Di fronte a tragedie come quella del naufragio di Cutro la comunità internazionale sembra essere senza soluzioni efficaci. Assenti gli interventi che puntino a rimuovere le cause delle migrazioni forzate, poche le risposte strutturate al fenomeno della mobilità globale che non si vuole riconoscere né affrontare.
I cosiddetti “corridoi umanitari” più che una soluzione, sono una provocazione. Meglio: sono una soluzione per donne, uomini e bambini che sarebbero altrimenti costretti a scegliere vie pericolose per mettersi in salvo. Sono una provocazione perché, con numeri certamente insufficienti, mostrano che esistono delle alternative realistiche ai viaggi della morte.
Il primo protocollo per un corridoio umanitario fu firmato nel dicembre del 2015. Eravamo nel pieno della crisi migratoria. Da allora sono arrivate in Europa (in modo particolare in Italia, qualcuno anche in Alto Adige) oltre seimila persone, originarie soprattutto di paesi come Siria, Eritrea, Afghanistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Iraq, Yemen, Congo e Camerun. Persone già in fuga, incontrate e selezionate dalle organizzazioni non governative nei campi profughi. Seimila rifugiati sono una goccia nel mare. E tuttavia non si tratta di numeri, ma di esseri umani, ognuno con la sua storia, con le sue ferite, con i suoi sogni.
Sabato scorso molti di loro sono stati ricevuti da papa Francesco a Roma. “I corridoi umanitari – ha detto il pontefice – non solo mirano a far giungere in Italia e in altri Paesi europei persone profughe, strappandole da situazioni di incertezza, pericolo e attese infinite; anche essi operano anche per l’integrazione, e questo è importante per finire integrare e non solo salvare, ma integrare. E integrare è parte della salvezza”.
Dal 2017 la Chiesa in Italia ha partecipato direttamente al progetto attraverso Caritas Italiana che ha coinvolto, finora, 62 Caritas diocesane. 1.146 le persone accolte, di cui 400 minori.
“Ero straniero e mi avete accolto”: su questo si misura la verità del messaggio annunciato. Non si tratta solamente di dare una casa e un futuro ai profughi, ma di interrogare il nostro tasso di umanità. Ogni comunità che ha accolto e accoglie una persona o una famiglia ha compiuto un cammino di preparazione. Si è favorita la conoscenza, si sono promosse le relazioni fra le comunità accoglienti e gli accolti. Sono nate esperienze che hanno lasciato un segno indelebile nei singoli e spinto le comunità a crescere e a essere lievito sui territori.
Alla fine di queste esperienze – che restano una bella e necessaria provocazione – non si sa più chi ha davvero bisogno di chi. “Quasi si confondono – dice Francesco – quelli che accolgono e quelli che sono accolti”.
Autore: Paolo Bill Valente