Dopo la stazione ferroviaria arrivano le nuove strutture alberghiere

Dopo l’apertura della linea ferroviaria del Brennero e i due soggiorni dell’imperatrice Elisabetta d’Austria dall’ottobre del 1870 alla fine di maggio dell’anno seguente e dalla metà di ottobre del 1871 fino a tutto dicembre dello stesso anno, la clientela più elegante e snob individuò in Merano uno dei luoghi per le proprie vacanze di cura proprio come era successo a Bad Ischl, a Bad Kissingen, a Madera o a Corfù, in ogni luogo insomma dove Sua Maestà era stata vista. Pressante diventò quindi la necessità di costruire alberghi di lusso provvisti di ogni genere di comfort.

L’afflusso turistico crescente necessitava anche di una adeguata rete di alberghi, pensioni e camere in affitto. Queste ultime furono in breve tempo messe a disposizione dai privati offrendo le prime possibilità di pernottamento e soggiorno sotto i Portici, nel quartiere di Steinach e in via delle Corse, nonché nei piccoli villaggi limitrofi di Maia Alta e Maia Bassa. 

In piazza della Rena esisteva la locanda Zur Goldener Rose, provvista di 13 stanze e considerata il migliore alloggio in città. Nella seconda metà dell’Ottocento fu ribattezzata Erzherzog Johann, in onore dell’arciduca Giovanni d’Austria. Tra il 1869 e il 1870, quando fu abbattuto un tratto delle mura cittadine, l’albergo fu ampliato al punto da disporre di ben cento camere, per giungere a centotrenta solo tre anni dopo. In questo ulteriore ampliamento, al primo piano, si era previsto lo spazio per una sala di lettura e una sala da gioco e da conversazione. L’albergo disponeva anche di un ristorante-giardino, allestito nel 1877, che era stato impreziosito da un gran numero di piante esotiche, e che sovente ospitava i concerti dell’Azienda di cura. Un ulteriore intervento di ampliamento, questa volta in altezza con l’aggiunta del quinto e del sesto piano, affidato allo studio di architettura Musch e Lun nel 1898, aveva condotto ad una capienza di centocinquanta camere. In questa occasione la facciata fu abbellita con eleganti frontoni neobarocchi. 

Apparteneva invece ad Hans Fuchs l’Habsburgerhof, l’attuale Hotel Bellevue, inaugurato nel 1883. Affacciato sulla piazza ellissoidale della stazione ferroviaria di Merano, l’attuale piazza Mazzini. Si dipanava su tre piani e aveva una capienza di sessanta camere e di altre ventiquattro nella dependance sul retro. Anche in questo caso l’ideazione e la costruzione era stata affidata allo studio Musch e Lun che era riuscito a dotare l’albergo di tutti i comfort. Sempre affacciato sulla Habsburgerstrasse, la via principale che univa il centro storico alla stazione ferroviaria, era il Tirolerhof. Un edificio a cinque piani, con cinquanta camere, di proprietà del signor Auffinger. Il sistema di balconi a logge rivolti verso sud consentivano l’esposizione all’aria aperta al riparo però dai venti venostani, particolare non trascurabile per tutta la schiera di turisti di cura sofferenti di affezioni polmonari che tanto numerosi affollavano Merano.

Faceva angolo con la Habsburgerstrasse e la via delle Corse l’Hotel Europa, in posizione assai favorevole per la clientela poiché a metà strada tra la stazione ferroviaria e la zona del passeggio, delle cure e dello svago. Costruito nei primi anni Novanta, apparteneva ad Anton Ladurner. Più vicino alla stazione sorgeva il Kaiserhof di proprietà di A. Ellmenreich. Prestigioso edificio, era ripartito in corpo centrale e due lunghe ali affacciate rispettivamente sulla Habsburgerstrasse e sul piazzale della stazione ferroviaria.

Non lontano dalla stazione ma già sulla Stefanie Promenade, a partire dal 1890, sorgeva Pension Euchta, una costruzione a tre piani e una disponibilità di ventotto camere. Sarà notevolmente ampliata nel 1905 e prenderà il nome di Savoy Hotel. 

Autrice: Rosanna Pruccoli

Il rinnovamento urbano e la costruzione della stazione ferroviaria

Tra il 1836 e il 1850, come sappiamo, il sindaco Haller aveva dato l’avvio ad una serie di migliorie urbane atte a rinnovare l’assetto della città. Fece abbattere una parte delle mura medievali, migliorò il sistema di canalizzazione, provvedendo all’approvvigionamento dell’acqua potabile con nuove fontane.

Un più fattivo impulso si ottenne dalla creazione, nel 1858, dell’Azienda di cura e soggiorno che provvide a creare le premesse per una vera e propria trasformazione della città. Molte vecchie case furono ristrutturate ed altre costruite ex novo. L’abbattimento negli anni Sessanta dell’ultimo tratto di mura compreso tra porta Bolzano e porta d’Ultimo, aprì completamente la città verso il Passirio, creando nuovi spazi e nuove possibilità di sviluppo.

Il flusso turistico, peraltro in costante aumento, subì un’impennata all’indomani della creazione della linea ferroviaria del valico del Brennero. Si risolveva così il problema del postiglione, delle frequenti soste per il cambio dei cavalli e la scomodità del viaggio, rendendolo più confortevole e velocizzando le comunicazioni. Le ansie che avevano accompagnato per secoli i viaggiatori provenienti dal nord nell’attraversare la cosiddetta “porta d’Italia” trovavano finalmente posa. Per raggiungere la nostra città restava un unico scoglio: il tragitto da Bolzano a Merano che andava ancora affrontato in carrozza con tempi che raggiungevano le tre ore. Cionondimeno nella stagione 1867-68 si raggiunsero le 2.400 presenze. Questa cifra delineò come irrinunciabile una riorganizzazione della ricezione turistica. Gli alloggi dei privati sotto i Portici e piccole locande come la Zur Rose non potevano più bastare. Fra i residenti si sviluppò un sano spirito imprenditoriale e così tra il 1865 e il 1875 si ristrutturarono numerosi edifici e si aprirono pensioni che assunsero la fisionomia di vere e proprie ville con giardino. Altre furono costruite lungo la Landesstrasse, l’odierno corso Libertà, anticipando quella che sarebbe stata più tardi la zona di espansione ovest della città. 

L’ulteriore conferma di Merano come luogo di cura e di vacanza diede una spinta positiva alla città, trasformandola nell’ultimo ventennio in un vero e proprio cantiere. Siccome la stazione era stata costruita su pascoli, a ovest del centro storico, quella zona sarebbe divenuta la zona d’espansione, trasformando l’area agricola in area edificabile. Il nuovo piano di sviluppo, redatto nel 1881 da Josef Musch, prevedeva la nascita di una zona residenziale con ampi viali alberati, ville e alberghi immersi in verdi parchi ed ampi giardini, secondo la tipologia delle città termali tedesche come ad esempio Wiesbaden.

Con l’andare del tempo anche a Merano iniziò a farsi strada l’idea di un congiungimento ferroviario con Bolzano e la costruzione di una stazione e nel 1872 si iniziarono le pratiche burocratiche in questo senso.

Visti gli interessi non solo turistici ma anche economici e commerciali in genere, il richiesto permesso giunse dal Ministero solo tre anni più tardi e subito si iniziarono i lavori di arginatura dell’Adige. L’opera fu condotta del consorzio delle ferrovie sostenuto anche dal lauto finanziamento dei fratelli Schwarz, fra i primi ebrei giunti in zona negli anni Trenta e proprietari di tre fabbriche di birra tra il Brennero, Bolzano e Vilpiano. Ai lavori di bonifica, arginatura e posa delle rotaie lavorarono anche numerosi italiani immigrati dal Trentino e dal Veneto.

La stazione, posta al centro di una piazza elissoidale era al contempo fulcro del nuovo assetto urbano e della vita turistica. Viali e strade vi si congiungevano, unendola ai punti principali del centro storico. La Beda Weber Strasse, l’odierna via Rezia, univa la stazione alla Stephanie Promenade. L’originaria Landstrasse, prolungata sacrificando la porta d’Ultimo, la metteva in comunicazione con la Ruffinplatz, oggi piazza Teatro, e con la piazza della Rena all’estremo opposto. In seguito la strada prese il nome di Habsburgerstasse e la piazza fu trasformata in giardino pubblico (1883). La via Mainardo infine univa lo scalo merci della stazione con la zona commerciale dei Portici. In questo vortice di rinnovamento furono coinvolti anche i ponti, ormai inadeguati. Il primo ad essere riprogettato, nel 1886, fu lo Spitalbrücke, ultimato però solo nel 1890. 

Una ulteriore fase di sistemazione ed abbellimento si ebbe fra il 1894 e il 1896: in questo periodo si affrontarono i lavori più diversi fra cui la sostituzione del padiglione della musica sulla Gisela Promenade con uno più elegante in ferro e vetro secondo il gusto dell’epoca.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La cappella russo-ortodossa


Il canone architettonico bizantino e russo-ortodosso avrebbe voluto la croce latina per la pianta della piccola chiesa russo-ortodossa, ma si utilizzò la soluzione ad aula caratterizzata però dalla tradizionale iconostasi lignea ricca di icone.

Lo spazio per i fedeli incominciava nel nartece, l’originario recinto per i catecumeni, ancora contrassegnato dal dipinto di forma triangolare raffigurante l’Ultima cena, proseguiva nel “naos” (l’aula vera e propria) dove giochi di luce e ombra sono resi possibili dalle grandi vetrate ad arco poste sul lato nord e sud a scandire lo spazio architettonico come in un sacro cerimoniale. L’aula si conclude ai piedi dell’iconostasi al limitare della cosiddetta “soleja”, la zona rialzata dove sorge appunto la tipica struttura lignea, imponente nelle sue tonalità scura del rovere e rilucente delle dorature, riccamente intagliata e modanata, impreziosita poi da immagini ieratiche di santi a figura intera e sovrastata da medaglioni, tutte opere di un artista rimasto anonimo, visto che per tradizione le icone non si firmavano. Oltre l’iconostasi si apre il presbiterio, dove trovavano posto l’altare e il trono, riservato solo al sacerdote e all’inserviente. 

L’Ambone e il “kliros”, ossia la zona riservata ai canti e alle letture dei testi sacri, tripartiscono la “soleja”: sull’ambone, posto davanti alla porta regale, si tenevano le letture tratte dal Vangelo, mentre sul “kliros” laterale trovavano posto lettori e cantori. 

Una croce russa dal tipico suppedaneo inclinato svetta ancora sulla lanterna a bulbo che rende ben individuabile il luogo sacro nelle linee architettoniche dell’edificio. 

Furono i fratelli Michael e Faina von Messing, i fondatori della Casa russa, che in prima persona seguirono sia le lungaggini burocratiche che i lavori e, con molta probabilità, avanzarono proposte per le soluzioni decorative e per gli arredi. Derivò da una loro iniziativa l’inserimento inconsueto di santa Giulia martire fra le figure dell’iconostasi, voluta probabilmente a ricordo della propria madre. Nella chiesa di un pensionato per malati di tubercolosi non poteva mancare un santo “guaritore” come san Panteleimon ossia Pantaleone di Nicomedia Medico   raffigurato nel gesto di estrarre da una scatola dei rimedi medicamentosi. 

Il 15 settembre 1897, sotto la guida di Faina von Messing, e con la direzione medica del dottor Michael von Messing, la Casa russa, anzi “Villa Borodine” risuonò del vociare entusiasta dei suoi primi ospiti. Alla Villa potevano accedere solo russi in grado di esibire certificati di appartenenza alla religione ortodossa, erano banditi i cittadini russi ebrei e gli ortodossi polacchi. 

La disponibilità era di 19 stanze e circa 30 letti, mentre tutto era regolamentato da un severo statuto che prevedeva ad esempio il divieto di possedere animali e suonare strumenti musicali, ma nella sala da pranzo vi era un pianoforte e non mancavano i piccoli concerti. Vietate erano anche le discussioni politiche o religiose ma per lo svago alla villa era allestita una ricca biblioteca e una sala di lettura dove si potevano trovare numerose riviste, e non mancavano ovviamente gli scacchi. 

La chiesa, invece, fu consacrata tre mesi dopo, il 3 dicembre 1897 alla presenza di tutta la Comunità dei fedeli, provenienti anche da altre località di cura del Tirolo meridionale, delle autorità cittadine, e del clero evangelico ed anglicano. Solo il clero cattolico si rifiutò di partecipare alla cerimonia. 

A partire da questa data le funzioni si svolsero ogni domenica e nei giorni festivi per sei mesi l’anno; in questo lasso di tempo alla villa era presente un sacerdote che, trascorso il periodo, rientrava nel luogo di provenienza. Il rito che seguiva rigidamente il cerimoniale russo terminava con l’inno nazionale.

La cappella russo-ortodossa di Merano si trova in Via Schaffer 21. Orario d’apertura: 1° e 3° sabato del mese dalle ore ore 9 alle 13 e su appuntamento (chiusura durante il periodo natalizio e pasquale).

Autrice: Rosanna Pruccoli

La nascita della Casa Russa grazie a Nadezda Ivanovna Borodina

Nelle mensili “Fremdenlisten” di Merano comparivano sempre più numerosi i cognomi russi di liberi professionisti ed industriali che, in forza dell’ingente sviluppo economico che la Russia stava vivendo, amavano trascorrere all’estero le proprie vacanze. Coglievano così anche l’opportunità di incontrare nei parchi, ai caffè o nelle sale da gioco i finanzieri e gli imprenditori di tutta Europa e stringere nuove ed importanti relazioni o alleanze economiche.

Frattanto a Merano vi era stato un rapido sviluppo delle ferrovie che, in capo a pochi anni dopo l’apertura della linea Bolzano-Merano, avvenuta nel 1881, permise un collegamento diretto fra Merano e San Pietroburgo.
Ciò aveva determinato un afflusso ancor più cospicuo di turisti ed ospiti di cura russi. Anche l’alta aristocrazia frequentava la nostra città, giungendo numerosa con il proprio entourage e con la propria servitù al seguito.

Era generalmente l’inverno la stagione che spingeva i nobili russi a varcare i confini della propria patria per cercare condizioni climatiche favorevoli nei luoghi di villeggiatura più alla moda.
A partire dal 1884 su interessamento anche dell’Azienda di cura e soggiorno, le funzioni di rito ortodosso ebbero luogo a Villa Stefanie, anche se l’esigenza di una chiesa aveva spinto il “Comitato” a raccogliere fondi per la sua costruzione fin dal 1880.
Ai membri del Comitato spettò anche il difficile compito di cercare un sacerdote disposto a trasferirsi in città anche solo per una parte dell’anno. Scelsero padre Feofil Kardasevic di Irom nei pressi di Budapest. Egli dotò la chiesa provvisoria di Villa Stefanie degli arredi sacri, la consacrò e ne redasse lo statuto che fu presentato all’assemblea della Comunità nel gennaio 1885.
La chiesa si manteneva con le offerte e la beneficenza di tutti gli ortodossi che vivevano o soggiornavano a Merano. Nel luglio successivo il Santo Sinodo ortodosso accordò con un editto alla chiesa di Irom di celebrare messe nella nostra città.

Determinante per l’allestimento delle strutture della Comunità russo-ortodossa e per la costruzione della “Casa Russa”, fu il lascito di centomila rubli di una giovane donna morta di tubercolosi: Nadezda Ivanovna Borodina. Nadezda, figlia di un funzionario di corte dello zar Nicola I, era giunta in città nel tentativo di alleviare i propri dolori ma, aggravatasi, morì a trentasette anni nel 1889.

Nel suo testamento indicò con precisione che la somma doveva essere impiegata per costruire un pensionato per correligionari non abbienti e malati di tubercolosi e per la costruzione di una chiesa ortodossa dedicata a San Nicola Taumaturgo.

Redattrice: Rosanna Pruccoli

La nascita della comunità russo – ortodossa nella città termale


Fin dagli esordi della Merano città di cura, la clientela russa vi giunse copiosa spinta dalla ricerca del tepore primaverile e autunnale e del “sole caldo del sud”. Fra i numerosi villeggianti e convalescenti non mancavano i medici in viaggio per cercare nuove cure da sperimentare oppure per far conoscere i propri rimedi, fra cui il dottor Levsin, un russo.

Il dottor Levsin, inventore del Kumys, ossia il siero di latte di cavalla, fermentato, frizzante ed alcolico, fu uno tra i primi ad arrivare in riva al Passirio. Giunto in città per un periodo di villeggiatura, aveva ceduto la propria ricetta di questa bevanda a due farmacie meranesi. Qui infatti non si conosceva ancora questa cura, né le sue proprietà terapeutiche contro malattie come lo scorbuto, l’anemia ed altri disturbi del ricambio sanguigno. Levsin morì però a Monte San Giuseppe nel 1874 e fu sepolto nel cimitero evangelico di Merano. 

Un altro medico che si era nel frattempo stabilito in città, Michael von Messing, di origine russo-tedesca, si era subito impegnato nella ricerca e nell’ulteriore sviluppo della cura del siero di latte di cavalla. Nel 1874 sul “Meraner Kurzeitung” era apparso un suo articolo sui benefici del kumys, inventato appunto dal compianto compatriota. 

Non furono pochi nemmeno i cittadini russi che decisero poi di stabilirsi in città, tanto che a partire dal 1875 essi fondarono il “Comitato russo”. Si trattava di un’associazione privata fondata da cittadini russi, facoltosi e di religione ortodossa. Il Comitato si manteneva con le offerte e la beneficenza degli stessi soci e aveva come scopo l’aiuto e il soccorso di tutti quei correligionari che si trovavano in difficoltà economica, e permettere ai meno abbienti, malati di tubercolosi, di trascorrere a Merano lunghi periodi di convalescenza.

Allo scopo era necessario fondare un pensionato, dove accogliere i correligionari che non fossero allo stadio terminale della malattia, ed offrir loro le migliori condizioni di vita sia sul piano sociale che religioso e, perché no, dove la cucina fosse quella tradizionale russa. 

Fra i primi passi avanzati dai membri del Comitato ci fu quello di richiedere al governo austriaco il permesso per la fondazione della Comunità e soprattutto l’autorizzazione per costruire una chiesa ortodossa in città. Contemporaneamente dovettero assicurarsi il consenso del metropolita di San Pietroburgo, Isidoro, sovrintendente alle chiese ortodosse all’estero e ricevere il suo permesso di costruire una chiesa e celebrare messe a Merano. 

La formazione di una Comunità significava adempiere a tutta una serie di esigenze anche burocratiche, da assolvere sia nei confronti della propria nazione d’origine, sia con il comune e la nazione ospitante; bisognava insomma attenersi a due legislazioni e render conto ad entrambe in ogni momento. Aprire ad esempio un pensionato per malati non abbienti significava anche provvedere alla loro sepoltura poiché né loro né i loro parenti avrebbero potuto sostenere le costose spese del rimpatrio della salma, come invece avveniva in genere per i benestanti e l’aristocrazia. 

La preoccupazione di trovare quindi un cimitero dove offrir degna sepoltura ai propri compatrioti non era un problema da poco vista l’impossibilità di condividere il cimitero cattolico che, per tradizione, non prevedeva una mescolanza di tombe nemmeno se cristiane. Fu invece il cimitero evangelico a condividere con la Comunità russo-ortodossa e con quella anglicana gli spazi per le tombe e i monumenti funebri.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La Chiesa evangelica del Salvatore sulle Passeggiate Lungo Passirio


Il 7 febbraio 1876 il governo viennese concedeva il permesso di dar vita a una Comunità evangelica a Merano e costruire una vera e propria chiesa. Ora spettava ai membri della Comunità realizzare questo sogno, iniziando col reperire fondi, sovvenzioni e dando vita ad una raccolta di offerte fra i residenti, gli ospiti di cura e i benefattori vicini e lontani. In capo a pochi anni la Comunità riuscì ad accumulare la considerevole cifra di 50.000 fiorini.

Un terreno, conveniente per il prezzo ma soprattutto per la posizione, fu reperito nella zona di espansione ottocentesca lungo l’allora Stephanie Promenade, molto vicino alla Gisela Promenade, il centro della mondanità cittadina. Il 20 gennaio 1882 fu indetta una gara per il progetto rivolta agli architetti tedeschi ed austriaci. Fra le caratteristiche imprescindibili, volute dalla Comunità, c’era la considerazione che la chiesa sarebbe stata frequentata soprattutto da malati di tubercolosi e bisognava quindi facilitare gli ospiti nei movimenti, lasciare un ampio corridoio nella navata per le sedie a rotelle, evitare giochi di corrente d’aria, offrire sedili comodi e un pavimento caldo. I posti a sedere dovevano essere 250, mentre, a misura igienica, si richiedeva di lasciare uno spazio di un metro tra le bancate.

Per quanto riguardava invece l’aspetto esteriore dell’edificio, esso non doveva risultare fastoso. Alla Commissione giunsero ben dodici progetti e furono scelti i tre giudicati più interessanti. La Comunità decise poi di affidare i lavori al secondo classificato, l’architetto Johann Vollmer di Berlino, assistente di uno degli architetti più importanti di chiese evangeliche e a sua volta esperto di costruzioni sacre e profane. Per seguire in loco i lavori la Comunità cittadina caldeggiò il nome del capomastro Adolf Leyn, correligionario ed esperto del settore per aver lavorato alla costruzione di una chiesa ad Hannover e per aver costruito alcune ville private a Merano. Il 6 ottobre seguente si procedette alla cerimonia della posa della prima pietra e due anni dopo, il 13 dicembre 1885, la chiesa poté essere consacrata al Salvatore.

All’interno, la decorazione lignea a rilievo dell’altare e del pulpito fu affidata al noto Franz Xaver Pendl, che si occupò anche del corpo del Cristo in croce. La finestra nell’abside, che rappresenta Gesù come il buon pastore fu realizzata insieme alle finestre della navata sud nel 1885 da una bottega di Monaco di Baviera. Il fonte battesimale di marmo policromo con foggia neogotica, dono dell’imperatore tedesco Guglielmo I, aveva trovato posto in posizione privilegiata proprio davanti l’altare. Sulla facciata, subito sopra l’ingresso mancava la figura del Cristo benedicente, ma il bozzetto realizzato dallo scultore Fuchs non piacque e l’idea di affidare l’opera ad Emanuel Pendl non trovava risposta nei conteggi finanziari e si decise quindi di rimandare. Certo l’attesa non fu brevissima: passarono infatti dieci anni, quando nel febbraio del 1896 si commissionò una statua di un Cristo benedicente, sul modello di quello più famoso del Thorwaldsen, alla società della cava di Lasa, che consegnò il pezzo nella primavera del 1897.

La difficile nascita della comunità evangelica in riva al Passirio

La nascita di una chiesa e di una comunità evangelica fu notevolmente osteggiata dalla popolazione cittadina. I numerosi turisti e ospiti di cura di religione protestante desideravano invece poter celebrare anche a Merano le proprie cerimonie religiose. Fu il re prussiano Federico Guglielmo IV che, giunto in città nel 1857 per un periodo di cure, fece celebrare la prima funzione evangelica dal suo cappellano di corte, nel giardino d’inverno di Castel Rottenstein a Maia Alta, dove soggiornava con il suo seguito.

In quell’occasione il re acconsentì a che tutti i correligionari presenti in città e nei dintorni partecipassero al rito. Da questo evento in poi, ogni volta che in città giungeva un pastore i turisti evangelici si radunavano presso le abitazioni private per celebrare una funzione. Nel frattempo, con grave disappunto del clero e del partito conservatore, l’8 aprile 1861 il governo viennese emanò la Patente dei protestanti che sanciva l’equiparazione della Chiesa evangelica.

Nel 1861 il tenente prussiano von Tschirsky, in vacanza a Merano, acquistò e donò alla piccola comunità evangelica residente a Merano, una casa ubicata in vicolo Haller, nell’antico quartiere di Steinach.  Ne fu realizzata una cappella, che nei giorni feriali fungeva anche da scuola per i bambini di fede evangelica e un piccolo appartamento per il pastore. Le forze politiche cittadine di maggioranza si erano opposte strenuamente alla trasformazione di quell’edificio in struttura comunitaria evangelica, ma grazie al sindaco Putz e del partito liberale la Comunità evangelica poté avere anche il proprio cimitero posto dietro la chiesa di Santo Spirito, vicino a quello cattolico e, a partire dal 1872, vicino a quello ebraico. A partire dagli anni Settanta si ebbe un pastore residente. Trasferitosi in città con la moglie, il pastore Karl Richter si curò della Comunità per ben ventiquattro anni, fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1866, intanto, il partito conservatore era riuscito a far accettare all’imperatore l’emanazione di una legge regionale con la quale si stabiliva fra l’altro che per la fondazione di una Comunità evangelica nel territorio tirolese fosse necessaria l’approvazione della Dieta regionale. Il pastore Richter non si arrese e presentò una petizione e l’anno seguente chiese udienza all’imperatore che in quel periodo soggiornava proprio a Merano. Finalmente nel 1875 giunse da Vienna la decisione che la legge regionale tirolese non poteva impedire la formazione di una Comunità evangelica. Il decreto del ministro del culto che confermava la fondazione delle Comunità evangelica sia a Merano che a Innsbruck mandò in frantumi la pretesa unità confessionale. Tale conferma al palazzo regionale di Innsbruck venne accolta con una vera e propria sollevazione: la maggioranza dei membri, i rappresentanti cioè del clero e del partito conservatore, lasciarono la seduta in segno di protesta. La reazione imperiale fu di sciogliere immediatamente la Dieta tirolese che fu riaperta solo l’anno seguente e in seguito a nuove elezioni. Così, ben quindici anni dopo la sua emanazione, la Patente trovò applicazione anche in Tirolo.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Quando passeggiare per la città era regolato da norme severe

A Merano presto si sottopose il passeggio a regole ben precise stilate in una Promenade Ordnung, e si pose un guardiano a controllo e a tutela. In primis l’ordinamento imponeva l’abito da passeggio e “vietava” alle signore di indossare abiti con lo strascico o comunque lunghi fino a terra. Indicava anche la misura dell’orlo ammessa e cioè appena sopra il tacco, per evitare di sollevare nocive nuvole di polvere.

Nel XVIII secolo lo sviluppo e la larga diffusione delle cure con le acque oligominerali avevano soppiantato i bagni, di lontana origine medievale. A questo nuovo sistema terapeutico andavano poi connesse salutari passeggiate all’aria aperta, la ginnastica e il moto. 

All’inizio del XIX secolo le numerose ricerche mediche sull’efficacia delle cure termali, dei soggiorni in luoghi dall’aria salubre o dal clima secco, avevano fatto sì che si moltiplicassero i luoghi di cura, le città termali, e le stazioni climatiche. Sulla base delle nuove esigenze terapeutiche sorsero anche nuove strutture architettoniche e si svilupparono interi centri urbani. 

La gamma delle malattie e dei disturbi che inducevano l’aristocrazia a riversarsi nelle diverse città di cura era assai ampia. Il folto popolo dei turisti di cura era composto dalle prime vittime del logorio della vita moderna, i convalescenti, i sedentari come gli studiosi o gli impiegati, i malati di petto al primo o al secondo stadio della malattia, i sofferenti di mal sottile, coloro che accusavano disturbi all’apparato digerente, chi accusava disfunzioni del ricambio,i malati di idropisia, gli stitici, gli obesi, i rachitici e molti altri ancora. Le città di cura per essere tali necessitavano però di una serie di strutture anche effimere per le cure , lo svago e la ricreazione turistica. 

Comparvero così le “Wandelhallen”, colonnati cioè, sotto i quali passeggiare, all’aperto ma al riparo dalle intemperie o dai violenti raggi del sole; i padiglioni dove far zampillare l’acqua minerale, le cosiddette “Brunnenhäuser”, per consentire ad ognuno di servirsi, chiamate anche “Trinkhalle”, come nel caso di Baden Baden. 

Si moltiplicavano gli spazi di incontro si moltiplicavano per rendere sempre più piacevole il soggiorno e la cura, quindi nacquero i viali alberati, i giardini e soprattutto i parchi anzi, il “Kurpark”. In queste città, piccole o grandi, ma sicuramente alla moda, aristocratici e classi emergenti si davano appuntamento per un periodo, oltre che di cura, di svago e divertimento. Così ogni luogo si doveva munire anche di questo genere di strutture. 

Si aprirono case da gioco, sale da ballo, padiglioni per concerti e teatri. Alle iniziali architetture effimere si sostituirono costruzioni polifunzionali stabili, ossia eleganti edifici dove far convivere sia la zona per le terapie che quella per i divertimenti:  sorgeva cioè il Kurhaus. 

Passeggiate, parchi e giardini comparivano come costanti nelle località di cura d’Europa.  Parchi, giardini, e soprattutto lunghe passeggiate diventavano strutture indispensabili per attirare un folto numero di villeggianti. A Merano dunque tutto ciò andava  strutturato per goderne appieno e per farne un punto di forza della città. Sull’esempio della lunga Esplanade lungo il fiume Traun di Bad Ischl e dei percorsi di Baden Baden, Karlstadt e altre, anche a Merano lungo il torrente Passirio si costruirono le Promenade. Si trattava di un’opera che sarebbe durata nel tempo con continui prolungamenti, nuovi percorsi da intrecciare ai precedenti e che dal lungo Passirio sarebbero avanzati sempre più, inerpicandosi dolcemente sulla collina del Küchelberg per costeggiare in posizione panoramica un lato del perimetro cittadino. I lavori per il primo nucleo di passeggiate, erano iniziati a seguito della riedificazione di possenti muraglioni ad argine del torrente subito dopo lo straripamento del Passirio del 1817. Sui cosiddetti “Wassermauer”, era stato tracciato un cammino. 

I lavori per l’ampliamento delle Promenade lungo il Passirio, iniziarono nel 1860. Il comune era proprietario del terreno ma lo aveva concesso in usufrutto all’Azienda di cura e soggiorno che avrebbe provveduto alle piante alle panchine e a qualunque altra forma di abbellimento. A tale scopo in seno all’Azienda fu istituita una apposita commissione che in seguito divenne la Gärtnerei, cioè la giardineria provvista di serre e giardinieri esperti.

I parchi, dove spesso si tenevano i concerti, divennero il luoghi abituali d’incontro di nobili e avventurieri. A Merano il passeggio fra parchi e giardini e soprattutto sulle Passeggiate fu presto sottoposto a regole ben precise stilate in una Promenade-Ordnung mentre un guardiano doveva controllarne il rispetto. In primis l’ordinamento chiedeva ai cittadini meranesi di lasciare il posto a sedere agli ospiti di cura e ai turisti nelle giornate di maggior affluenza. 

Alle signore invece vietava senza mezzi termini di indossare abiti privi di strascico e comunque non lunghi fino a terra per evitare di sollevare nuvole di polvere. Ai bambini era interdetto il correre. Ai signori era vietato fumare durante i concerti. Il passaggio era vietato a persone a cavallo, ma consentito alle carrozzine degli ospiti ancora deboli e convalescenti. 

Vietato era comprensibilmente strappare fiori e piante. I percorsi per le passeggiate non erano mai abbastanza e il sindaco Putz cercava di ampliare sempre più questo patrimonio cittadino. 

Autrice: Rosanna Pruccoli

Il concorso “la sposa d’Italia”: Tebe e Massimina protagoniste a Merano

Il concorso “la sposa d’Italia” vedeva giungere a Merano le diciotto finaliste che a Merano sarebbero selezionate per la vittoria, ma di loro solo una avrebbe vinto il concorso. Chi erano le donne che venivano segnalate per partecipare con le loro storie di vita al concorso? Nel 1958, ad esempio, si presentarono a Merano le diciotto vincitrici delle selezioni regionali e da subito i giornali fissarono la propria attenzione su due di quelle donne, narrandone ai lettori le loro due storie.

La prima protagonista si chiamava Massimina Lavarini in Borghetti e viveva a Borghetto all’Adige, a sud di Trento: “Spinge i traghetti lungo il fiume sostituendo nella fatica il marito, minato da una malattia contratta in guerra quando aveva combattuto in Africa”. 

Come troppo spesso accadde ai soldati che combatterono per l’Italia, non potendo contare su una documentazione adeguata perché dispersa, non poté mai usufruire di una pensione o di un indennizzo. 

Dopo aver cercato a lungo un lavoro, trovò un impiego totalmente inadatto alle sue condizioni fisiche: il traghettatore. Per anni spinse la pesante chiatta carica di passeggeri, carri e trattori ma un giorno la broncopolmonite lo costrinse per molti mesi a letto. 

Lo stipendio era però indispensabile per tirare avanti e Massimina decise di sostituire il marito, finendo però con l’ammalarsi anche lei. Guarito dalla polmonite, il marito riprese a lavorare sulla chiatta ma di lì a poco ebbe un infarto e nuovamente Massimina lo sostituì, ma vedendo che la donna piccola e gracile non ce la faceva, il Comune la esonerò: era la fame.

Ancora una volta Massimina seppe però trovare la forza di andare avanti, di guardare al futuro per se stessa, per il marito e per i figli: passò a fare le pulizie in un albergo e mantenne così la famiglia. 

La seconda protagonista si chiamava invece Tebe Dazzi in Ciardi e viveva a Camogli, nel Levante ligure. 

La sua odissea era legata a quella del marito alpino che, reduce dalla disastrosa guerra sul fronte italo-francese, era rientrato in Liguria con i piedi congelati. Richiamato nel 1942, fu mandato a Zara. Dopo l’8 settembre del ’43 si trovò fra due fuochi: i soldati nazisti da un lato, i partigiani di Tito dall’altro. 

Tebe, preoccupata per le sorti del giovane, decise di andarlo a cercare a Zara e, rischiando ogni momento la propria vita, lo trovò nascosto. Tebe camminò col marito sulle spalle per chilometri nei boschi onde evitare tanto i posti di blocco nazisti quanto i partigiani titini. Il marito la pregava di abbandonarlo e di mettersi in salvo ma Tebe proseguiva la sua strada col pesante fardello sulla schiena. 

Al rientro in Liguria all’uomo vennero amputate entrambe le gambe. 

“Tebe continua a prendere amorevolmente in braccio il marito per portarlo dal letto alla poltrona, dove scrive a macchina per guadagnarsi da vivere”.

Nel giorno clou v’era molta attesa per scoprire quali delle tante storie era stata scelta per il primo premio dalla severa giuria, insediata all’Hotel Bristol; alle 11, infatti, sarebbe stata proclamata la vincitrice ed in serata avrebbe avuto luogo un gran galà in onore delle premiate. 

Il quotidiano Alto Adige scriveva per i suoi lettori come, la sera prima, si fossero svolte le presentazioni delle singole storie e delle loro protagoniste: “Timide, impacciate, con un sorriso appena accennato, le partecipanti di questo concorso sono state presentate ieri sera sotto i fasci dei riflettori della Tv, dei cinegiornali, e i flash accecanti dei fotografi, alla giuria nazionale ed alla stampa. Le loro vicende sono lo specchio di migliaia e migliaia di casi nell’Italia del dopoguerra”.

Al gran galà presero parte coppie celebri, come ad esempio Federico Fellini e la Masina, per porgere alle spose un saluto augurale. Il giornale del 20 ottobre titolava: Eletta Tebe Ciardi che portò a spalle il marito da Zara a Fiume. Il secondo premio andò invece a Massimina di Borghetto.

Così Merano assistette a questo piccolo miracolo della ditta Necchi, che fu in grado coi suoi premi di ridare speranza a qualche famiglia che non aveva avuto né facilitazioni né sconti nello strano computo tenuto dal destino.

Autrice: Rosanna Pruccoli

L’officina di Galileo Chini a Merano

Incredibilmente ricca, varia e di successo fu l’intera vita di questo artista che frequentò con le sue opere le esposizioni Universali, la Biennale di Venezia, le esposizioni della Secessione di Roma, fu docente all’Accademia d’Arte e a quella di Architettura. Per i suoi lavori in ceramica venne premiato alle esposizioni internazionali di Bruxelles, di San Pietroburgo e di Saint Louis. 

Galileo Chini (Firenze 1873 – Firenze 1956) nacque e morì a Firenze ma questi due  dati non devono trarci in inganno! Galileo viaggiò moltissimo, fu capace imprenditore di sè stesso e frequentò senza posa e con enorme successo sia le Esposizioni Universali che le Biennali di Venezia. Fu sempre aperto alle influenze del suo tempo tanto da diventarne un colto, raffinato ed esperto interprete. Fu infatti influenzato dagli esiti artistici provenienti dall’Inghilterra, soprattutto quelle condotte dalle Arts and Crafts capeggiate da William Morrison, che voleva una riforma e una valorizzazione delle arti applicate, abolendo ogni confine tra arte e arte applicata prediligendo piuttosto una arte totale capace di esplicarsi in ogni ambito. 

Questi erano appunto anche gli intendimenti del Chini. Conobbe e fece sue le istanze preraffaellite descritte da John Ruskin e Dante Gabriele Rossetti. Non di meno subì il fascino di Klimt e della Secessione viennese ma non trascurabile fu il gusto esotico che egli sviluppò traendolo dalla sua personale esperienza biennale di lavoro in Tailandia. 

In Chini dunque si fondevano oriente e occidente, la tradizione medievale e rinascimentale con lo stile Liberty fino a spingersi all’Art Deco e negli ultimi anni della sua vita ad un espressionismo più cupo. Nel 1910 il re del Siam, Rama V, inviò in Italia Carlo Allegri, allora ingegnere capo presso il Ministero dei Lavori Pubblici del Siam, con l’incarico di trovare un pittore per la nuova Sala del Trono Ananta Samakhom di Bangkok: firmato il contratto a Firenze nel 1910 tra Galileo Chini e Carlo Allegri, nel 1911 l’artista si imbarcò a Genova, diretto in estremo Oriente. 

Chini affrescò la sala del trono presso il nuovo palazzo Ananta Samakhom e realizzò una serie di ritratti di Rama VI.

Nella centrale di Marlengo Galileo Chini firmò un insieme decorativo che si prendeva cura dell’intero rivestimento di piastrelle di ceramica di pavimenti e pareti, le lampade in vetro piombato, i supporti delle lampade stesse, le decorazioni Deco di arconi soffitti e archivolti. Sono figure geometriche quelle che si rincorrono e si allineano in più ordini. Occupano ogni spazio saturandolo delle tonalità calde con le quali sono dipinte.

Magnifici i due dipinti posti in pendant l’uno davanti all’altro. Il primo rappresenta una inarrestabile mandria di cavalli al galoppo, allegoria della forza dell’acqua capace di azionare i motori e produrre energia. 

Autrice: Rosanna Pruccoli