Il ricordo a Bolzano di Claudia de’ Medici

Via Claudia de’ Medici: è la strada, che porta a Castel Mareccio, intitolata ad una esponente della nota famiglia fiorentina. Nona e ultima figlia di Ferdinando I de’ Medici, Granduca di Toscana, e di Cristina di Lorena, Claudia Felizitas era nata a Firenze il 4 giugno 1604. Dalle nozze del 29 aprile 1620 con Federico Ubaldo della Rovere, duca di Urbino,  nel febbraio 1622 nacque la figlia Vittoria. Morto il duca Federico il 29 giugno 1623, Claudia ritornò a Firenze il 19 agosto. Ben presto si presentò un nuovo partito, nella persona dell’arciduca d’Austria – Tirolo, Leopoldo V d’Asburgo. Se fu trionfale l’ingresso della nuova principessa a Innsbruck, sfarzose furono le nozze e lunghi i festeggiamenti. Ebbero cinque figli. Leopoldo V si trovò a governare una situazione difficile (Guerra dei Trent’anni, crisi economica, epidemie, rapporti con i vescovi di Bressanone e Trento ecc.). Morto Leopoldo V, il 13 settembre 1632, gli succedette come reggente Claudia Felicitas. Non furono pochi i problemi che Claudia de’Medici, arciduchessa d’Austria e contessa del Tirolo, dovette affrontare nei quattordici anni di reggenza, dal 1632 al 1646. La sovrana parlava, oltre all’italiano, il francese, lo spagnolo, il latino; conosceva abbastanza bene la lingua tedesca. Svolse il suo compito con fermezza; sapeva discutere con uomini esperti di affari di Stato, sorpresi dalla sua intelligenza e dalla sua memoria. Claudia de’ medici, nel pieno della Guerra dei Trent’anni, con la sua abilità politica e diplomatica fece evitare al Tirolo l’orrore dell’invasione e delle distruzioni, provocate da Leghe svizzere, armate francesi, imperiali e spagnole. Diffusasi anche in Tirolo la peste del 1634-1637, l’arciduchessa a fine settembre 1634 riparò a Merano e a metà novembre si trasferì a Bolzano, accolta festosamente. La città era grata dell’autonomia che aveva potuto sviluppare, prima con Leopoldo, poi con la reggente. Era grata anche per aver istituito, proprio a Bolzano, un Magistrato Mercantile. Claudia Felicitas morì a Innsbruck il 24 dicembre 1648; fu deposta nella cripta della maestosa chiesa dei Gesuiti. A Claudia de’ Medici è dedicato anche l’Istituto di Istruzione Secondaria di Secondo Grado sito in Via San Quirino 37, nel quartiere di Gries.

Autore: Leone Sticcotti

Bolzano ricorda il santo Freinademetz

Nella zona di Aslago esiste dal 1960 una Casa dei Missionari Verbiti, la Casa Freinademetz; si trova in via Ujöp Freinademetz, intitolata al missionario che dalla nativa Val Badia raggiunse la Cina, dove svolse finché visse la sua attività missionaria. Nato a Ojes in Val Badia il 15 aprile 1852, frequentato il Ginnasio a Bressanone, nel 1872 entrò nel seminario diocesano. Fu ordinato sacerdote il 15 luglio 1875 dal principe vescovo di Bressanone, Vinzenz Gasser; era l’anno di fondazione, da parte del sacerdote tedesco Arnold Janssen (1837-1909), della Società del Verbo Divino (SVD), la società dei Missionari Verbiti. Cooperatore alla cura d’anime dal 1875 al 1878 in Val Badia, il 28 febbraio 1878 Freinademetz chiese di essere ammesso alla Casa missionaria di Steyl (Tirolo). Arnold Janssen esaudì tale desiderio. Il 15 marzo fu inviato come primo Missionario Verbita in Cina, assieme al futuro vescovo J.B. Anzer. Dopo un periodo di inserimento, nella zona di Hong Kong, ambedue nel 1881 assunsero la missione nello Shantung meridionale, che a quel tempo contava 158 cristiani, e nella quale Freinademetz operò circa 30 anni. Dal 1900 al 1903 fu anche Superiore dei Missionari Verbiti della zona; fu per cinque volte Amministratore della Missione e dal 1904 al 1908 collaboratore del vescovo Henninghaus, successore di Anzer, deceduto il 24 novembre 1903. In Freinademetz ci fu un processo di profonda trasformazione interiore; il tirolese degli inizi fece posto a un Giuseppe Freinademetz genuinamente cinese; la sua fiorente opera fu interrotta nel 1889 dalla rivolta nazionalista dei Boxer; fu maltrattato e dovette fuggire. Ritornato alla missione nello Shantung, si impegnò sopratutto nel campo sociale e scolastico. Come Superiore del territorio missionario si consumò per i suoi amati cinesi, morendo per un’epidemia di tifo il 28 gennaio 1908.

Leone Sticcotti

Sebastian Altmann nel ricordo della città

A Bolzano Sud vi è, collegante via Buozzi a via Keplero, via Sebastian Altmann, dedicata a chi con Bolzano ebbe forte legame, essendone stato “l’architetto civico”. Nato a Bad Reichenhall (Baviera) il 19 gennaio 1827, venuto a Bolzano intorno al 1855 come assistente edile, ritornatovi come architetto nel 1857, il 27 giugno fu nominato “architetto civico” . Erano anni in cui, con la realizzazione della ferrovia e la nascita delle prime aziende di tipo industriale, Bolzano diveniva anche ambita meta turistica come stazione climatica; Altmann poté costruire eleganti hotel, nonché sanatori, passeggiate e giardini. Visto il notevole slancio economico-culturale della città, l’architetto fu incaricato di ridisegnare la città, con una sorta di piano regolatore. Il primo intervento di pianificazione urbanistica fu la costruzione del quartiere prospiciente la stazione ferroviaria. Seguì il progetto per la Neustadt, la zona comprendente le odierne via Dante, via Carducci, via Cassa di Risparmio. I due nuovi quartieri vennero uniti dalla piazza Domenicani, che divenne punto di congiunzione con il centro medievale, mentre Johannsplatz (ora piazza Walther) assumeva la funzione di centro, anche ideale, della nuova città ottocentesca. Iniziava così un periodo produttivo per l’architettura bolzanina, aperta agli influssi esterni, provenienti in particolare da Monaco.
Tra i progetti del 1879 vi è la villa Defregger in via Weggenstein (in cui soggiornò periodicamente il pittore Franz von Defregger), mentre è del 1880 la direzione dei lavori di restauro di Castelroncolo. È del 1888 l’edificio, sito in piazza Gries 18, allora adibito a sede del Municipio di Gries e a scuola maschile; dal 1889 di proprietà del Comune di Gries, nel 1925 passò al Comune di Bolzano; la “Casa Altmann” ospita gli uffici del Centro civico e la sede di alcune associazioni. Sebastian Altmann, il quale prestò la sua opera anche a Ora, Laives, Maia Bassa, Terlano e Andriano, morì a Bolzano il 27 luglio 1894.

Autore: Leone Sticcotti

Un edificio e una strada per Adolph Kolping

Doppia intitolazione ad Adolph Kolping, quella di una via bolzanina e di un importante  edificio, la “Casa Kolping”. Chi era e cosa fece? Nato l’8 dicembre 1813 a Kerpen (Renania), nei pressi di Colonia, a 13 anni imparò a fare il calzolaio a Kerpen e altrove, fino a Colonia, dove si rese conto della condizione giovanile in quel tempo in Germania. Crescendo il desiderio di farsi sacerdote, frequentò il ginnasio Marzellen di Colonia, conseguendo la maturità classica il 3 aprile 1841. Il 15 maggio si immatricolò all’Università di Monaco. Dopo due anni proseguì gli studi di filosofia e teologia a Bonn; il 26 marzo 1844 entrò nel seminario di Colonia. Fu ordinato sacerdote il 13 aprile 1845. Ebbe vari incarichi a Eberfeld, dove conobbe il “Gesellenverein”, associazione cattolica di artigiani, comunità pedagogica e culturale, di cui Kolping divenne l’assistente religioso. Il 15 marzo 1849 fu nominato vicario del duomo di Colonia. Il 6 maggio fondò il “Gesellenverein” di Colonia. Da Colonia l’opera di Kolping si diffuse in Europa e in America del Nord, grazie anche all’instancabile impegno di Kolping come giornalista. Nel 1854 visitò a Bolzano il primo  “Gesellenverein” del Tirolo meridionale, fondato il 5 marzo 1854. Seguirono Case Kolping a Merano, Bressanone, Vipiteno, Brunico; l’intento era dare ai garzoni, e ai giovani apprendisti, vitto e alloggio, nonché assistenza. Necessitava una casa per l’accoglienza dei giovani artigiani e lavoratori che venivano dai comuni limitrofi a lavorare a Bolzano. Trovato il terreno nelle vicinanze dell’ospedale, la posa della prima pietra ebbe luogo il 19 marzo 1866. Dopo l’ampliamento del 1907, si arrivò alla terza Casa Kolping, inaugurata il 14 giugno 1985, che poteva ospitare 150 giovani, lavoratori o studenti. Circa il fondatore, Kolping fece altri viaggi in Europa, che influirono sulla sua già malferma salute;  Adolph Kolping morì il 4 dicembre 1865. Fu beatificato in San Pietro il 27 ottobre 1991. L’opera arrivò ad avere più di 500 mila membri in 61 paesi del mondo.

Autore: Leone Sticcotti

La strada dedicata a Peter Mitterhofer

Al limite sud della città e della zona industriale vi è, vicina a via Einstein, via Mitterhofer Peter.  Nato il 20 settembre 1822 a Parcines, in Val Venosta, imparato il mestiere del padre, falegname e carpentiere, Peter si mise a viaggiare, toccando vari paesi europei, per completare la sua formazione. A quarant’anni tornò al paese natale, si sposò con la vedova Maria Steidl, figlia di un carpentiere. 

Di gioioso temperamento, Peter fu in paese punto di riferimento; nel suo ambiente sviluppò alcune doti, come imitare le voci di animali, o quella del mimo, o nel far versacci; si aggiunga il ventriloquio. Ma era anche musicista:  padroneggiava la chitarra e la viola da gamba. Alcuni strumenti se li costruì da sé.  Annunciava con appositi manifesti le serate di intrattenimento,  a Parcines, a Merano e altrove. La sua creatività lo spingeva a escogitare migliorie e invenzioni e a metterle alla prova, per aiutare i contadini, o le casalinghe.Volò ancor più alto con la fantasia e la creatività, decidendo di por mano alla costruzione di una macchina per scrivere. Di tale macchina, inventata nel 1864, sviluppò man mano cinque modelli, due dei quali in legno con caratteri che  a punte di aghi perforavano la carta, e tre modelli in metallo per la battitura dei caratteri. Per far sviluppare la sua invenzione, presentato nel 1866 il primo modello in metallo, il 25 febbraio 1867 fu sovvenzionato con 200 fiorini dall’imperatore Francesco Giuseppe. Costruiti altri due modelli, si presentò a Vienna con il quinto modello; l’imperatore acquistò la macchina per 150 fiorini. Nel 1873, colpo di scena, la ditta americana Remington lanciò sul mercato una macchina da scrivere prodotta in metallo, corrispondente esattamente al sistema elaborato da Mitterhofer. Fu per lui un duro colpo dover vedere che i propri sforzi intellettuali non avessero prodotto il sia pur minimo successo materiale. 

Amareggiato, si ritirò nella semplicità della sua vita professionale d’origine. Morì senza eredi il 27 agosto 1893; fu sepolto nel cimitero del suo paese natale, accanto alla chiesa.

Autore: Leone Sticcotti

La strada dedicata a don Narciso Sordo

Per accedere da via Resia al “Quartiere Firmian” vi è anche “via Narciso Sordo”. Chi era e cosa fece? Nato il 15 gennaio 1899 a Casteltesino (Trento), dopo l’arruolamento, il confino politico, la ripresa degli studi, divenne sacerdote il 29 giugno 1922. Cooperatore parrocchiale ad Arco, fu poi animatore della parrocchia del Duomo. Docente e prefetto del Liceo vescovile di Trento, si laureò in Scienze Sociali a Bergamo; passò poi all’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige. Fu tra i pochi che non condividevano quanto proponeva e imponeva il regime fascista. Dall’autunno 1942 fu a Bolzano come cooperatore della parrocchia San Giovanni Bosco, nel quartiere noto per le “Semirurali”. Insegnante di catechismo nella scuola del quartiere, al termine dell’anno scolastico rientrò a Casteltesino per un soggiorno in famiglia; in tempi di occupazione nazista, si dedicò ai figli degli sfollati. Quando i partigiani il 14 settembre 1944 attaccarono la caserma del CST di Casteltesino, ci fu una tremenda reazione dei tedeschi. Oltre a rastrellare tutta la zona occuparono il paese. Ci furono diversi arresti; la mattina del 10 ottobre 1944 fu arrestato don Narciso, il quale si mise a confessare e confortare gli altri prigionieri; in serata fu rilasciato. Quattro giovani partigiani furono fucilati. Don Narciso, pur conscio di essere controllato, continuava i contatti con i partigiani. Arrestato il 10 novembre 1944, don Narciso, prigioniero a Grigno e poi a Roncegno, il 10 dicembre 1944 passò al Lager di Bolzano, assegnato al blocco E, dei politici, con il numero 7120. Don Narciso, oltre a privarsi della propria razione per sfamare gli altri, animò e incoraggiò i compagni, pregando per loro. All’inizio del febbraio 1945 fu tra i deportati trasferiti a Gusen. Sopportò con serenità, pur essendo malato, i lavori pesanti, mentre confortava e incoraggiava i compagni. Mentre era sottoposto a docce fredde, suonò l’allarme. Non vedendolo arrivare al rifugio, scesero al lavatoio, dove lo trovarono morto. Era il 13 marzo 1945. Il suo corpo fu bruciato.

Autore: Leone Sticcotti

La via dedicata ai Ventafridda, in zona

Tra le vie minori in zona industriale vi è via Domenico e Vincenzo Ventafridda. Diamo qualche notizia sul secondo, per il ruolo che ebbe per Bolzano. Dopo aver contribuito al successo del complesso produttivo della Società “Falck A.F.L.”, nel 1941 giunse  a Bolzano con la nomina di procuratore speciale e il 29 maggio 1942 assunse la carica di direttore generale delle Acciaierie di Bolzano, che mantenne fino al 1966, rimanendo nel contempo vicedirettore della Falck di Milano. Dirigente industriale di alte doti, tecnico valente e preparato, diede notevole contributo al progresso della moderna elettro siderurgia per la fabbricazione degli acciai speciali. La sua opera permise, nei difficili anni dal 1943 al 1946, la conservazione degli impianti e, a guerra finita, il potenziamento e l’ammodernamento dei mezzi di produzione. Non svolse solamente la sua opera di tecnico, ma anche una intensa attività di assistenza morale e materiale  a favore degli italiani, specie dei lavoratori della zona industriale e degli internati nel locale Lager, conducendo a buon fine, nei difficili momenti, delicate trattative con le autorità di occupazione. Fu sempre interessato alla vita della città e in particolare ai problemi dei quartieri operai. Lavoratore instancabile, dinamico, appassionato del suo lavoro, è stato stimato e  amato dalle maestranze e da quanti ebbero modo di conoscerlo, apprezzandone le doti. A Bolzano ebbe  incarichi dirigenziali in vari ambiti; tra l’altro, oltre che dell’Associazione industriali, dell’Ospedale civile, della Croce Rossa Italiana, dell’Istituto tecnico industriale. Generale fu il cordoglio per la sua scomparsa; dopo le esequie, che si svolsero a Milano il 12 ottobre 1982, nella chiesa di Santa Francesca Romana, la salma proseguì per Bitonto (Bari) per la tumulazione nella cappella di famiglia. Grande fu la partecipazione agli eventi funebri, con varie attestazioni pubbliche, come quelle di A.N.L.A., A.V.I.S., UNITALSI, Conferenza San Vincenzo, Associazione Industriali, Dirigenti Acciaierie.

Autore: Leone Sticcotti

La strada dedicata ad Antonio Stradivari

Capita che qualcuno vedendo un violino si chieda: “È uno Stradivari?”. Dire Stradivari è infatti dire violini. E Bolzano ad Antonio Stradivari, noto come costruttore di strumenti a corda, ha dedicato una via nella zona produttiva. Nato a Cremona nel 1643 da Alessandro e Anna Moroni, dal 1667 al 1679 fu allievo di Nicola Amati (1596-1684), il personaggio più carismatico della produzione liutaria della città. Nel 1680 Antonio Stradivari aprì la propria bottega in piazza San Domenico. Morto Nicola Amati, le commesse più importanti passarono a Stradivari, la cui produzione, mentre iniziava a scostarsi dal modello Amati, aumentò considerevolmente. L’originalità di Stradivari emerse prepotentemente; ciò che lo rese famoso erano le particolari tecniche di lavorazione degli strumenti a cui dava vita, ai quali applicava specifici trattamenti. Gli “Stradivari” debbono la loro particolarità alla qualità costruttiva e al suono impeccabile. Si è stimato che Antonio Stradivari nella sua lunga carriera abbia realizzato circa 1116 strumenti, di cui 960 violini. Lo aiutarono Francesco e Omobono, due dei cinque figli che Stradivari ebbe dal matrimonio nel 1667 con Francesca Ferraboschi; morta Francesca nel 1698, dal matrimonio di Antonio nel 1699 con Maria Zambelli Costa nacquero altri cinque figli. Nel corso degli anni sono emerse, da ricerche particolari, diverse teorie sui segreti di questi preziosissimi oggetti da collezione. Oltre ai violini, Stradivari realizzò anche arpe, chitarre, viole, violoncelli, bassetti, liuti, tiorbe, viole da gamba, mandole e mandolini, pochette. Stradivari continuò a lavorare finché morì, a 93 anni, il 18 dicembre 1737. Fu sepolto nella basilica di san Domenico, nella tomba di famiglia che si trovava all’interno della cappella del Rosario. Alla vita di Antonio Stradivari, interpretato da Antony Quinn, è dedicato il film “Stradivari” del 1988, regia di Giacomo Battiato.

Autore: Leone Sticcotti

La Via dedicata alla partigiana Laura Conti

Tra via Castelfirmiano e via Camponuovo c’è via Laura Conti, via in mezzo al verde di prati e campi, colore giusto per una paladina della natura e dell’ambiente. Nata a Udine il 31 marzo 1921, dopo l’infanzia a Trieste passò a Verona e infine a Milano, dove si iscrisse a Medicina; la lettura della biografia di Marie Curie le aveva fatto nascere la passione per la scienza. Entrata nel gennaio 1944 nella Resistenza, fu incaricata di fare attività di proselitismo tra i militari. Arrestata il 4 luglio 1944, dal carcere milanese di San Vittore fu trasferita al campo di transito di Bolzano, assegnata al Blocco F, numero di  matricola 3786. Non rimase inoperosa; in collegamento con la Resistenza esterna, fu attiva in quella interna. Liberata il 30 aprile 1945. laureatasi in Medicina, alla professione di medico affiancò l’attività politica e l’impegno culturale. Nel 1951 passò dal PSI al PCI; dal 1960 al 1970 fu consigliera provinciale, dal 1970 al 1980 consigliera regionale; tra il 1987 e il 1992 alla Camera dei Deputati. Circa l’impegno culturale, sono diversi gli ambiti in cui Laura Conti diede il meglio di sé, come la Casa della Cultura di Milano, l’Associazione “Gramsci”, la Lega per l’ambiente, la “Medicina democratica” (Centro di controinformazione sulla salute e sulla nocività in fabbrica). Fu intensa anche l’attività di divulgatrice scientifica, con numerosi libri e articoli, per far riflettere sulla “sostenibilità” ambientale  e sociale delle scelte industriali, economiche e politiche. Considerata la madre dell’ecologismo italiano, anche nel lavoro politico richiedeva l’analisi dei problemi ambientali, la valutazione della documentazione disponibile e il coinvolgimento della popolazione. Fu così che si regolò anche nel 1976, durante l’emergenza nube tossica a Seveso. Dal 1985 ebbe problemi di salute, ma continuò a diffondere la consapevolezza dei problemi ambientali. Le condizioni di salute peggiorarono alla  fine del 1992, ma continuò nel suo lavoro; morì improvvisamente, mentre progettava un nuovo libro, il 25 maggio 1993.

Autore: Leone Sticcotti

Il “passaggio” dedicato a Walter Tobagi

Sono molti gli inquilini degli edifici, di edilizia agevolata o privati, a transitare per il “Passaggio Walter Tobagi”, collegante viale Europa al “Passaggio Norma Cossetto”; ma quanti sanno chi era e cosa fece Walter Tobagi? Era nato il 18 marzo 1947 San Brixio, frazione di Spoleto; aveva otto anni quando la famiglia si trasferì a Bresso (Milano). Già frequentando il Liceo ginnasio “Giuseppe Parini” di Milano il giovane Walter mostrò doti di giornalista, come redattore del giornale della scuola, “La Zanzara”. Dopo il Liceo iniziò la carriera di giornalista all’ “Avanti” di Milano, ma dopo pochi mesi passò al quotidiano cattolico “Avvenire”.  In entrambi i giornali trattò diverse tematiche, ma crebbe l’interesse per i temi sociali, per la politica e il movimento sindacale. Il 14 aprile 1971 si sposò con Maristella Oliviero; Luca nacque nel 1973, Benedetta nel 1977; la figlia seguì le orme del padre come brillante e seria giornalista professionista. Non trascurando i temi economici, Walter Tobagi dedicò attenzione anche alla politica estera. Ma furono le vicende del terrorismo ad impegnarlo maggiormente; seguì le prime azioni delle Brigate Rosse, quanto facevano i gruppi estremisti di Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia. Passato nel 1972 al “Corriere della sera”, Tobagi mostrò le sue doti di inviato in fatto di terrorismo, come cronista politico e sindacale. Erano gli anni di piombo: Brigate Rosse, Prima Linea e altre bande armate furono protagoniste di vicende luttuose. Analizzando i laboratori del terrorismo nelle realtà urbane, come Milano, Genova, Torino, Tobagi denunciò i pericoli che il fenomeno terroristico si radicasse nelle fabbriche e in altri luoghi di lavoro. Il 27 maggio 1980 aveva presieduto un incontro al Circolo della stampa di Milano, sul tema della responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva dei gruppi terroristici. Riferendosi alla lunga serie di attentati, ebbe a dire: “Chissà a chi toccherà la prossima volta!” Toccò a lui! Infatti, alle 11 del 28 maggio, dei colpi di pistola, sparati da Mario Marano e Marco Barbone, posero fine alla vita del giornalista Tobagi.

Autore: Luca Sticcotti