Pietralba, Laives e i miracoli

In questo e nel prossimo numero vi presentiamo – suddiviso in due “puntate” – un singolare racconto del 1847 dello scrittore e giurista tedesco Ludwig Steub (1812-1888), da cui emerge in modo colorito ed efficace la Laives dell’epoca e la vivace vita dei suoi abitanti. La traduzione italiana è dell’autore di questa rubrica, ovvero Reinhard Christanell.

Molto tempo fa, su un vicino monte alto cinquemila piedi, dal quale si gode di una meravigliosa vista, sorse il santuario della nostra amata Signora di Pietralba. Un devoto contadino, ispirato da un segno divino, aveva infatti scavato nel terreno e trovato in un luogo indicatogli dalla stessa Vergine, una immagine di Maria di marmo bianco. Chi l’avesse precedentemente sepolta non è dato a sapere, e pensiamo che non sarà più possibile accertarlo, dato che nel frattempo sono trascorsi più di trecento anni. Il miracolo colpì assai il popolo, nacque una chiesa, la devozione crebbe di giorno in giorno e il santuario assurse a grande notorietà. Le ricche offerte tributate dai pellegrini infine convinsero anche il clero dello straordinario dono elargito dal cielo a questa ventosa altura; gli edifici inizialmente piccoli vennero successivamente ingranditi e finalmente nell’anno 1718 il nuovo, maestoso convento fu consegnato all’ordine dei Serviti.
In tal modo i “Servitori di Maria” vissero diversi decenni in lieta devozione sul loro monte della grazia (…) L’onorata casa progredì viepiù e l’immagine marmorea non smise di produrre i suoi quotidiani e reiterati miracoli fino all’anno 1787, quando l’imperatore Giuseppe sciolse la devota associazione, vendette gli edifici e dislocò la Sacra Immagine nella chiesa di Laives per sostenere una devozione meno sfarzosa. Da quel tempo però ci turba l’incertezza sul luogo esatto dove si trovi l’autentica Immagine Sacra.
I Servitori di Maria, infatti, continuarono segretamente a sostenere di aver consegnato solo una copia dell’immagine e di aver trattenuto il miracoloso idolo a Pietralba, luogo che essa stessa avrebbe eletto quale proprio domicilio. Questa credenza continuò a vivere anche tra il popolo, poco incline a credere alle esternazioni dell’imperatore Giuseppe e propenso a percorrere come sempre la pietrosa via verso il luogo sacro sul monte, tuttavia – per ovvie ragioni di opportunità – continuando a riverire anche l’immagine nella chiesa di Laives. È evidente che i pellegrini non erano poi in grado di specificare a quale delle due immagini fosse da attribuire la grazia ottenuta.
Fu così che per molti anni coesistette questo vivace, doppio culto, finché i Serviti di Innsbruck non tornarono a occuparsi del venerato luogo, un tempo loro orgoglio e gaudio.(dal 1833 i Serviti tornano a Pietralba ndr).
Ora avvenne che all’occhio vigile dei devoti padri non sfuggì che, favoriti dalla radicata tradizione e da un’inammissibile sciatteria, nel santuario di Laives proseguiva la celebrazione di riti sacri, ragion per cui ritennero opportuno convogliare anche questi ultimi verso l’unica vera e autentica immagine di Maria sul monte (…) Era dunque opportuno levare all’immagine di Laives, che nel frattempo continuava non senza successo nella sua riprovevole operosità, la sua potenza miracolosa (…)
Poiché tutti i tentativi in tal senso rimasero infruttuosi, non rimase ai rispettabili padri Serviti che la scelta di ribaltare la tradizione e di riconoscere, a esclusivo vantaggio della Madonna stessa, l’autenticità dell’Immagine di Laives, vera e fedele riproduzione dell’incorporea Vergine celeste, nello stesso tempo però facendole esprimere di tutto cuore il desiderio quasi umano di tornare al più presto lassù, in altura, per godere… della impareggiabile compagnia dei devoti Serviti, cosa del tutto comprensibile poiché nel nostro paese è circondata soprattutto da… gretti zatterieri e facchini.

(fine prima parte)

Autore: Reinhard Christanell

Laives, mistero di un nome

Molti aspetti un tempo sconosciuti della storia di Laives sono stati svelati dalle ricerche e dai ritrovamenti archeologici avvenuti nel corso di tutto il XX secolo. Già negli anni ’30, i bolzanini Georg Innerebner (esplorò anche la cisterna del Peterköfele, che in modo assai ingegnoso garantiva l’approvvigionamento idrico al vecchio castello) e Peter Eistenstecken sondarono a fondo il territorio “vergine” del Montelargo / Breitenberg, dove in effetti scoprirono gli stupefacenti resti di antichi castellieri. Verso la fine del secolo, grazie all’intensa attività edificatoria che travolse Laives, fu la volta del conoide sui cui sorge il paese: e in varie zone vennero alla luce tracce inequivocabili di siti risalenti quantomeno all’età del ferro.
Insomma, a poco a poco si consolidò la consapevolezza che questa piccola località all’imbocco della Vallarsa non era semplicemente un centro agricolo di origine medievale sorto “a servizio” e, anche, a protezione della strada verso la nuova città mercantile di Bolzano – fondata, come Egna, alla fine del XII secolo dai potenti vescovi trentini per soddisfare le loro ambizioni commerciali – ma uno dei paesi più ricchi di storia della Bassa Atesina.
Certo, non tutto (o forse pochissimo) di quel lungo passato è stato riportato alla luce: a iniziare dal nome stesso del paese. Laives / Leifers in tutte le sue forme note (e a volte trascritte male) rimane a tutt’oggi un autentico fossile linguistico, un suono perfetto ma pietrificato dal tempo e spogliato di significato che possiamo ripetere a piacimento senza mai coglierne il senso originario.
Possiamo però ipotizzare che la sua origine andrebbe ricercata non tanto nell’epoca romana (che prediligeva i cosiddetti prediali in -anum, peraltro assenti in Bassa Atesina) ma in quella precedente retica e in uno degli insediamenti che prima e dopo il V secolo a.C. sorsero sul conoide e sulla riva del Vallarsa. A tal proposito si può aggiungere, che quasi tutti i toponimi “alpini” (e sono centinaia) che finiscono in -s sono di origine preromana/retica. In tal senso, e considerato che i nomi scelti da quel popolo misterioso e profondamente religioso erano semplici e comprensibili a tutti, Laives dovrebbe portare il nome del fondatore del primo vero villaggio o di una divinità a cui era consacrato.
Sempre a proposito dei nomi locali, che molto potrebbero raccontarci del passato del paese, pare che il più antico toponimo documentato sia quello di Lichtenstein, il castello sul Peterköfele anch’esso di proprietà dei principi-vescovi trentini, costruito probabilmente in concomitanza con la fondazione di Bolzano e distrutto definitivamente dal tirolese Mainardo II.
In questo caso, però, si tratta certamente di un nome medievale. Il nome precedente del sito, certamente frequentato (a che scopo non si sa ma forse quale luogo di culto), è completamente sconosciuto.
Il linguista Finsterwalder ritenne infatti che i nomi dei castelli medievali sorti tra il XII e il XIII secolo fossero quasi tutti di origine “fantasiosa” o ideologica, nel senso che erano espressione di un ideale mondo cavalleresco slegato dalla realtà e dalle esigenze territoriali. Al “chiarore” o alla luce (Licht) sono infatti ispirati vari nomi di castelli in tutta Europa e, proprio di fronte al nostro Lichtenstein, anche quello della Leuchtenburg / Castel Chiaro. È dunque plausibile che furono i padroni “trentini” insediati a Castel Weineck ad attribuire il nome alla collina di San Pietro questa lo trasmise alla dinastia ministeriale dei Lichtenstein.

Autore: Reinhard Christanell

La “schmutzige Laives” e “Großbolzano”

Se le vie del Signore sono – a quanto si dice – infinite, quelle del duce erano quantomeno lastricate. E non di buone intenzioni ma, per quanto riguarda la sopravvivenza del comune di Laives, di tinte fosche. Ci salvò, in un certo senso, la sciagura bellica.
Ma andiamo con ordine. “Systemierung der Straßen” titola un articolo dell'”Alpenzeitung” (giornale fascista in lingua tedesca) del 29 agosto 1941 – anno XIX della “nuova era”. Laives era un paesino rurale di antiche tradizioni ma, da sempre, aveva nelle strade il suo punto debole: perfino la gloriosa “imperial-regia strada postale” era tutta una buca, polverosa e, soprattutto, pericolosa per via della gentaglia che vi trovava rifugio. Non parliamo delle altre vie, che con questa formavano la nota “crosara”: quella verso Pietralba e quella verso la stazione. Tutte strade colabrodo, imbiancate di polvere, spesso intransitabili. Laives, “das schmutzige Dorf di una volta”, scrive l’articolista”, “avvertì l’impellente bisogno di sistemare le proprie vie comunali.” E fin qui nessuna obiezione. Prosegue poi il pezzo: “La sua (di Laives – NdR) pessima fama non è un mistero per nessuno, le centinaia di migliaia di pellegrini che ogni anno si recano a Pietralba sono testimoni involontari dell’arretratezza di questo villaggio ai piedi della montagna sacra, su cui la Madonna da quattro secoli ha eretto il proprio trono”. Madonna o non Madonna, qui il colpo mira dritto al cuore. Infatti, poche righe dopo, il cronista arriva al punto: “Basta parlare di schmutziges Laives – ora Laives sarà una bella cittadina, anche se questo nome non gli è certo stampato in fronte e non appare in nessun documento ufficiale.” Che vorrà dire? Ce lo spiega subito, l’ispirato autore: “Siamo convinti che Laives non sarà mai una città autonoma. Le toccherà la sorte della rinomata località di cura Gries, con la quale formerà la Grossbolzano del futuro”.
Hai capito! Un futuro che, a ben vedere, riporta al passato, quando Laives, Dodiciville e Gries facevano parte del “grande” municipio di Bolzano. E in attesa del “trapasso”, ci si era rimboccati le maniche per tirare a lucido il paesino. “Vorremmo che Laives, villaggio immerso nei suoi vigenti e nei frutteti in fiore, si preparasse in modo adeguato a questo appuntamento con la storia!” Giusto. Ad ogni cerimonia il suo abito. All’appuntamento con la storia non si va certo in “grembial” e scarpe impolverate. Neanche nella schmutzige Laives.
Detto questo – e non ci pare poco – il cronista torna al suo selciato. “La sistemazione delle strade non è stata eseguita per ragioni estetiche (e ci mancherebbe altro) ma per ragioni di pubblica utilità. Nessuno poteva immaginare che i lavori sarebbero stati eseguiti con questa celerità in un periodo bellico come questo, in cui il raggiungimento di traguardi ben più elevati assorbe tutti i nostri sforzi. Ma con gioia abbiamo potuto assistere alla posa dei cubetti di porfido sullo sfondo sabbioso, e sembrava che i cubetti stessi volessero a loro volta rendersi utili al progresso e al raggiungimento di traguardi storici della nostra nazione”.
Conclude infine il giornale: “Chi ora percorre via Damiano Chiesa, o via Roma (oggi Kennedy), non può che ammirare lo splendore dell’opera eseguita. E la via Pietralba, che ora sale maestosa fino al “Grüner Baum? Ora le migliaia di visitatori del nostro paese potranno finalmente esclamare: “Laives ist nicht wieder zu erkennen – Laives non è più la stessa”. Considerazione, questa, che peraltro facciamo nostra, ogni volta che torniamo nel nostro paese.

Autore: Reinhard Christanell

Le liti dei carrettieri di Laives

Grazie alla presenza dell’approdo di Bronzolo all’altezza dell’attuale ponte di Vadena, dove si trovava la Dogana e da dove partivano le zattere in direzione di Verona, Laives godette per secoli di una sorta di privilegio sul trasporto delle merci imballate da e per Bolzano. 

Bolzano, si sa, era centro fieristico dal XIII secolo e i grandi mercati annuali erano ben quattro. I carrettieri ammessi alla “Rod” o “Rott” (così si chiamava la corporazione regolamentata da un apposito statuto) che dovevano presentarsi con i loro carri trainati da buoi o cavalli ogni mattina presso la Pesa in piazza del Grano, erano complessivamente 32. Insomma: quasi tutti i masi di Laives con esclusione di quelli di Montelargo e Seit. La “Rodfuhr”, ossia il trasporto mediante carrettieri locali (oggi li chiameremmo padroncini) che trasportavano la merce da un deposito (denominato Ballhaus, in quanto i colli erano “imballati” – ne esisteva uno anche a Laives presso il maso Pallmann o Thurner) a quello successivo, era un’organizzazione transalpina che gestiva il trasporto delle merci da Augsburg / Augusta a Venezia e viceversa. 

Il nome derivava dal latino “rota”, in quanto i carrettieri si disponevano in fila o cerchio – proprio come gli odierni taxi – in attesa del proprio turno. Il privilegio dei “Rottleute” terminò nel 1806 con l’arrivo dei Franco-Bavaresi.

Come si sa, il legname della Val d’Ega transitava attraverso la Vallarsa e finiva in una delle tre Reif (i veronesi le chiamavano “vodi”) presenti sul territorio: la maggiore, del Principe-Vescovo di Trento (in mano ai Lichtenstein), si trovava sotto la Pfleg, a suo tempo vero e proprio castello fortificato al pari del castello sul Peterköfele. Accanto a loro, nacquero altre due Reif: quella dei contadini di Nova Ponente, che mal sopportavano il dominio dei Lichtenstein, si trovava in fondo a via Marconi, la terza, forse più piccola ma anche l’ultima a chiudere nel XX secolo, presso il maso Goldegg, sopra il vecchio cimitero.

Il legname doveva arrivare al “Domm dell’Ades” attraverso la “Liefergasse” (vicolo degli spedizionieri, odierna via Vadena) e vi erano quattro masi che avevano acquisito una sorta di privilegio in questo settore: il Pflegerbaumann, lo Stampfler, l’Aichner e il Kirchmayr o Kalcher. Ovviamente non mancavano le liti con i contadini che “di strafugo” (o “in nero”, come si direbbe oggi) prestavano lo stesso servizio a un prezzo inferiore. 

Quando le parole non bastavano, si passava alle vie di fatto e non erano rare le zuffe che a volte finivano anche nel sangue. Questi carrettieri erano chiamati Reif-Tschanderer, termine per il quale non esiste un corrispettivo italiano. Il verbo “tschandern” significa più o meno trascinare rumorosamente, per cui si potrebbe tradurre con “strozzegar”.

I Rottleute e i Tschanderer erano in lite perenne per la manutenzione della strada d’accesso al porto. Infatti, i primi accusavano i secondi di utilizzarla abusivamente e di danneggiarla con lo strascinamento dei pesanti tronchi. Perciò pretendevano che partecipassero alla sua manutenzione e intentarono varie cause per difendere le proprie ragioni.

Autore: Reinhard Christanell

La battaglia del grano

I registri contabili degli anni dal 1902 al 1907 dello storico Maso Pelhamer (oggi Birti, nome derivato da Cristoforo de Birti, che acquistò il maso nel 1821) ci dicono che gran parte dei terreni di Vadena era destinata alla viticoltura. Uva bianca e rossa in ugual misura, quest’ultima della varietà “fragola”. All’epoca, il maso apparteneva a Giovanni Miori, Bürgermeister asburgico, irredentista trentino e, infine, fascista, figlio di Fortunata che l’aveva acquisito nel 1894. Dopo la sua morte nel 1927, i 150 ettari di campagne e boschi passarono ai figli Luciano (dal 1931 al 1934 podestà di Bolzano e poi consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni dal 1929 al 1943) e Isidoro.
Poi nel 1925 il duce lanciò, ovviamente in grande stile (chi non ricorda le sue immagini a torso nudo nei campi), le famose “battaglie del grano”. L’obiettivo, battagliero assai, era quello di conquistare l’autarchia alimentare (tema ricorrente, a quanto pare) e, anche, di sfamare ad un costo minore la popolazione. L’iniziativa non risparmiò neppure la provincia da poco italianizzata di Bolzano e, a quanto pare, in particolare le aziende agricole di Vadena. Laives e Bronzolo se ne stettero in disparte. Leggiamo infatti sulla “Alpenzeitung” del 28 novembre 1930 un articolo riguardante la premiazione effettuata in occasione del 7mo concorso nazionale dei “battaglieri” produttori di grano della nostra zona.
La cerimonia ebbe luogo al teatro comunale di Bolzano in presenza di S.E. Marescalchi, dell’immancabile podestà (Felice Rizzini) e delle immancabili “autorità civili, militari e religiose”.

“La massiccia partecipazione al concorso dei produttori locali dimostra che essi hanno compreso appieno il significato economico dell’iniziativa”, scriveva il giornale. “Tenendo conto che la superficie destinata alla produzione di grano è relativamente ridotta rispetto a quella riservata ad altri prodotti, appare evidente il grande entusiasmo con il quale i 90 produttori hanno voluto rendere onore al duce “.
Tre commissioni avevano visitato le aziende agricole partecipanti. I risultati erano stati trasmessi alla commissione provinciale per la battaglia del grano (Provinzialkommission für die Getreideschlacht). Oltre al premio della commissione permanente per il grano, la giuria assegnò anche quello di Lire 2500 messo a disposizione dal consiglio provinciale economico per i piccoli coltivatori, che in virtù della superficie ridotta destinata alla coltivazione del grano non poterono partecipare al concorso nazionale.
Per le grandi aziende agricole il primo premio di 500 Lire non poteva non andare all’azienda dei F.lli Miori di Vadena, seguita dall’azienda del Dr. Silvio Viesi, sempre di Vadena: a lui 400 lire e un diploma. Tra le medie aziende, Borgogni Camillo di Vadena si aggiudicò il terzo posto: 300 Lire e un bel diploma anche a lui. Tra le piccole aziende, la gara fu un monologo vadenoto: 100 Lire e un diploma al primo classificato Sgarbossa Andrea e, sempre 100 Lire e diploma, a Bernardi Francesco, Oliver Albino, Manzana Angelo, Perlot Massimo, Fratelli Conzatti, Comunello Angelo, Chistè Giovanni, Baldo Roberto, Micheletti Michele e Bergamo Ferdinando.
Diplomi al merito furono quindi conferiti ai direttori delle aziende agricole del Dr. Viesi, Tommasi Vincenzo, e dei Fratelli Miori, Giuseppe Giovannini.
Poi, un bel giorno, arrivarono le mele e la democrazia (cristiana).

Autore: Reinhard Christanell

La grande processione del 1887

Tutti conoscono il celebre dipinto esposto nella chiesa parrocchiale di Laives raffigurante la processione avvenuta nel giugno del 1791 in occasione del trasferimento della “Sacra Immagine” di Pietralba sull’altare maggiore della chiesa stessa. Ricordiamo in proposito che il santuario di Pietralba, all’epoca gestito dai Servi di Maria di Innsbruck, fu soppresso in seguito alla riforma religiosa dell’imperatore Giuseppe II nel 1787.
Per celebrare il centenario dell’arrivo della piccola Pietà in alabastro, trovata dal contadino Leonhard Weissensteiner nel 1553, nel 1887 Laives fu teatro di un’imponente celebrazione e di una processione entrata negli annali della storia. “La festa – ricorda la “Constitutionelle Bozner Zeitung” del 27 e 28 giugno 1887 – avvenne negli stessi giorni in cui ebbe luogo la famosa processione raffigurata nel dipinto del 1791, ossia il 24, 25 e 26 giugno.” Il Vescovo di Trento, Eugenio-Carlo Valussi (tra l’altro deputato al Parlamento di Vienna fino all’anno precedente e nominato dall’imperatore Francesco Giuseppe), giunse in paese fin dal giorno precedente e il 27 giugno vi celebrò una solenne “missa pontificalis”.
La parte più importante dei festeggiamenti era programmata per il giorno successivo. Al mattino fu celebrata la messa con la predica rievocativa del noto frate e storico prof. Archangelus Simeoner, autore della “Storia della città di Bolzano”. Poi nel pomeriggio giunse alla stazione di Laives il treno speciale composto da novanta vagoni. Si narra che alla stazione di Bolzano quel giorno furono venduti oltre 4000 biglietti per Laives. Inoltre, arrivarono anche 100 carrozze private.
La folla, accompagnata da due bande musicali, impiegò un’ora per entrare in paese. Alle 16 la processione prese avvio dalla chiesa parrocchiale e attraversò le strade del luogo adornate a festa. Come nella processione del 1791, quattro sacerdoti reggevano la Sacra Immagine di Maria con il bambino. “Tra le numerose autorità presenti anche S.E. l’arciduca Enrico accompagnato dalla gentile consorte”, scrive il giornale, “ed entrambi parteciparono alla grandiosa processione”. La marcia della folla fu accompagnata dai suoni delle quattro bande musicali di Gries, Longomoso, Ora e Cornaiano. Annota ancora il giornale: “Erano presenti, accanto alle associazioni del paese, anche le “ragazze” (operaie) della filanda “Tambosi”.
Secondo il cronista, parteciparono alla processione più di 7000 persone, di cui 5000 provenienti da Bolzano. Se si considera che all’epoca Laives contava 90 case, è facile comprendere quale fosse la rilevanza di questa festa per tutta la provincia di Bolzano. Al termine della messa fu celebrato un Tedeum accompagnato dal festoso suono delle campane e dal frastuono delle salve di cannone.
Al tramonto, dalla Reif partirono gli stupendi fuochi d’artificio accompagnati da un numero interminabile di salve di cannone: “prova evidente che la polvere da sparo certamente non scarseggiava in paese”. Quindi, la folla si riversò nelle strade e locande. Era una calda giornata di giugno e tutti cercavano da mangiare e soprattutto da bere nelle osterie affollate all’inverosimile.

Autore: Reinhard Christanell

La piccola guerra di Vadena

Agli albori del XX secolo, ben prima della grande guerra e del passaggio dell’Alto Adige asburgico all’Italia, il comune di Vadena fu teatro di un autentico conflitto tra opposti nazionalismi. Scrive, in merito, la Lienzer Zeitung del 10 maggio 1902 nelle sue “Notizie dal mondo”: “Non esiste più una Gemeinde Pfatten ma soltanto un Comune di Vadena”.
Cos’era mai successo per sconvolgere i secolari equilibri etnico-politici del minuscolo comune di 444 abitanti (censimento del 1890) della Bassa Atesina? Contrariamente a tutte le previsioni, la “Lega nazionale pro Vadena” del roveretano Miori e del trentino Richard Ferrari, legata al movimento irredentista trentino “Italia irredenta”, aveva vinto le elezioni comunali per un solo voto. A quanto pare, una vedova “tedesca” non si era recata alle urne e aveva determinato, grazie al particolare sistema elettorale allora vigente, la vittoria degli irredentisti. Chiosò il giornale “Alto Adige” di Trento: “Avanti, Lega nazionale! Avanti Italiani di buona volontà! Eliminate la ‘brutta cosa’ della scuola tedesca di Vadena e quella ancor peggiore dell’asilo del signor curato Malpaga!”
La stramba guerra vadenota, che da tempo covava sotto la cenere, vide come principali quanto involontari protagonisti i bambini in età scolare. Entrambe le fazioni peregrinarono di famiglia in famiglia (peraltro molte di costoro ridotte in miseria) per convincere i genitori a iscrivere i propri figli a questa o quella scuola. I vincitori delle elezioni miravano a chiudere definitivamente la vecchia Grundschule, mentre gli oppositori, spalleggiati dalle autorità scolastiche, volevano impedire l’apertura di una scuola in lingua italiana, che avrebbe potuto minare alla base il fragile “Deutschtum” di un territorio di confine come l’Unterland.
La guerra, che allora toccò solo marginalmente altri comuni della Bassa, si trasferì ben presto a Bolzano, Innsbruck e, infine, al parlamento di Vienna. Vadena era diventata il luogo simbolo della “questione nazionale”. Miori, capo del comune, cercò di esautorare le autorità scolastiche locali in mano alla fazione opposta che alla fine ottenne l’appoggio determinante del titubante ministero viennese. A quel punto, e prima delle successive elezioni comunali che avrebbe potuto ribaltare l’esito delle consultazioni precedenti, Miori e Ferrari aprirono una scuola privata italiana presso il podere di quest’ultimo al Castello. I figli dei numerosi coloni trentini, che fino ad allora avevano frequentato la scuola tedesca, furono “invitati” a trasferirsi in quella privata italiana.
Va detto, che la “guerra” di Vadena, al di là dei bambini strumentalizzati, era anche una guerra economico-sociale: da una lato il vecchio sistema rurale basato sulla piccola proprietà contadina (il freier Bauernstand), dall’altra il latifondo italiano affidato a coloni e mezzadri malpagati e perciò altamente concorrenziale nei confronti del primo. I latifondisti vadenoti, quasi tutti originari del Welschtirol, che avevano acquistato le terre malsane dopo le bonifiche di metà secolo, trovavano i loro coloni nelle affamate valli trentine. La “piccola” guerra terminò – momentaneamente – nel 1903, quando la scuola di Ferrari e Miori fu chiusa in seguito ad una petizione firmata da 88 comuni altoatesini. Quella “grande” era in arrivo.

Autore: Reinhard Christanell

Una radio e sette galline

La storia, si sa, non è fatta di soli eroi (positivi o negativi) e di eventi memorabili. Spesso sono i personaggi minori e la grigia quotidianità a restituirci il quadro migliore di un’epoca. Sfogliando le pagine del quotidiano fascista in lingua tedesca “Alpenzeitung”, pubblicato dal 1926 al 1943, si trovano, accanto alle consuete celebrazioni dei successi del regime, molti articoletti concernenti vicende marginali e, per quanto riguarda Laives, un sorprendente numero di corrispondenze riguardanti piccoli episodi di cronaca nera: furtarelli, truffe, incidenti stradali, accoltellamenti e risse nei locali pubblici.
Il 18 marzo 1927 appare una breve notizia edificante: “Inaugurati i corsi d’italiano per adulti”. Apprendiamo che ben trentadue “Dopolavoristen” locali apprenderanno – volontariamente, immaginiamo – i rudimenti della lingua italiana grazie agli insegnamenti impartiti dal maestro Tommasini e da una certa signorina Anesi. Non solo: sempre in ambito scolastico, il commissario prefettizio avvocato Gueli è lieto di annunciare che “alla scuola della remota frazione di Costa” (Seit) è stato donato un apparecchio radio che “sarà di grande ausilio nell’attività didattica della maestra signorina Giovanna Chiesa e permetterà anche agli adulti (sempre di Seit) di sapere cosa accade nel mondo. Questa notizia è stata accolta con grande entusiasmo da tutti gli amanti del progresso e dell’arte”. Non poteva che essere così.
Significativa anche la notizia pubblicata il 26 febbraio 1928 sotto il titolo “Hennendiebstahl”, furto di galline. Evidentemente, all’epoca le galline rivestivano un ruolo importante nell’immaginario collettivo e, a quanto pare, anche nel menu dei Laivesotti. Si può dire che il furto di galline fosse quasi un classico, da queste parti. Tale ing. Luis Ebner era fiero proprietario di un numero imprecisato di galline. La notte del 25 febbraio, un ignoto ladruncolo irruppe nel suo pollaio per sottrargli, in un colpo solo, ben sette galline e due galli. Né le prime né i secondi lanciarono i tipici segnali d’allarme. Il danno del furto, secondo le prime stime, ammontava a 135 Lire.
L’ingegnere denunciò seduta stante il furto ai reali carabinieri che inviarono sul posto il maresciallo Berardi e un appuntato. Dopo accurata indagine, gli stessi accertarono che l’ingresso del pollaio era stato forzato “da mano ignota”. I sospetti caddero su tale Roberto Hofer, “recidivo”, domiciliato nelle vicinanze del luogo del misfatto. Lo stesso si era però dato alla latitanza e i carabinieri dovettero rinunciare alla rituale perquisizione domiciliare. In seguito, i due carabinieri si recarono presso la locanda “Grappolo d’Uva”. Per sorprendere i gestori con le mani nel sacco, decisero di entrare non dall’ingresso principale ma da quello secondario. Scelta oculata, giacché in cucina individuarono tale Giulietta Chizzola, cuoca, nel mentre arrostiva una gallina appena spennata. La malcapitata spergiurò di essere la legittima proprietaria del volatile che stava cucinando “per due finanzieri”. Dopo un serrato interrogatorio, ammise che era stato proprio il Hofer a cederglielo. A questo punto, il maresciallo, incurante delle aspettative culinarie dei due finanzieri, sequestrò il corpo del reato e, ancora fumante, lo riconsegnò al legittimo proprietario ing. Ebner.
Delle altre sei galline e dei due galli si era invece persa ogni traccia.

Autore: Reinhard Christanell

Dai retici alla Claudia Augusta

A partire dal XIX secolo, Laives si sviluppò quasi spontaneamente come uno Straßendorf (villaggio-strada), una struttura urbanistica in cui le case sorgono lungo una strada intercomunale tagliata da poche vie perpendicolari alla stessa. Prima di allora, ossia dell’anno 1831, quando fu spostata la vecchia carrozzabile postale e realizzato il rettilineo (stradon) che dal centro del paese conduce all’incrocio di via Vadena, la situazione era assai diversa. All’altezza dell’albergo Casagrande, la vecchia statale del Brennero scendeva lungo via Damiano Chiesa fino al cuore del vecchio paese, poi, in prossimità dell’Eckhaus, svoltava in via Marconi per sbucare sull’attuale S.S.12 in prossimità del ponte sul Rio Vallarsa a sud delle caserme Guella.
Interessante anche il percorso inverso: uscita da Laives alle Caneve, la strada proseguiva sotto la montagna fino a Sissa (Pineta), quindi da maso Renner procedeva, sempre ai piedi della montagna, fino alla chiesa di S. Giacomo. Presso la cosiddetta “Dinzlleiten” (in località Costa), si possono ancora riconoscere le rovine di un’antica torre di guardia. Da S. Giacomo saliva verso Castel Flavon e il Virgolo per poi scendere a Bolzano all’imbocco della Val d’Isarco nei pressi di Campiglio.
Questi furono certamente i percorsi seguiti dagli antichi abitanti del luogo, i Reti, che nei loro spostamenti evitavano il paludoso fondovalle spesso allagato dalle acque di Adige e Isarco. I Romani avevano tutt’altre esigenze e dovevano consentire il transito non solo a commercianti e pellegrini ma soprattutto ai loro eserciti diretti in Germania. Essi coltivavano un’autentica avversione per le salite e tracciavano le strade seguendo la linea più breve e piana tra due punti.
Il principale motivo di disaccordo tra Romani e Reti, che peraltro intrattenevano buoni rapporti commerciali e culturali da decenni, fu proprio la realizzazione della famosa via Claudia Augusta. L’imperatore Augusto voleva espandersi in terra d’Oltralpe e perciò aveva bisogno di collegamenti rapidi e, soprattutto, sicuri. I Reti si erano resi protagonisti di continue scorribande e assalti ai passanti e inoltre non tolleravano la presenza di una strada militare romana in mezzo ai loro villaggi. Quindi nella famosa campagna militare dell’anno 15 a.C. Augusto incaricò Druso e Tiberio di “ripulire” definitivamente il territorio alpino da queste tribù indigene.
Dopodiché si procedette, con ogni probabilità, alla realizzazione di due strade: una diretta in Venosta, l’altra al Brennero. La prima, da Ora raggiungeva Caldaro, Appiano e poi il Burgraviato. La seconda, da Castelfeder scendeva verso l’Adige e poi raggiungeva Bronzolo e Laives costeggiando la montagna. Più o meno il percorso rimasto poi invariato fino agli anni ’60 del secolo scorso. Va comunque detto che la frequentatissima via Claudia Augusta, che dal Veneto conduceva ad Augsburg, fu risistemata definitivamente dall’imperatore Settimio Severo nel 220 d.C.: costui eliminò anche la salita che da S. Giacomo portava al Virgolo e tracciò la strada verso il Brennero completamente nel fondovalle.

Autore: Reinhard Christanell

Laives nel ventennio fascista

Il “ventennio” trasformò radicalmente il paesino uscito dalla secolare appartenenza all’impero asburgico. In breve tempo la popolazione aumentò di un terzo sfiorando le 5000 unità. In campo economico, la nuova zona industriale divenne il principale polo occupazionale della “grande Bolzano” fascista. Perfino nel settore agricolo il regime volle svolgere un ruolo da protagonista: sempre un po’ sopra le righe come suo costume.
A tal proposito leggiamo sulla “Alpenzeitung” del 16 giugno 1934 un corposo articolo riguardante la bonifica di terreni agricoli a Laives. La “Alpenzeitung” era, detto per inciso, il giornale ufficiale in lingua tedesca delle camice nere e ovviamente celebrava le gloriose imprese della nuova era.
“S.E. Marescalchi a Laives” titolò nella rubrica “Aus Bolzano (sic!) Stadt und Land”. Ancora più esplicito il sottotitolo: “La premiazione di benemeriti agricoltori – Visita alle nuove opere di Bolzano.”
Quella delle “opere” era evidentemente una vera e propria fissazione dei gerarchi. Non si perdeva occasione di celebrarne la realizzazione. Scrive ancora il giornale: “La distribuzione dei premi agli agricoltori che con duro lavoro sono riusciti a bonificare alcune centinaia di ettari di terreno paludoso non è importante solo per i premiati stessi ma per l’intera popolazione di Laives.”
Non dubitiamo di quest’ultima considerazione. Piuttosto, ci chiediamo dove esattamente si trovassero queste “centinaia di ettari” di palude. L’articolista, purtroppo, non ce lo rivela. È comunque evidente che non poteva trattarsi di “centinaia” di ettari di palude dato che tutta la vecchia “Leiferer Au” a suo tempo assegnata al comune di Laives, dal Vurza alla stazione, copriva un’area di circa 100 ettari. A quell’epoca, in cui già il tram attraversava le Part, è noto che lavori di risanamento sono stati eseguiti presso le cosiddette “buse del tram” in zona Galizia e in alcuni terreni adiacenti. Qui c’è stato un riempimento di parecchii metri con fascine e altro materiale per consolidare il terreno. Ma non poteva trattarsi che di alcuni ettari, ai quali sicuramento si aggiunsero altri terreni paludosi sparsi sul territorio. Probabilmente anche dei campi in zona “Costa” sono stati interessati alla bonifica, ma complessivamente la “grande opera” magnificata, se pur meritevole di plauso, doveva riguardare un’area meno estesa di quella annunciata. A meno che l’ettaro fascista non fosse diverso da quello a noi noto.
A fine articolo, dopo aver descritto dettagliatamente le altre visite di S. E. Marescalchi in quel di Bolzano, ci viene fornito l’elenco dei premiati: Hafner Carlo, Zanotti Luigi, Pfeifer Giovanni, Villotti Guido, Prezzi Arturo, Ferrari Alberto, Moser Carlo, Heisl Antonio, Hafner Engilberto, Detassis Maria, Prezzi Giuseppe, Bologna Lino, Visintainer Daniele, Erstbaumer Federico, Hafner Ervino, Salvadore Ambrogio, Gruber Carlo, Frasnelli Angelo, Sartori Davide.

Foto: Archivio Provinciale Bolzano

Autore: Reinhard Christanell