Prima dell’arrivo della ferrovia nel 1859, il servizio di trasporto pubblico consisteva in qualche carrozza trainata da cavalli diretta a Bolzano o Egna. Lungo il tragitto si trovavano le locande chiamate “Posta” che disponevano di stalle per il ristoro e, a richiesta, il cambio dei cavalli. Pochi se la potevano permettere e chi aveva la necessità di spostarsi lo faceva soprattutto a piedi. Il treno aveva inaugurato una nuova epoca: quella del viaggio confortevole e in tempi ridotti a media e lunga distanza. Lo sfruttava soprattutto la piccola e media borghesia, il popolo continuava a camminare sulle vecchie strade polverose. A cavallo tra i due secoli, con l’aumento dell’attività commerciale e la crescita del turismo, nacque anche a Laives il bisogno di un collegamento rapido e confortevole con Bolzano. Ovviamente si rifletté a lungo sulla realizzazione di una linea tranviaria, allora il mezzo di trasporto urbano più amato. Nel 1905 il Comune di Dodiciville, sprovvisto di stazione propria, ottenne l’autorizzazione a costruire una tranvia elettrica da via Stazione fino a S. Giacomo. Anche Laives era molto interessata ma la Südbahn, temendo la concorrenza, si oppose. Nel 1909 venne inaugurato il tram per Gries, altro comune allora indipendente. Nell’autunno del 1911 alcuni cittadini di Laives costituirono una compagnia di autobus per il collegamento Bolzano-Laives. Un affronto alla strapotente Südbahn ma anche ai tentennamenti comunali e ministeriali riguardo alla realizzazione del tram. Il 3 giugno 1912 finirono i lavori di posa dei binari sulla linea Bolzano – Maso Wurzer. L’impresa consentì tra l’altro di portare finalmente la luce elettrica fino al paese di Laives. La linea era lunga 6682 metri e contava 21 fermate. Il biglietto costava 40 scellini.
A Laives, dove dal 1912 aveva preso servizio l’autobus, si continuò a parlare di tram. Anton Monsorno, noto possidente e commerciante, morto a soli 47 anni nel 1916, e Franz Defranceschi furono i principali promotori dell’iniziativa. Soltanto nel 1923 venne approvato il progetto definitivo della linea. Il 18 febbraio 1912 il giornale “Bozner Nachrichten” diede grande risalto all’inaugurazione del servizio di autobus tra Bolzano e Laives. I membri della commissione di valutazione dell’efficienza del mezzo salirono sul mitico “Saurer” costato la bellezza di 28000 corone in piazza “Kaiser Josef” e nel corso del viaggio ebbero modo di apprezzare il comfort offerto dal moderno mezzo di trasporto dotato di sedili imbottiti e perfino di riscaldamento. Una vera rivoluzione per l’epoca. Dopo mezz’ora, i viaggiatori raggiunsero via Pietralba e si recarono per il rinfresco di rito all’albergo “Pfleg” di Alois Ebner. Il sindaco di Laives, Josef Ebner, “in un breve e caloroso discorso ricordò le varie tappe dell’impresa, ringraziando tutte le autorità presenti e coloro che l’avevano resa possibile”. Anche il viaggio di ritorno fu un pieno successo. I soci fondatori Josef Ebner, sindaco di Laives, Ferdinand Flor, impresario nel settore del porfido, e Alfred Gerber godettero di un momento di grande popolarità in paese. Il giornale concludeva il pezzo con orari e prezzi delle corse: “Cinque i viaggi quotidiani: da Laives alle ore 7.00, 9.00, 12.30, 15.30 e 18.30, da Bolzano alle ore 8.00, 11.10, 14.00, 17.00 e 19.30. Durata del viaggio: 30 minuti. Fermate: S.Giacomo e Oltrisarco. Prezzo del biglietto: Laives – S. Giacomo 40 Heller (1 corona = 100 Heller), Laives – Oltrisarco e Laives – Bolzano 60 Heller, Oltrisarco – Bolzano 20 Heller. Abbonamento per 10 viaggi andata e ritorno: 5 corone.”
Nonostante il legame storico tra le due località, i collegamenti tra Bolzano e Laives non sono mai stati agevoli. Le cosiddette vie alte erano impegnative, il trasporto sull’Adige inadeguato e troppo distante dai centri abitati. Neppure la ferrovia, arrivata verso il 1850, riuscì a risolvere definitivamente il problema: infatti la linea fu realizzata in mezzo alla valle e lontana dai paesi. Veniva utilizzata soprattutto dai turisti della domenica e dai pellegrini che si recavano al santuario di Pietralba: ma non divenne mai un mezzo adeguato alla mobilità urbana o extraurbana di breve percorrenza. Rimaneva, da secoli, una sola via praticabile: il vecchio, polveroso stradone pedemontano rimasto uguale dal tempo dei Romani. Era una sorta di pista da Far West, e ad ogni curva c’era da attendersi un assalto alla diligenza o un’imboscata. La cattiva fama del tracciato raggiunse perfino Innsbruck e Vienna, e le varie amministrazioni furono spesso invitate a metterlo in sicurezza. Laives era “un paese a due ore di cammino” da Bolzano. Era infatti quello il tempo che occorreva per spostarsi tra i due luoghi. Nel corso del tempo arrivarono cavalli, carrozze, biciclette, macchine su due e quattro ruote: il tempo si abbreviò ma, in ogni caso, i collegamenti rimasero complicati. Un primo tentativo concreto di risolvere il problema fu la realizzazione del tram. Ma il primo tratto si fermava a Vurza e rimaneva comunque un bel pezzo di strada da fare a piedi. Poi finalmente nel 1931 fu inaugurata anche la linea Vurza – Laives che attraversava le campagne lungo l’attuale via delle Part fino al capolinea davanti all’albergo Casagrande. Venne smantellata nel dopoguerra per favorire la SASA. Con la consueta enfasi il giornale fascista in lingua tedesca “Alpenzeitung” il 17 luglio 1931 annunciò l’ultimazione dei lavori. “Avremo finalmente a disposizione il servizio di trasporto pubblico tra Bolzano e Laives (paese)”, annunciò il foglio del regime. E continuava: “Per la costruzione di quest’opera, l’Azienda Elettrica Consorziale ha dovuto superare numerosi ostacoli tecnici ed economici. La decisione di costruire questa linea è stata presa un anno fa e ora essa è terminata e il desiderio a lungo nutrito dalla popolazione è stato esaudito.” Il viaggio tra Piazza Walther (all’epoca piazza Vittorio Emanuele), Ristorante Rovereto, S. Giacomo e bivio vecchia strada statale (oggi via D. Chiesa) durava 45 minuti. Il prezzo del biglietto fu fissato in 2,20 Lire. L’abbonamento mensile costava 72 Lire, quello per studenti 48 Lire. In certi orari i pendolari della zona industriale di Bolzano potevano viaggiare per 1,20 Lire utilizzando un’apposita tessera per evitare che “certi furbi approfittino dei convogli per lavoratori per pagare meno”. Le tessere potevano essere richieste ai comuni di Bolzano e Laives. Il primo tram partiva da Bolzano alle 4.50 del mattino, l’ultimo alle 23.55. Forse valeva la pena mantenerlo in vita, il nostro tram. Ma del senno di poi, si sa, sono pieni i fossi.
La vecchia chiesa di S. Giacomo è uno dei monumenti più rilevanti di Laives. Viene citata una prima volta in un atto notarile del 1237 nella frase “curia que jacet in Campoledro juxta ecclesiam sancti Jacobi de Cinte”. La curia di cui trattasi è il maso adiacente alla chiesa, mentre è noto che per molto tempo il paese di S. Giacomo, poi denominato anche “Unterau”, era detto Cinte o Schinte. Il termine, a quanto pare, deriva dal latino “cinctum” – ma non ne saremmo poi così sicuri. Potrebbe dunque darsi che in quel luogo, in un certo periodo anteriore all’edificazione della chiesa stessa, esistesse un altro edificio sacro o un castello cinto da mura. A prescindere dall’atto in premessa, la chiesa probabilmente risale almeno al XII secolo. Cosa c’era prima non si sa. In quel periodo, i signori di Firmian / Sigmundskron esercitavano sulla stessa il diritto di patronato, ottenuto dai signori di Weineck. Ricordiamo che i Weineck (e precisamene Otto) risultano anche affidatari di Lichtenstein sopra Laives. Insomma una famiglia tra le più influenti dell’epoca. La chiesa è dedicata all’apostolo Giacomo (il maggiore), a santa Barbara e a san Cristoforo. San Giacomo, tra l’altro, era il patrono dei pellegrini e ovviamente la via da nord per Roma passava proprio sotto la collina che ospita la chiesa. Uno dei suoi curati più importanti e amati fu certamente Anton Thaler. Mantenne l’incarico dal 1910 fino alla sua morte nel 1936. Nella sua edizione dell’8 febbraio 1936, il quotidiano “Dolomiten” dedica una lunga e calorosa commemorazione al sacerdote defunto. “Al cimitero di S. Giacomo, da lui stesso realizzato, riposa da sabato primo febbraio il curato Anton Thaler, nel mezzo dei suoi parrocchiani a cui ha dedicato molte cure in vita e in morte”. Gli abitanti di S. Giacomo lo piansero come un proprio padre. “Non avremo mai più un curato come Toni”, prosegue l’articolo. Per ben quattro volte la comunità intera si raccolse attorno alla sua bara esposta nella chiesa. Il funerale fu un evento memorabile. “Una cosa mai vista”, scrive il giornale. Anton Thaler nacque a San Valentino in Campo (nel testo la frazione viene chiamata “Gombre”, fantasiosa italianizzazione tolomeiana di Gummer) il 19 marzo 1872, sesto di dodici figli. Studiò, come il fratello Josef, al liceo dei padri Francescani di Bolzano e fu ordinato sacerdote a Trento il 12 luglio 1896. Era di salute assai cagionevole ma non per questo si risparmiò nell’espletazione del suo ministero. Fu cooperatore a S. Pietro di Laion, Nalles, Cornaiano e Merano. Finalmente il 3 gennaio 1903 fu assegnato con questo compito a S. Giacomo, dove trovò una situazione molto precaria. “Mancava anche l’indispensabile”, scrisse. Si dedicò anima e corpo alla chiesa, che fece ingrandire, alla catechesi dei bambini e alla cura dei poveri e degli ammalati. La realizzazione del cimitero è una sua opera. “Prima di allora i defunti dovevano essere tumulati a Bolzano.” Il tram tra Bolzano e Vurza comportò una notevole espansione della frazione di “Unterau”, e anche le esigenze ecclesiastiche aumentarono a dismisura. Thaler vi fece fronte con la solita passione e dedizione. “Non permise a nessuno di entrare nel regno dei cieli senza i sacri sacramenti”. Per corrispondere alle esigenze della popolazione, celebrava la santa messa in italiano e tedesco. La morte sopravvenne probabilmente a causa di un infarto. Anton Thaler, a cui oggi è dedicata la strada che porta alla “sua” chiesa, fu il quarto curato di S. Giacomo. Il primo, nel 1883, fu Daniel Ludwig, a cui succedettero Peter Senoner e Anton Rinner.
Nel XVI secolo, Laives, piccolo borgo rurale alle porte di Bolzano, era un noto centro commerciale. Le strade brulicavano di vita (anche troppa, secondo gli abitanti dell’epoca, esasperati dal “gazèr” dei forestieri) ed era un viavai ininterrotto di carri e carrozze che sollevavano un gran polverone. Vi transitavano quotidianamente – e in particolare nei periodi di fiere e mercati – decine di commercianti, zatterieri, carrettieri e tutto quel popolo nullafacente in cerca di fortuna che accompagna sempre le attività più floride. I Sacco di Rovereto, che gestivano in regime di monopolio il trasporto sull’Adige, avevano la loro base operativa a Bronzolo e tenevano a libro paga una quantità infinita di maestranze. Costoro erano temuti per la loro condotta a dir poco esuberante, tanto che i pacifici agricoltori del posto li definivano “dei veri e propri banditi”. Ruberie e zuffe erano all’ordine del giorno e non di rado sfociavano nel sangue. Il luogo più frequentato da questa stravagante umanità erano ovviamente le osterie. Le più importanti si affacciavano sulla vecchia via postale e commerciale. Alle porte del paese si trovava il “Kalten Keller” (Caneve), poco oltre, dove la strada imboccava l’odierna via D. Chiesa, il “Krueg” o “Großhaus”. Nel vecchio paese dominava la scena lo storico “Koelbl” (Posta Vecchia). Lungo l’odierna via Marconi si trovava il “Burger” (carceri) e alla biforcazione per Bronzolo e la “Länd” (porto e dogana), quella più frequentata dai zatterieri e commercianti di legname: il “Welschwirt” (oste degli italiani). Non era questo il suo vero nome ma probabilmente veniva chiamata così grazie ai suoi avventori. In realtà si chiamava “Raimann” e, più tardi, anche “Goldene Rose”. Solo in epoca più recente prese poi il nome “Gutleben”, derivato da tale Johann Baptist Guettleben, che la gestiva a metà del XVIII secolo. Il nome “Casa Rossa”, prevalente nel XX secolo, derivò invece dalla colorazione dell’edificio. Il “Welschwirt”, come detto, era il luogo di ritrovo preferito di tutti coloro che gravitavano attorno alle “Reif” (depositi di legname) e al porto sull’Adige. Sull’odierna via Vadena, si trovava infatti anche la “Reif” del Comune di Nova Ponente, che faceva concorrenza a quella vescovile e a quella dei Conti del Tirolo presso l’Aichner, che pure gestiva da decenni il trasporto dei tronchi fino all’imbarcadero. Il “Welschwirt”, di proprietà dei Lichtenstein (e quindi dei vescovi di Trento), è documentato dalla fine del XV secolo; allora lo gestiva tale Lienhart Raimann, da cui prese il nome. Nel 1540 gli subentrò Joerg Kippermann e nel 1582, dopo la sua morte, acquistò il maso il proprietario del “Großhaus” Matheis Preth. Nel 1726 appare la denominazione “Welschwirt”, e nel 1828 il sacerdote Johann Gentili acquistò il maso dal Barone von Eyrl per rivenderlo nel 1892 alla famiglia Gerber, che lo conservò fino ad oggi. Ora, a breve, questo “monumento” cittadino farà posto ad un condominio: e speriamo che delle preziose mura rimanga non solo un pallido ricordo.
Il 5 febbraio 1896, il giornale “Bozner Nachrichten”pubblica una curiosa corrispondenza da Laives intitolata semplicemente “Correspondenz”. Tema dell’articolo: i collegamenti tra Bolzano e Laives. L’anonimo corrispondente evidenzia i “grandi progressi di questo paese”, in particolare per quanto riguarda la salute pubblica. La regolazione dell’Adige e la bonifica della “Leiferer Au” hanno sconfitto il famigerato “Leiferer Tod”, come veniva chiamata la malaria. Inoltre, grazie alla realizzazione, a metà del secolo, della ferrovia da parte della “Südbahn”, Laives è diventata una località turistica. Unico neo: la collocazione della linea ferroviaria al centro della valle anziché in prossimità degli abitati. Circostanza, questa, sgradita sia agli abitanti che ai potenziali turisti. I bolzanini dell’epoca amavano dirigersi “verso meridione” nelle loro gite domenicali fuori porta. A Laives, diversi locali pubblici si attrezzarono per questa promettente attività, che portò in paese non solo singoli visitatori e famiglie ma anche diverse associazioni del capoluogo per i classici “Törggelen”. Ma non mancano le note dolenti: in primis che la realizzazione della ferrovia “in mezzo alla valle dell’Adige a metà degli anni cinquanta, a quanto pare per contenere le periodiche alluvioni, deve ritenersi una vera e propria calamità. E ciò non solo per le piene stesse ma anche a causa della lontananza delle fermate e stazioni dai centri abitati. Va detto – prosegue il cronista indignato – che nelle belle domeniche e festività centinaia di persone di entrambi i sessi si dirigono verso Laives per trascorrervi qualche ora lieta: chi per pedes apostolorum, chi in carrozza o a cavallo e infine chi sullo sbuffante cavallo d’acciaio. Cantori, sportivi, pittori, letterati e altri escursionisti raggiungono la “Pfleg”, dove li accoglie l’ospitale oste signor Ebner”. Peccato però che “il cielo sia ancora inclemente con i Schneeschuhläufer”(sciatori), perché la Vallarsa sarebbe “un vero paradiso per gli sport invernali e lo sci in particolare, che notoriamente viene molto praticato dai signori e dalle signore di Bolzano. Ma c’è il problema della distanza della stazione dal paese”. Il progetto di spostare la linea ferroviaria era stato abbandonato, malgrado ogni anno non meno di 2000 o 3000 pellegrini si recassero a Laives per poi raggiungere Pietralba. “Costoro, quando non arrivano a piedi, sono costretti ad affrontare la noiosa marcia dalla stazione fino all’imbocco della Vallarsa mentre la realizzazione di una fermata in prossimità della romantica valle sarebbe di grande beneficio sia per la popolazione sia per i viaggiatori – nonché un buon affare anche la per la società ferroviaria, e ciò sia d’inverno che d’estate. Perfino la vicina Bronzolo ne trarrebbe grande profitto”. Ma ci sarebbero voluti altri quarant’anni per vedere il tram (e non più il treno) arrivare in paese.
Fino all’inizio del XVIII secolo, era un prete della parrocchia di Bolzano a prendersi cura delle anime del paese – ovviamente dietro congrua remunerazione. Qualcuno di costoro borbottava per il cammino di due ore sullo stradone polveroso ma poi, giunto a destinazione, aveva modo di rimettersi in forze nella vecchia canonica adiacente alla chiesa. Quella nuova sarebbe stata costruita soltanto nel 1860. Invece la chiesa, a quanto pare finanziata dal nobile Heinrich von Lichtenstein, è citata dal 1386: ma è probabile che quell’anno sia stata soltanto ricostruita. Dice infatti un antico documento che “in villa Leifers quedam capella in bonorem sancti Antoni confessoris antiquitus constructa existat” ossia esistente “da tempi antichissimi”. Ad ogni modo, il principe vescovo di Trento Alberto conte di Ortenburg la inaugurò nel maggio 1386, accordando ai fedeli un’indulgenza di 40 giorni affinché “cupientes igitur, ut capella sanctorum Sigismondi Regis et Martyris, Nicolai pontificis et confessoils et Antonii confessoiis in Leuvers (altrove anche Leyvirs) diocesis nostra dedicata congruis honoribus veneretur” – in sostanza invitandoli a rendere i dovuti onori (e congrui tributi) al nuovo edificio di culto dedicato ai santi Sigismondo (poi andato perduto), Nicola e Antonio. Ovviamente a quell’epoca era più piccola di quella attuale e poteva contenere una sessantina di persone. Venne allungata nel 1650, poi nel 1856 avvenne un secondo ampliamento e la chiesa fu inaugurata dal beato Johannes von Tschiderer. La torre campanaria è più antica, del 1200 – a riprova del fatto che in quel luogo esisteva già un piccolo tempio cristiano, probabilmente succeduto ad uno pagano. L’11 ottobre 1440 venne invece inaugurato da Alessandro, patriarca di Aquileia, il primo cimitero: fino a quel momento, i morti dovevano essere tumulati a Bolzano e i famigliari in lutto si lamentavano più per la lunghezza dell’ultimo viaggio che per la perdita del caro. Le messe che il curato era tenuto a celebrare erano elencate in una direttiva del 16 gennaio 1589 emanata dall’arciduca Ferdinando. La “paga” era di 18 fiorini. I battesimi sono registrati dal 1605, i decessi dal 1625. Il primo matrimonio compare nel 1711, quando venne finalmente creata la curazia di Laives. Dovevano essere celebrate almeno tre messe la settimana: una per la conservazione della pace, una per i vivi e una per i defunti. A causa dell’aria malsana, al curato di turno venne concessa anche una “Sommerfrische” (i famosi “freschi”). Il primo curato fu Zacharias Hochleitner. Nel 1787 compare Johann von Kolb, noto per aver “portato” nottetempo la Madonna di Pietralba a Laives. Johann Bart, eletto nel 1801, fece richiesta di un secondo sacerdote di lingua italiana, poiché nel periodo napoleonico erano arrivate a Laives parecchie famiglie italiane. La richiesta fu respinta per motivi economici e alla necessità provvidero i curati “italiani” di Bronzolo.
Gran parte della storia di Laives del secondo millennio dopo Cristo coincide, nel bene e nel male, con l’ascesa e il declino della nobile stirpe dei von Lichtenstein. Dal lontano 18 aprile 1189, quando il principe vescovo di Trento Corrado affidò la “wardia et custodia” di Castel Lichtenstein sopra Laives in feudo ereditario ad “Adelheit, figlia del fu Gottschalk von Kastelruth, a suo figlio Heinrich e a suo marito Otto del fu Herkempret von Weineck” e fino alla sua scomparsa nel 1762, il casato acquistò enormi ricchezze e posizioni di potere in Tirolo, nelle terre d’Oltralpe e nella chiesa tridentina.
Sconosciuti rimangono le origini della famiglia e i nomi dei suoi primi esponenti (Calhochus I?), forse giunti a Laives da Coira nei Grigioni all’inizio del nuovo millennio. Abbastanza certo è invece che Adelaide, sposata in seconde nozze a Otto di Weineck e madre di Enrico, doveva essere vedova di un von Lichtenstein, forse quell’Udalschalk menzionato in un documento del 1162. Non si spiega altrimenti il motivo per cui il vescovo avesse affidato proprio a lei, donna originaria di un’altra diocesi, uno dei suoi feudi più importanti. Comunque sia, all’epoca il castello doveva esistere da oltre 100 anni, dato che i vescovi di Trento avevano ottenuto quel territorio nel 1027 e il presidio dei suoi confini settentrionali era e rimase della massima importanza almeno fino alla metà del XIV secolo, quando venne distrutto una seconda volta e definitivamente abbandonato. I conti, che mantennero il solo castrum inferius (Pfleg), centro dei loro affari, si erano già spostati a Bolzano in piazza della Mostra e a Cornedo. La stirpe di ministeriali produsse personaggi illustri e altri noti soprattutto alle cronache giudiziarie. Uno dei suoi più famigerati esponenti fu Bartolomeo IX, considerato la pecora nera della nobiltà tirolese all’epoca di Ferdinando II. Era noto per la sua dissolutezza e crudeltà nei confronti del popolo e, soprattutto, per la sua impudica convivenza con una “Dirn” (serva o forse prostituta). Morì in povertà nel 1602 dopo aver perso dissipato le sue ricchezze, tra cui anche il castello di Cornedo, “a causa del suo debole per le donne”.
Non meno indegna fu la fine di suo figlio Wilhelm VII, crudele e depravato quanto il padre: fu assassinato nel 1586 nei pressi di Cornedo da Erasmus von Lichtenstein, Pfleger di Caldaro, su istigazione di Konstantin I von Lichtenstein. A quest’ultimo furono quindi tolti i castelli di Arco e Penede. Invitato alla resa, rispose con le parole: “Se i conti di Arco sono stati dei cujoni, io di certo non lo sarò”. Partì per le guerre turche e non fece più ritorno. Da Belgrado scrisse a suo cugino Nicolò di Lodron, invitandolo a vendere l’argenteria per pagare il riscatto dalla prigionia. Costui si guardò bene dall’esaudire il desiderio del parente e lo lasciò morire in esilio nel 1614.
Napoleone non doveva tenere in gran simpatia i Laivesotti. Infatti, quando nel 1810 Bolzano e la Bassa Atesina furono incluse nel Département du Haut-Adige (Departement Oberetsch), Laives, tirolese dal 1259, venne staccata dal capoluogo e aggregata al comune di Bronzolo. L’unione tra i due paesi durò soltanto fino al 1816 ma lasciò diverse tracce nei documenti ufficiali e sulla stampa. Così il 22 febbraio 1815 “Der Bote von Tirol” annuncia che “l’11 di marzo avrà luogo presso l’albergo “Grosshaus” l’asta del cosiddetto Fuchserhof, ubicato nel comune di Bronzolo”. Il maso apparteneva allora alla diciannovenne Anna von Menz, figlia ed erede universale del magnate e commerciante bolzanino Anton Melchior von Menz, proprietario anche del Buchner sul Montelargo, deceduto nel 1801 a soli 43 anni. “Si compone – si legge ancora – di una egregia casa di abitazione, corte, torchio, fienile e stalle”. Ne fanno parte anche “un vigneto di 75 Klaster (1 Klaster = 0,5 ettari), un campo di 5 Tagmahd (1 Tagmahd corrispondeva alla superficie che si poteva mietere in un giorno), un bosco di 360 Klaster, una campagna di 239 Klaster, una palude di 8 Klaster” eccetera. “Il prezzo è fissato in 10.000 fiorini da versare in dieci rate annue ogni Lichtmess (2 febbraio) in monete d’oro e d’argento.” Il “Fuchser”, di proprietà dei Lichtenstein, era un maso storico di Laives. Viene citato per la prima volta nel 1528, quando muore l’affittuario dell’epoca Paul Hoerwarter. Il maso pasa alla vedova e, poi, ai vari figli, tra cui il controverso “Caspar Herwardt detto Fuchser”. Costui, sposato più volte, per un certo periodo rivestì anche la carica di delegato giudiziario di Laives. Si indebitò fino al punto da essere dichiarato insolvente e le sue proprietà vennero rilevate dal curatore dei Lichtenstein, tale Christof Feichtner. Tra il 1598 e il 1777, quando il maso venne acquistato da von Menz, compaiono nell’elenco degli affittuari e proprietari anche Melchior Zieglauer, il figlio Caspar (che possedeva anche il Teissl e il Burger e ricopriva la carica di responsabile dell’ente che curava gli argini dell’Adige e del Vallarsa nonché i fossi di drenaggio), il figlio di costui Adam, poi l’oste bolzanino Johann Schlechtleitner, morto nel 1695. Dopo alterne vicende, il maso venne ceduto a von Menz e, finalmente, all’asta del 1815, acquistato da tale Johann Plattner. Nel 1828 compare come proprietario Anton Orsi ma anche costui accumula debiti e il maso viene venduto all’asta per 3550 fiorini il giorno 25 marzo 1840. Gli ultimi proprietari, ma con il maso già diviso in più parti, rispondono a nomi ancora noti a Laives: Alois Lunger, Josef Gerber del Tschuegg e Alois Tomasi. Costui l’aveva acquistato nel 1895 e rivenduto nel 1905 a Clemens Demattio, che a sua volta nel 1910 la cedette a Alois Martinelli. Infine compaiono nell’elenco Johann Koch, Eduard Gianeselli e la famiglia Rizzoli.
A differenza di altri paesi, e con l’eccezione temporanea dei Lichtenstein, Laives non ha mai avuto una vera nobiltà, nessun convento e neppure un’alta borghesia residente in paese. I “siori” (die Herrschaften) abitavano a Bolzano o Gries, qualcuno anche più lontano come gli abati dei ss. Ulrico e Afra di Augsburg. I Lichtenstein stessi, che possedevano anche un palazzo in piazza della Mostra a Bolzano, si spostarono a Cornedo nel XIII secolo, lasciando l’amministrazione dei loro beni ad un “Pfleger” (curatore). A metà ‘700, l’abbazia imperiale di Augsburg acquistò per 40000 fiorini tutte le proprietà e rendite che i Lichtenstein nel corso dei secoli avevano ottenuto dai principi-vescovi di Trento: e parliamo di una trentina o più tra masi e poderi, dalla Pfleg a Sottomonte, da Weisshaus a Casagrande, da Gutleben a Koelbl e ai masi del Montelargo. Insomma, si può ben dire tutto ciò che poteva fruttare una piccola o grande rendita e un tempo era appannaggio dei Vescovi e dei loro ministeriali, passò in mano all’abbazia bavarese. Insediati dai Vescovi di Trento, che occuparono il territorio di Laives e tutto ciò che vi sorgeva dopo l’anno 1027, i Lichtenstein furono i primi veri signori di Laives. Due di loro, Georg I. e Ulrich IV., divennero vescovi a Trento, conferendo alla casata ulteriore prestigio e potere. I Lichtenstein (che dal 1499 si chiamarono anche Castelcorno in quanto gli era stato assegnato l’omonimo castello di Isera) devono il loro nome al “castrum de Liethenstaine” (lo storico Stolz lo ritiene il primo toponimo documentato della zona) che sorgeva sul Peterköfele, su una “pietra chiara”: forse chiamata così perché il primo sole del mattino illumina proprio questo promontorio. Nulla di preciso si sa sul loro luogo d’origine ma pare probabile che si trattasse della città di Coira nel Canton Grigioni. L’amministrazione delle vaste proprietà vescovili veniva affidata a “ministeriales” e ai “homines de nobili macinata casadei sancti Vigilii”, termine dal quale deriva anche il dialettale “masnada”. Il 18 aprile 1189 la “wardia et custosia castri de Liethenstaine” (ossia un “appartamento” del castello) venne affidato ad Adelaide di Castelrotto (probabilmente vedova di un precedente affidatario), al figlio di primo letto Enrico ed al secondo marito Otto di Weineck. Di fatto il castello rimase a disposizione dei Vescovi (e da ciò si comprende la rilevanza dello stesso nello scacchiere strategico dei potenti clerici trentini) e la vera residenza dei ministeriali si trovava presso il “castrum inferius”, noto come “Pfleg”. Qui si trovava, fino all’estinzione della casata nel 1761, la sede amministrativa di tutte le sterminate proprietà della famiglia, inclusi la grande “Reif”, da cui transitava gran parte del legname diretto a sud, e i diritti sull’acqua potabile del paese prelevata dal Vallarsa nonché di pesca nei fossati e canali da loro realizzati nella “Leiferer Au”.
Se per un istante si concretizzasse il sogno di girare indietro la ruota del tempo e potessimo osservare il paesino di Laives di metà ‘800, faremmo fatica a credere che si tratti dello stesso luogo che vediamo oggigiorno. Ma se questa opportunità ci è giocoforza negata nella realtà, un singolare testo dal curioso titolo “Physisch-medizinisch-statistische Topographie der Stadt Bozen mit den drei Landgemeinden zwölf Malgreien, Gries und Leifers, oder des ehemaligen Magistratbezirkes Bozen”, edito (“a proprie spese!”, ci informa l’autore in copertina) nel 1854 dal medico comunale di Bolzano Andrä J. Bergmeister, ci apre una ricca finestra sulla vita (di Bolzano, Dodiciville, Gries e Laives) di quell’epoca. In seguito alla riforma comunale del 1849, i tre comuni rurali si erano di fatto staccati dalla città-circoscrizione di Bolzano e dotati di autonomia amministrativa. In particolare, scopriamo che Laives era governata da un sindaco e due consiglieri comunali. Da non più di un decennio, dopo secoli bui di miseria e insalubrità del suo territorio flagellato dalla malaria (der Leiferer Tod), Laives era diventato uno dei comuni più prosperi della zona. Il benessere, secondo Bergmeister, era dovuto principalmente alla bonifica della “Leiferer Au”, l’estesa palude adibita a pascolo ai piedi del conoide del Vallarsa, e la sua trasformazione in terreni agricoli. Infatti nel 1843 le famose “Part / Toaler” furono assegnate ai piccoli coltivatori del luogo e a famiglie immigrate dal Trentino. Dove prima si trovavano sterpaglie e rovi, ora facevano bella mostra di sé floridi campi di granturco. Anche la popolazione subì profonde trasformazioni e nel giro di poco tempo arrivarono in paese molte famiglie dal vicino Welschtirol, un terzo degli abitanti totali. Laives divenne un comune “italiano”. Accanto al mais iniziò la massiccia produzione di bachi da sete e Laives ne forniva oltre 150 quintali annui. Anton Giorgi fece costruire la filanda. Nel circondario di Bolzano abitavano 13.127 persone, suddivise in 2829 famiglie. A Laives risiedevano 1202 abitanti (contro i 1078 del 1841) e 218 famiglie. Le case erano 113, di cui 70 a Laives-paese e le altre suddivise nei quartieri di Unterau, Breitenberg e Seit. Curiosamente, Laives era l’unico paese in cui c’erano più uomini che donne: 635 contro 567. A molti maschi laivesotti non rimase che cercar moglie altrove o rimanere scapoli. Altra curiosità: dopo la scoperta del vaccino contro il vaiolo a cura di Edward Jenner nel 1796 (iniettò del materiale purulento nel braccio di un ragazzino che divenne immune), anche nel circondario di Bolzano ogni anno furono promosse campagne di vaccinazione contro questa malattia. Inizialmente vi aderì quasi l’80% della popolazione, dopo il 1830 iniziarono le resistenze e si creò un movimento che oggi definiremmo di “no vax”. Le vaccinazioni ripresero con maggior successo dopo una grave epidemia scoppiata a Gries ed anche a Laives si registrarono 2 casi “importati da Nova Levante”: il mondo, si sa, era più piccolo, allora, e la Cina ancora lontana…