I mercanti ebrei – Prima parte

Anche nell’antico Tirolo fra i mercanti ambulanti fin dal Medioevo c’erano gli stracciaioli ebrei. Nel Settecento si affacciarono al mondo tirolese anche importatori ebrei su larga scale di tessili. Nell’Ottocento e nel Novecento, vicino ai negozianti ebrei con sede fissa continuarono a coesistere ambulanti e soprattutto commercianti all’ingrosso di minuteria da confezione. Ma facciamo un passo indietro e torniamo con la mente agli antichi mercanti ebrei del Mediterraneo. I radaniti.

Il commercio nelle sue varie forme, dall’importazione su larga scala alla piccola vendita ambulante e a domicilio, fu uno dei tratti distintivi del popolo ebraico fin dall’antichità e ebbe ampio spazio nel Medioevo e nei secoli successivi. Pensiamo ad esempio ai radaniti, ossia i mercanti ebrei dell’Alto Medioevo che svolsero un importante ruolo ponte negli scambi mercantili di prodotti rari e di lusso tra il mondo cristiano e quello musulmano, all’epoca molto spesso in lotta. Oppure alla Comunità ebraica di Costantinopoli i cui membri commerciavano, importavano e scambiavano seta e altri tessuti preziosi, spezie, incenso e altri oggetti ricercati attraverso ben tre assi principali che li conducevano verso Oriente fino a Damasco, Bagdad e Bassora; verso Nord dove vivevano fra i bulgari, i magiari, i khazari, per giungere al nodo commerciale di Kiev; e infine verso Ovest per raggiungere Venezia, Genova, Pisa e Amalfi. 

Non va però dimenticato che la presenza, la laboriosità, il commercio degli ebrei nell’Europa cristiana fra Medioevo e Emancipazione oscillò tra persecuzioni, pogrom, espulsioni e divieti, oppure -di contro- era resa possibile grazie a privilegi, permessi a tempo chiamati “condotte”, patenti o benefici che ne consentivano la presenza. Queste alterne vicende rendevano il peso economico o la loro concorrenza assai labili. Nelle zone in cui potevano stanziarsi il commercio di ben determinati prodotti era una delle poche possibilità lavorative che la loro condizione di “esclusi” poteva offrire. 

Stando all’iconografia medievale, rinascimentale, seicentesca, settecentesca otto e novecentesca sia di stampo antisemita che ebraica, riusciamo a farci un’idea dello stereotipo della presenza ebraica come ambulanti, ossia come potevano apparire abbigliati e come trasportavano le proprie merci. Nel corso del Medioevo lo stereotipo dell’ebreo era abbigliato secondo le norme sancite da Innocenzo III nel IV Concilio Lateranense del 1215, ossia alla levantina coi lunghi caftani stretti in vita da una cintura, oltre ai simboli dell’esclusione quali il pilleus cornutus giallo e il cerchio giallo cucito sul petto e sulla schiena per poter essere riconosciuti da lontano ed evitati.  Nelle epoche successive copricapi dalle fogge orientaleggianti si sostituirono al cappello a punta. Col fluire dei lustri ai caftani si aggiunsero i pantaloni, la redingotte, i tipici cappelli a bombetta o a tuba e l’ombrello. Nelle numerose cartoline antisemite d’epoca guglielmina, ad esempio, sono visibili gli stereotipi dei venditori ambulanti ebrei orientali con il caftano, le “peot”, ossia i tipici boccoli portati ai lati del volto, cappelli a cilindro ammaccati, e ombrelli malconci. Ed è sempre questa iconografia insieme a qualche statuina di porcellana inglese o di legno scolpito a mostrarci i modi in cui essi stivavano le proprie merci per poterle portare e proporle di casa in casa o ai mercati. Ceste di vimini di varia ampiezza da portare a mano o all’avambraccio, cassette di legno di varia dimensione legate a cinghie che venivano poste attorno al collo o a tracolla, zaini di stoffa robusta, cadreghe di legno soddisfacevano l’esigenza del trasporto e del cammino. 

La cassetta legata al collo è un oggetto che ha unito gli ambulanti al di là delle aree geografiche, al di là della fede religiosa e al di là del fluire del tempo: essa infatti attraversò le epoche, l’Europa, le tipologie merceologiche e le ritroviamo col nome di “schifetto” fra gli “urtisti” romani del passato e di oggi. Sono infatti circa duecento a tutt’oggi le famiglie ebraiche che fanno questo antico mestiere vendendo oggetti devozionali cattolici, rosari, santini e piccoli souvenir. A fine Ottocento l’editto papale consentiva ai “peromanti” del ghetto di Roma di uscirne e percorrere tutte le strade della città per vendere ai pellegrini e ai turisti questi oggetti. La vendita dei rosari ai pellegrini era infatti l’unica attività consentite agli ebrei romani al di fuori dei confini del Ghetto. Ciononostante non era consentito loro l’uso di carretti o banchetti. Da fermi lo schifetto veniva sorretto da un bastone che, tuttavia, doveva sempre poggiare sempre sul piede e mai poteva esser poggiato per terra poiché in tal caso avrebbero potuto incorrere in una multa per occupazione di suolo pubblico. Questa attività veniva tramandata all’interno della famiglia con la trasmissione delle licenze di generazione in generazione.

(continua)

Autrice: Rosanna Pruccoli

Oltre il pubblico elegante: la classe operaia e l’immigrazione

Se il turismo aveva significato la “mobilità” delle classi elitarie ed agiate, in viaggio per le cure o per diporto, e se spontaneamente si rimane affascinati dalle mille storie di eleganti dame in cappello, guanti ed ombrellino, non si può però dimenticare che la città aveva anche un’altra anima, quella più facilmente pronta a scivolare nell’oblio della coscienza e della memoria: gli immigrati e la classe operaia.

La mobilità che da sempre aveva portato uomini e donne ad attraversare le nostre contrade, fu riattivata durante gli sconvolgimenti politici dell’età napoleonica, a cavallo fra XVIII e XIX secolo. 

Non solo, nel periodo dell’occupazione bavarese, nel primo decennio dell’Ottocento, anche i confini di stato e quelli delle diocesi subirono continui mutamenti. In questo turbinio di avvenimenti, mentre il Tirolo veniva smembrato e il confine tra Regno di Baviera e Regno d’Italia correva tra Gargazzone e Nalles, Merano divenne un fiorente centro commerciale e di contrabbando attraverso la val di Non. Per un breve periodo, dunque, fino alle nuove risoluzioni del Congresso di Vienna (1815), Merano fu la meta di un consistente numero di immigrati trentini, ma il nuovo declino che aveva reinghiottito la città determinò una battuta d’arresto nella mobilità. 

Dettata dal terrore del colera che nel 1836 dilagava da sud, ci fu una nuova e massiccia immigrazione dalle valli trentine.

Nel XIX secolo i lunghi periodi di guerra, le carestie, le epidemie abbattutesi con diversa intensità sugli stati asburgici, indussero numerosi tirolesi e trentini ad unirsi al movimento migratorio diretto oltreoceano, oppure a cercare stagionalmente, fuori dei propri confini, una qualche forma di sostentamento. 

Muratori, braccianti agricoli e artigiani lasciavano le proprie case per recarsi in Svizzera, addirittura in Sassonia, in Turingia, in Vestfalia Altri ancora si mettevano in cammino per piazzare la propria merce, generalmente minutaglia, da vendere di villaggio in villaggio.

L’attività del venditore ambulante era particolarmente esercitata dagli abitanti delle valli Gardena e Stubai, che giravano l’Europa vendendo oggetti anche di loro stessa produzione come tappeti, guanti, cappelli, sculture lignee, utensili e casalinghi. Simile destino era riservato ai braccianti delle valli trentine: i paroloti si mettevano in cammino per vendere e riparare paioli, i moleta per arrotare coltelli e lame, mentre i venditori di stampe del Tesino, ad esempio, facevano sognare ed arricchivano l’immaginario delle genti che incontravano. 

Le povere condizioni di vita in molte valli determinarono il particolare destino di una parte della popolazione venostana o meglio di uno specifico gruppo marginale di quella zona e dell’Alta Valle dell’Inn, che potremo indicare come girovaghi costretti dalla povertà a questo stile di vita: il fenomeno dei Karrner o Karrenzieher, trascinatori di carri. 

Autrice: Rosanna Pruccoli