Si torna a parlare di “merito”, associando questo concetto anche alla formazione e alla scuola. Ma i talenti, dice papa Francesco, sono un dono da condividere. E uno studio presentato dalla Caritas alcuni giorni fa indica come la povertà sia in buona parte “ereditaria”. Un’ascesa sociale effettiva richiede il tempo di cinque generazioni.
Soprattutto nel campo dell’istruzione si verifica che “le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60 per cento dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare”. Già don Milani, nella Lettera a una professoressa scritta assieme ai suoi ragazzi, denunciava una scuola che premia i ricchi ed esclude i poveri.
Se la povertà è ereditaria, il “merito” c’entra poco. I Padri costituenti, ben consci di questo fatto, impegnarono la Repubblica (art. 3) a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È una prospettiva ben diversa da quella meritocratica. I diritti non si “meritano”, si riconoscono.
Papa Francesco, parlando al “mondo del lavoro” di Genova, pronunciò queste parole: “Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza”.
È certamente necessario che chi si impegna venga sostenuto (e che chi fa il furbo ne paghi le conseguenze). È giusto che chi ha un talento lo possa sviluppare per il bene comune. Il talento non va premiato, ma fatto fruttare. Essere nati benestanti e intelligenti non è un “merito”. È un dono, che va investito per il bene di tutti, in particolare di coloro che partono (senza colpe e senza meriti) da situazioni di povertà e disagio.
Autore: Paolo Bill Valente