Ad attuarlo viene chiamato a Merano il più importante architetto di architetture sportive dell’epoca. Il suo nome è Paolo Vietti Violi (Grandson/Svizzera 1882 – Vogogna 1965). Fu il primo architetto italiano a laurearsi all’ Ècole Nationale Superieure des Beaux-Arts di Parigi nel 1905. Nel 1911 aveva già realizzato l’ippodromo di San Siro, nel 1923 quello di Monza e di Grosseto, nel 1924 quello delle Capannelle a Roma, nel 1926 quello di Agnano a Napoli e nel 1928 delle Cascine a Firenze. In quello stesso anno, nel 1928, a Merano realizza un primo impianto dotato di due piccole tribune perfettamente simmetriche e la pista viene definita nella forma attuale.  Ma, nel 1935 per dare maggiore prestigio internazionale alla corsa dei cavalli di Merano ed alla lotteria con essa associata,  verrà ampliata notevolmente la capienza delle tribune. Gli spettatori divisi , fra pubblico e tribuna d’onore arriveranno a ben 15.000. Il linguaggio formale sarà quello della architettura razionalista, geometrie semplici con pensiline aggettanti di ben 12 metri, pilotois alla Le Corbusier, scalinate monumentali disposte simmetricamente. Sui fianchi oblò finestrali richiamanti l’architettura marittima. L’ippodromo di Merano diventerà ben presto il più importante d’Europa e la sua lotteria diventerà il suo traino più importante. Per decenni infatti essa, vanterà di essere, fra le lotterie nazionali esistenti, quella col più ricco montepremi. Su via delle Palace le pure e semplici architetture dell’ippodromo ne fanno qualcosa di monumentale e di maggior riuscita dell’architettura razionalista presenti in Alto Adige. Al progetto dell’ippodromo verrà affiancato il maneggio per i cavalli, con 260 box , denominato Borgo Andreina.

L’ippodromo nel 1928

Chi era Paolo Vietti Violi

L’architetto Paolo Vietti Violi nasce a Grandson, Vaud, nella Svizzera francese da genitori italiani, per la precisione ossolani, che lì risiedevano per ragioni di lavoro. Studia a Ginevra e Parigi. Ottiene il diploma di Architetto alla Scuola Nazionale e Speciale delle Belle Arti di Parigi (École Nationale Supérieure des Beaux-Arts) nel 1905. Diviene il primo architetto italiano diplomato dal Governo francese. Si trasferisce a Milano, dove nel 1914 si ri-laurea al Regio Istituto Tecnico Superiore, al fine di esercitare la sua professione in Italia. Inizia la carriera come designer nel campo delle strutture sportive quali ippodromi, campi di gara, stadi e le loro strutture complementari.

Foto: Emilio Sommariva

Lavora in Italia ma anche in diversi paesi dell’Europa centrale, realizzando diversi progetti in Turchia, successivamente in India, Africa orientale e meridionale, America. Nel 1907 sposa Maria Biraghi Lossetti, un’ereditiera aristocratica dei signori di Vogogna Biraghi Lossetti, dalla quale ha l’anno seguente il figlio Emanuele, che diventa architetto e suo collaboratore a Milano. È un ufficiale di artiglieria in Genova durante la prima guerra mondiale e nel 1944 diventa sindaco di Vogogna durante la repubblica partigiana dell’Ossola. Vietti Violi muore a Vogogna a 83 anni, il giorno di Natale del 1965. Stava ancora lavorando sul campo di regata Parilly di Lione e presso la nuova chiesa di Villadossola coadiuvato dal suo assistente del momento, l’architetto Vladimiro Francioli. Durante la sua vita Vietti Violi realizzò progetti di opere religiose, fra cui anche la chiesa parrocchiale di Cermes, in Alto Adige.

Immagine principale: Raccolta Helene Oberleiter

Autore: Flavio Schimenti

L’Eurotel, un prototipo per la rivoluzione del turismo

Quanti passano oggi fra via Garibaldi e viale delle Terme e osservano quell’inconsueto edificio scuotono la testa, borbottano qualcosa, e lo definiscono “l’ ecomostro di Merano” o peggio “il luogo per eccellenza di degrado e di abbandono”.
Eppure una volta non era così.
Fra il 1958 ed il 1959 si rivoluzionò, infatti e per sempre, il modo di concepire il turismo in città ed in tutta Europa.
Merano venne scelta per il lancio di una nuova esperienza turistica, architettonica e di investimento: l’Eurotel di Merano, fu il prototipo di una catena di alberghi che si svilupperanno, con le stesse modalità in tutto il continente europeo (arrivando a ben 41 di queste strutture). Il luogo scelto era decisamente propizio: prospiciente al fiume Passirio, al Kurhaus ed al viale delle Terme.


La “firma” è di Armando Ronca, il progettista che rivoluzionò l’ architettura moderna in Alto Adige fra gli anni Trenta e Sessanta; è lui che decide di incurvare in maniera clamorosa il grande blocco edilizio. L’espediente è semplice e allo stesso tempo rivoluzionario: permettere che ogni singola stanza dell’albergo possa godere sempre dei raggi della luce solare. I moduli abitativi, inoltre, sono ripresi dalla “Unité d’habitation” di Le Corbusier.
L’edificio ultramoderno, contrassegnato di ogni comfort dell’epoca, era lungo 74 metri, con 148 camere, ben 228 posti. Era completamente autonomo: ogni stanza poteva avere oltre ai posti letto una propria cucina, un piccolo salotto, un passavivande collegato al sottostante ristorante ed un moderno sistema di telefonia.
Al piano sottostante si trovano negozi e sarebbe stato previsto anche un cinema, che però non venne mai realizzato. Gli spazi sono tutti moderni, funzionali e ispirati ai canoni dell’architettura razionalista.
La formula dell’ Eurotel era molto semplice: chi acquistava una unità immobiliare a Merano la poteva scambiare con una analoga e con le stesse caratteristiche in qualsiasi altra parte del Continente europeo. Così facendo si potevano fare le vacanze, in posti diversi e con un buon investimento finanziario. Le cronache dell’epoca narrano che in Germania più della metà delle unità immobiliari erano già state vendute ancora in fase di costruzione dell’edificio.
“L’Eurotel è un modo spontaneo per unire i popoli. Quando persone di culture differenti si conoscono nell’ambito familiare, i pregiudizi spariscono. Lasciate che tutti possano godere in armonia le bellezze della natura: il mondo sarà migliore”, spiegava un depliant dell’epoca.
L’Eurotel di Merano è un pezzo della storia della città e del turismo moderno europeo, e sarebbe da preservare e valorizzare, e sicuramente non da abbandonare al proprio attuale destino.

Da Villa Cembran a San Siro

Il gruppo Eurotel fu fondato nel 1956 da Gennaro Vanzo (1914 – 1998) a Bolzano, con l’intento di combinare il principio dell’albergo con quello del condominio. Il primo Eurotel è stato aperto a Merano nel 1959 ed è stato sviluppato in stretta collaborazione con l’architetto Armando Ronca, che era anche responsabile della standardizzazione delle unità abitative. Dopo questo prototipo, altri 35 Eurotel sono stati costruiti entro la metà degli anni ‘80 in tutta Europa (e in Repubblica Dominicana) con un totale di circa 5.700 camere. Oggi, circa due terzi degli Eurotel originali continuano come alberghi tradizionali, mentre un terzo sono stati convertiti in condomini. All’architeto Armando Ronca si devono altre grandi opere: oltre all’Eurotel a Merano progettò Villa Cembran (1935), a Bolzano il Palazzo del Turismo che dal 1947 divene Cinema Corso, poi demolito nel 1988. Progettò anche l’Istituto Rainerum, il complesso residenziale Ina-Casa (1964), la Chiesa Pio X di via Resia (1970) e inoltre l’estensione dello stadio di San Siro a Milano (1955).

Autore: Flavio Schimenti

Sulle rocce di Castel San Zeno le origini della “civitas meranese”

275 d. C.: gli Alemanni iniziano ad invadere il territorio alpino. Un periodo di grande instabilità si ripercuote per tutta la regione, e nel 476 d. C. cade in maniera definitiva l’Impero Romano d’Occidente. 
Scorrerie e dominazioni di Goti, Baiuvari, Longobardi e Franchi, si susseguono incessantemente nel corso di quegli anni. Le popolazioni romanizzate della piana meranese troveranno rifugio su un pianoro conosciuto sin dall’epoca preistorica: tale sito è conosciuto attualmente col nome di Castel San Zeno.
Esso si presenta inaccessibile e difeso naturalmente su tre versanti. Il pianoro posto sulla strada che conduceva verso passo Giovo era diventato già in epoca romana presidio militare, “castrum maiense”. La rocciosa altura, a picco sul Passirio, godeva di una grande cisterna d’acqua che i latini avevano potenziato e resa operativa. Gli abitanti della piana meranese, guidati dal loro vescovo Valentino, lì vi trovarono rifugio. Rafforzarono il sistema difensivo, costruirono una piccola basilica paleocristiana e si insediarono sul quel pianoro, sicuro. 
L’edificio sacro venne dedicato a San Zeno, vescovo di Verona dal 362 d.C. La dedicazione della costruzione a tale santo non è casuale: egli, infatti, fu il primo vescovo che si trovò a dovere gestire il problema delle popolazioni germaniche che avevano varcato le Alpi. L’architettura si presentava con una sala unica, realizzata col materiale del posto, completata da un abside ed un presbiterio.
Alla sua morte (470 d.C.) Valentino venne proclamato santo, ed al culto del santo veronese, si aggiunse il suo. Ma un altro vescovo, successivamente, era affascinato da quel luogo. Corbiniano, vescovo di Frisinga (670 – 730 d.C.) frequentava assiduamente le prediche che si svolgevano presso la chiesetta di San Valentino, tanto, secondo le leggende, da precipitare sul Passirio e lì morire. San Valentino e poi San Corbiniano trovarono degna sepoltura presso quel luogo di culto. La primitiva costruzione ecclesiale venne arricchita di un secondo abside e presbiterio, parallelo a quello precedente, per dare modo di venerare degnamente le due figure di santi, ivi sepolti. 
Il Castrum meranese, sotto la protezione di ben tre santi, vigilerà per ben otto secoli di storia, sulla piana del Passirio e sulla sua popolazione. La denominazione attuale di castel San Zeno si deve al fatto che, a partire dal 1277, Mainardo II di Tirolo, di quel luogo volle farne la propria residenza. 
Egli preferì quel sito, perché più prossimo a Merano rispetto al più periferico castel Tirolo. Provvide a risistemare tutto il sistema difensivo, rafforzò la cinta muraria, innalzò il grande mastio, edificò il palazzo residenziale e la chiesa presente divenne cappella Palatina.

Autore: Flavio Schimenti

Quella ragazza assorta nel condannare i crimini nazisti

Merano, notte del 15 settembre 1943. Un gruppo armato del S.o.d, acronimo di “Servizio di ordine pubblico sudtirolese” al servizio delle Ss e della Gestapo, rastrella nella città donne e bambini di origine ebraica.
Sono quarantatre persone che – impaurite e spaventate, con urla, spintoni e sotto la pressione dei fucili mitragliatori – vengono condotte nelle cantine della Casa del Balilla. Il loro destino è segnato, dopo un breve interrogatorio, in quella notte stessa, verranno condotte presso i campi di sterminio di Reichenau (Innsbruck) e poi ad Auschwitz – Birkenau. Solo una di quelle quarantatre persone sopravviverà alle atrocità dei lager.
Il suo nome è Walli Hoffman.
Tornata a Merano nel dopoguerra, Walli convinse la Comunità ebraica ad erigere un monumento in ricordo di quell’efferato crimine.
L’opera venne affidata ad una giovane artista, figlia di una delle quarantatre vittime dei nazifascisti. Il suo nome era Ceza Somoskeoy e si mise subito all’opera. La statua doveva rappresentare tutta l’infinita dolcezza e gentilezza, in contrapposizione all’odio e la rabbia che hanno altresì caratterizzato i due regimi autoritari. L’opera realizzata in marmo bianco raffigura una giovane donna, vestita con una sobria tunica dalle mille pieghe e tesature. È in ginocchio, ma non sta implorando “alcuno”, il suo sguardo è rivolto verso l’alto, raccolto e sereno, in un punto che sembra guardare verso l’infinito. Le mani sono giunte, ma non stanno pregando, sembrano quasi avere pietà nei confronti dei propri aguzzini. Tutta l’opera tende ad esprimere una grande serenità ed una inesauribile bellezza , nei confronti di un grande dolore e di un atto atroce, ovvero l’eliminazione dell’altro e del diverso. Collocata all’interno di un condominio in via Otto Huber l’opera fa tutt’ora bella mostra di sé nei pressi del luogo dove sorgeva, la demolita Casa della G.i.l., insieme ad una targa commemorativa che ci ricorda i fatti di quella tragica notte meranese.
Di recente la statua è stata completamente ripulita dall’incuria del tempo, a cura del nostro gruppo di volontari di Retake insieme agli amici di Merano.
Spetta ad ognuno di noi ricordarci di come è stata atroce e crudele la guerra, ma di come da essa possano nascere opere che ci ricordano altro. E di come – in effetti e citando il filoso Cvetan Todorov – la bellezza è l’unica arma che può salvare il mondo.

Autore: Flavio Schimenti

Un tesoro nella Canonica della chiesa di Santa Maria del Conforto

Nella Canonica della chiesa di Maia Bassa, dedicata alla Vergine del Conforto, è nascosto un tesoro artistico e architettonico, forse sconosciuto ai più.
Si tratta della Sala di San Valentino realizzata nello stile del tardo barocco ad opera del pittore Josef Wengenmayr nell’anno 1756. A lui si devono anche gli affreschi della volta della parrocchiale di San Giorgio a Maia Alta e quelli della cappella di Castel Rubein. L’interno della canonica è interamente dipinto, non vi è alcun spazio ove lo sguardo si possa posare che ne sia privo. Si tratta di un “ theatrum sacrum”, come veniva chiamato in epoca barocca, uno spazio dove il soggetto, a carattere sacro, poteva essere rappresentato in forma quasi teatrale. Ecco quindi che l’artista si inventa un fondale scenografico su quattro lati, ricco di colonne dipinte, lesene, trabeazioni, ghirlande pendenti, medaglioni, riquadri, motivi floreali, mascheroni, vasi ricolmi di fiori ecc.

La Sala di San Valentino
La Sala di San Valentino

La sala, di forma rettangolare, ha un soffitto ribassato a carena di nave ed esso è in continuità pittorica con le strutture dipinte sottostanti.
I vari medaglioni presenti alle pareti raffigurano scene della vita di San Valentino, mentre al centro della sala, sulla volta affrescata, viene raffigurata “l’allegoria di san Valentino in gloria”. Anche qui il modello è lo sfondamento scenico, con la volta celeste dipinta alla maniera di Piero da Cortona e degli altri artisti del seicento e settecento. Alle pareti compaiono anche le allegorie della Fede e di Cristo con il simbolo del pellicano (secondo la tradizione popolare, esso si strappa la propria carne per dare da mangiare ai propri piccoli).
A completamento della sala il pavimento presenta un ricco motivo ligneo, con una stella poliedrica inserita all’interno di un ottagono (simbolo della perfezione e della Resurrezione).
La Canonica è un piccolo gioiello dell’arte e dell’architettura altoatesina presente a Merano, tutto da vedere e da gustare con lo sguardo.

In foto principale: ManfredK

Autore: Flavio Schimenti