La sommelier e il calcio

Lea Casal ha solo 21 anni, ma ha le idee ben chiare su quello che potrebbe essere il suo domani. Quando non lavora come sommelier, è attiva in diverse società ed associazioni, prestando il suo servizio nel comune di Magrè, paese dove attualmente vive con la propria famiglia.

La cosa che più mi piace di me e il mio principale difetto.

Devo dire che sono i due lati di una stessa cosa. Quando ci tengo ad un idea, a una cosa o a una persona do tutto quello che ho, con tutto il mio cuore… Ma si tratta di una cosa che spesso non è solo positiva.

Il mio momento più felice.

I concerti di Ultimo.

Un libro da portare sull’isola deserta.

“Io sono più amore”.

La mia occupazione preferita.

Cantare e stare con le mie amiche e la mia famiglia.

Il paese dove vorrei vivere.

In Spagna, sull’isola dove c’è Palma di Maiorca.

Il mio piatto preferito.

La pizza.

Non sopporto…

L’ingiustizia, le bugie.

Per un giorno vorrei essere…

Ultimo.

La mia paura maggiore.

I serpenti.

Nel mio frigo non manca mai…

La fantastica marmellata di mia mamma.

Se fossi un animale sarei…

Penso un cane.

Il mio motto.

“Abbi il coraggio di splendere”.

Il giocattolo che ho amato di più.

Il pallone da calcio.

I miei poeti preferiti.

Gio Evan e Simone Carponi.

Il mio pittore preferito.

Michelangelo.

Il dono di natura che vorrei avere.

Fregarmene ancora di più.

Come mi vedo fra dieci anni.

Importante, felice e in piena salute.

Il colore che preferisco.

Il verde.

L’ultima volta che ho perso la calma.

In una situazione al lavoro.

Da bambina sognavo…

Di diventare una calciatrice professionista.

Daniele Bebber

(I crediti fotografici della foto di Lea Casal sono: Meike Hollnaicher / Alois Lageder)

Libri, famiglia e studio

Sonja Pircher, venostana, madre di due figli, lavora in Biblioteca Civica dal 2012. Da quasi dieci anni è a capo della sezione di lingua tedesca. Appassionata di musica e letteratura, oggi affianca al lavoro e alla famiglia anche lo studio universitario.

Il tratto principale del mio carattere.

La curiosità.

La cosa che più mi piace di me.

Non mi arrendo facilmente.

Il mio principale difetto.

Faccio fatica a chiedere aiuto.

La mia gioia più grande.

Forse è una risposta scontata, ma sono i miei figli: Alexander e Katharina.

Da bambina sognavo di diventare…

Tante cose diverse: detective, archeologa, astronauta, avvocata.

Non sopporto…

Dover aspettare; la pazienza non è il mio forte.

Un libro da portare sull’isola deserta.

“In fuga” di Alice Munro.

La qualità che preferiso in un uomo.

La concretezza.

… e in una donna.

Sempre la concretezza.

Il pittore che amo.

Mark Rothko.

L’oggetto a cui sono più legata.

Sono più legata a persone e ricordi, che a oggetti.

Mi sono sentita orgogliosa…

Quando ho deciso due anni fa di iscrivermi nuovamente all’università con un lavoro a tempo pieno. Non è facile, ma mi dà tanta soddisfazione.

Il mio motto…

“Chi non sa nulla deve credere tutto” – Marie von Ebner-Eschenbach.

Dove mi vedo tra dieci anni.

Sempre in biblioteca, ma spero in una struttura più grande, adatta alle necessità e ai desideri dei nostri utenti.

Il paese dove vorrei vivere.

Un posto vicino all’acqua, non troppo freddo.

La mia occupazione preferita.

Quando ho tempo, cucinare qualcosa di particolare, meglio se in compagnia.

La massima stravaganza della mia vita.

Un viaggio a Stoccolma insieme alle amiche per sentire tre pezzi di una delle nostre cantanti preferite.

Di Merano apprezzo…

L’essere una città aperta, l’architettura, il verde e le persone.

L’errore che non rifarei.

Anche gli errori commessi hanno contribuito a fare di me la persona che sono, quindi nessuno.

La volta in cui sono stata più felice.

Durante un viaggio alle Maldive, quando abbiamo passato una giornata su un’isola deserta.

Chiara Caobelli

Scaglie di cirmolo

è nata in Austria (vicino a Graz) da una famiglia di optanti. Quando lei aveva 5 anni i suoi genitori hanno fatto ritorno in Italia. Molto giovane (non aveva ancora 15 anni) ha conosciuto il giovanotto italiano di cui parla nell’intervista. Con lui ha incontrato ed imparato ad amare la sua famiglia, il suo mondo, la sua cultura (italiana), e questa è stata la sua fortuna. Anche grazie a questo oggi è la persona che è, e cioè un perfetto mix di due lingue e due culture. Sindacalista di lungo corso (dal 1975), è impegnata in ruoli di responsabilità sia a livello locale che anche a livello nazionale. Da sempre è impegnata socialmente e politicamente schierata in maniera chiara.

La cosa di me che mi piace di più.

Essere sempre diretta e sincera (non è sempre facile).

Il mio principale difetto.

Per quanto mi sforzi… fatico a trovarne.

Il mio momento più felice.

L’incontro con il ragazzo che da 50 anni è il mio marito.

La mia occupazione preferita.

Leggere e viaggiare.

Il luogo dove vorrei vivere.

Napoli.

Non sopporto…

La falsità e l’opportunismo.

Per un giorno vorrei essere…

Un uomo.

Nel mio frigorifero non manca mai…

Lo yogurt.

Se fossi un animale sarei…

Un gatto.

Sono stata orgogliosa di me stessa quella volta che…

In realtà io mi vogliono bene e mi piaccio quasi sempre.

Tre aggettivi per definirmi.

Attenta agli altri, curiosa, non banale.

La prima cosa che faccio al mattino.

Prendo una pasticca salvavita.

La disgrazia più grande.

La perdita di persone care e importanti.

Il mio ultimo acquisto.

Scaglie di cirmolo per favorire il buon sonno.

Amo il mio lavoro perché…

Mi piacciono le persone, mi piace tutto ciò che è “vita vera”. Mi permette di aiutare chi ha bisogno.

L’errore che non rifarei.

Gli errori fatti mi hanno fatto crescere. Quindi li rifarei tutti.

La massima stravaganza della mia vita..

Scarpe, scarpe e ancora scarpe.

Del mio aspetto non mi piace…

L’altezza.

Il mio primo ricordo.

Mia nonna (gran bella donna, alta ed altezzosa) con il capo coperto da un fazzoletto…

Il libro che non potrebbe mancare nella mia libreria.

“Die Walsche” di Josef Zoderer.

Il sogno infranto di Vanni, l’ottico “saltatore”

La prima storia che vi raccontiamo nel nuovo anno riguarda il sogno infranto, nel lontano 1984, di un professionista molto conosciuto a Bolzano, l’ottico Vanni Campanella. “Ormai è più il tempo della mia vita che ho passato a Bolzano, degli anni in cui ho vissuto a Ferrara, dove sono nato”, ricorda Campanella.

A Bolzano la si conosce per la attività di ottico, ma anche per la sua passione per lo sport, considerado il fatto che è il preparatore atletico del settore giovanile di alcune società sportive bolzanine.

Sono sempre stato un grandissimo appassionato di sport, in tutte le sue forme. Mi piace lavorare con i giovani, che oggi forse hanno meno possibilità, o anche meno capacità, per poter sviluppare la dote innata che hanno per il movimento fisico. Mi piace molto valorizzarla e penso sia questo che mi ha fatto rimanere sempre dentro allo sport.

Lo sport le ha procurato anche delusioni…

Era l’estate del 1984 e sarei dovuto andare con la Nazionale italiana di atletica ai Giochi Olimpici di Los Angeles. Ero bravino, ma ero bravino un po’ in tutte le specialità. L’amore per lo sport mi portava a provare tante discipline. Questa mia esuberanza nel cercare di fare tutti gli sport e non concentrarmi sul salto in lungo, è stato anche causa della mia esclusione dalla squadra per i Giochi. Avevo superato la qualificazione per poter accedere come riserva alle Olimpiadi con un bellissimo salto di 7,98 m. – il mio record personale era un po’ più alto, ma comunque nulla di certificato.

Tra compagni avevamo deciso di giocare l’ennesima partita di pallacanestro. Ora, io sono alto un metro ottanta, che non è chissà cosa, ma avevo una elevazione spaventosa. Presi per andare a schiacciare e in fase di atterraggio sono caduto, procurandomi una leggera distorsione, che nel giro di pochi minuti era diventata una grande distorsione, che mi costrinse a rimanere a casa a curarla, mentre gli altri prendevano l’aereo per andare a Los Angeles.

Mi è sempre rimasto l’amaro in bocca per un infortunio stupido, che comunque è una cosa che succede a tante persone che sono state incapaci di valorizzare i propri talenti. All’epoca non c’erano le persone che ti seguivano e che riparavano gli errori cercando di esaltare le tue caratteristiche e i tuoi punti di forza. Ed è per questo che oggi voglio dare il mio contributo in questo ambito. Oggi se vedo una dote in un atleta, so che posso lavorare per aumentarla, e lo devo fare nel settore giovanile, all’interno di qualsiasi sport, che sia la pallavolo, che sia l’atletica o che sia il calcio. Per me è principalmente nel calcio, perché conosco tantissimi bravi ragazzi giovani e mi piace, in questi ultimi dieci anni, aver dato il mio contributo al loro miglioramento. Vorrei fare in modo che a questi ragazzi non succeda la sfortuna che è occorsa a me, perché è una cosa a cui, a distanza di 40 anni, continuo a pensare.

Si tratta di un grande rammarico, quindi…

È la delusione per aver sprecato un’occasione. Quando ti si rompe veramente il vetro, sai che irreparabile. Ne rimarrà sempre un bel ricordo e per quanto tu poi cerchi di analizzare le cause, sperando che ti aiutino a digerire questa cosa, tu non la digerisci. Quando si infrange un sogno forte, non lo digerisci… Per quanto ce la si possa raccontare, rimane sempre un po’ il retrogusto amaro di questo sogno infranto, è proprio un rimpianto che non se ne va.

Till Antonio Mola

Fermate del bus senza marciapiedi

Nei giorni scorsi il nostro lettore Carlo Rughetti ci ha scritto chiedendoci di interessarci in merito all’assenza di marciapiedi presso le fermate degli autobus di Piazza Domenicani e Corso Libertà nel tratto tra Piazza Vittoria e Piazza Mazzini. Il lettore si domandava con garbo se “gli amministratori pubblici siano a conoscenza del fatto che i viaggiatori del servizio pubblico sono per la maggior parte anziani e anche con difficoltà motorie”.

Ci siamo fatti carico di questa richiesta e abbiamo contattato l’assessore comunale Stefano Fattor, che ha la competenza per quanto riguarda la mobilità urbana, ma non per i lavori pubblici che competono al vicesindaco Luis Walcher. Ecco di seguito e in sintesi la risposta di Fattor.

“Sia Piazza Domenicani che Corso Libertà in futuro dovranno essere rifatte. Al momento Corso Libertà è fatta in quel modo perché durante il cantiere, speriamo prossimo, per la realizzazione del parcheggio interrato di Piazza Vittoria, dovrà ospitare il mercato. Quindi prima di 3/4 anni lì non si potranno fare i marciapiedi rialzati alle fermate che non solo sarebbero assolutamente giusti ma anche obbligatori.

Per Piazza Domenicani il discorso è più complesso, perché la piazza dovrebbe essere rifatta completamente, ma i soldi però non ci sono. Fare delle pedane provvisorie in quel caso però sarebbe praticamente impossibile, perché le fermate dei bus insistono sull’intera piazza. Per rifare Piazza Domenicani, per una serie di motivi, sarà anche necessario attendere il cantiere delle vicine scuole Von Auschneiter, ma anche lì si dovranno aspettare per lo meno tre anni”.

Il disagio dunque, purtroppo, è destinato a durare. Ma almeno ne conosciamo il motivo.

Luca Amoriello: nel profondo di sé

Luca Amoriello è un giovane artista, diplomato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. L’abbiamo incontrato in occasione dell’apertura della sua mostra “Profondo me” per capire cosa si cela dietro alla ricerca artistica che produce pezzi unici dal sapore classico.

a mostra “Profondo me” di Luca Amoriello è stata inaugurata lo scorso 22 dicembre presso la sede di COOLtour a Bolzano, in Via Sassari 13/B. L’esposizione è ad ingresso libero e gratuito e resterà aperta fino a fine gennaio. orario 8-12, 15-17, sabato e domenica chiuso.

Quando hai scoperto la tua passione per l’arte?

La passione per l’arte l’ho sempre avuta, però la voglia di studiarla diciamo che mi è venuta molto tardi, poche settimane prima del mio diploma (nel 2019). è’ stato in realtà un cambio di programma, perché al liceo non avrei voluto studiare arte ma ingegneria poi però durante gli anni della scuola ho perso la passione per la matematica, la fisica e tutte le materie che mi sarebbero servite per ingegneria e ho scoperto la creatività che mi ha guidato nella scelta dell’università e fino a qui.

Qual è l’aspetto dell’arte che ti piace di più?

Prima di tutto il fatto che non servano parole, che bastino delle figure per esprimere qualcosa e poi che ogni persona in base al proprio vissuto o alle proprie credenze interpreti, in questo caso una mia scultura, in maniera diversa. Credo che sia una specie di potere questo: lasciare ad ognuno di rivedersi dentro a un’opera d’arte, di cercarsi e (perché no?) trovarsi.

Hai già esposto da qualche parte le tue opere?

Sì, ho esposto una delle mie sculture in occasione di un concorso. A maggio scorso invece, ho esposto una scultura, in occasione della conferenza interazione degli infermieri a Bolzano.

Quale significato hai dato alla tua opera “Atoxic Thoughts?”

Diciamo che non mi piace dare un significato alle opere, perché sono molto convinto come ho già detto prima, che esso cambi in base alla persona quindi dire“ significa questo” significherebbe quasi sminuire l’interpretazione di un’alta persona.L’interpretazione che ho dato io era semplicemente cercare di ragionare con la testa propria, quindi filtrare tutte le cose negative del mondo. C’è infatti una maschera nella scultura ed è una maschera antigas, quindi lei fiata l’aria e ti fa arrivare solo l’aria pulita. È questo il significato che io ho associato ad Atoxic Troughts, filtrare tutte le cose che si sentono e che si vivono per poi ragionare con la propria testa.

Cosa vorresti fare da grande?

Per ora mi sono iscritto al corso di laurea magistrale, perché vorrei fare il professore di arte nelle scuole pubbliche e per farlo serve appunto la magistrale. Però, come per ogni opera d’arte c’è un’interpretazione personale che io non voglio guidare, lascio che la vita mi porti dove deve e non escludo nulla.

Sara Rosca COOLtour

La strada dedicata a Max Planck

L’intitolazione a Max Planck di una via della zona industriale (quartiere Oltrisarco) è ben meritata, se si pensa alla rivoluzione che ha portato nella fisica. Era nato come Marx Karl Ernst Ludwig Planck il 23 aprile 1858 a Kiel, all’estremo nord della Germania. Già a dieci anni Planck si fece chiamare Max e non Marx. Nella primavera del 1867 la famiglia si trasferì a Monaco di Baviera, dove il giovane Planck frequentò il Gymnasium Maximilian; approfondito il principio di conservazione dell’energia, nel 1874 passò all’Università. Scelta la fisica come materia di ulteriore studio, nell’ottobre 1877 seguì a Berlino i corsi dei fisici Helmholtz e Kirchhoff. Nel corso degli studi affrontò i principi della termodinamica, il settore della fisica che studia la trasformazione delle varie forme di energia le une nelle altre. Sviluppò le idee maturate sul secondo principio della termodinamica nella tesi di dottorato, ottenendo a Nonac nel luglio 1879 un “summa cum laudem”. Dal 2 maggio 1885 fu docente di fisica teorica all’Università di Kiel. L’opera “Sul principio dell’aumento dell’entropia” spianò la strada per la sua carriera a Berlino, decisiva per i suoi studi e per il futuro della fisica. Dal 1889 al 1928 tenne la cattedra di fisica teorica alla facoltà di filosofia. Nella casa berlinese di Wangenheimstrasse 21 c’era un via vai di ospiti, scienziati, ma anche teologi, storici, filologi; Planck improvvisava anche concerti al pianoforte. Fu nel 1900 che durante le sue ricerche Planck avanzò l’ipotesi che l’energia venisse irraggiata non sotto forma di onda continua, come ipotizzato dalla fisica, ma in quantità discrete, in “pacchetti”, denominati “quanti”. Planck divenne Segretario dell’Accademia delle Scienze di Berlino e uno dei massimi esponenti ufficiali della scienza tedesca. Per la sua scoperta arrivò anche, nel 1918, il Premio Nobel. Dal 1912 al 1943 fu segretario dell’Accademia prussiana delle scienze. Distrutta la sua casa da un bombardamento aereo, Max Planck si trasferì a Gottingen, dove morì il 4 ottobre 1947.

Leone Sticcotti

Noi, cacciatori di briciole

Oggi, la preoccupazione per l’ambiente è una priorità, e il riciclo dei materiali è un modo essenziale in cui ciascuno di noi può fare la differenza. Quando acquistiamo un prodotto, spesso ci troviamo di fronte a etichette contenenti simboli misteriosi legati al riciclo. Ma cosa rappresentano questi simboli e come possono contribuire a preservare il nostro pianeta?

Il nastro di Möbius. Le tre frecce che si susseguono indicano che il prodotto o l’imballaggio sono riciclabili o realizzati con materiale riciclato. All’interno delle frecce, un numero rappresenta la percentuale di materiale riciclato presente.

Il triangolo di frecce. Questo simbolo, spesso presente sulle confezioni di plastica, denota che il prodotto è riciclabile. Un numero da 1 a 6 all’interno del triangolo indica il tipo di plastica, mentre il numero 7 indica che il prodotto non è riciclabile.

Esagono. Questo simbolo contiene sigle come PET, PE, PP, PS, PVC, AL, ACC, VE, CA, che rappresentano diversi materiali, dalla plastica all’acciaio, dal vetro alla carta. Di solito si trova su contenitori sigillati come barattoli e bottiglie.

Tidy Man. Questo simbolo ci ricorda di non disperdere i rifiuti nell’ambiente ma di smaltirli nei contenitori appositi.

Marchio “Compostable”. Questo marchio garantisce che l’imballaggio, spesso in bioplastica, sia compostabile industrialmente.

FSC. Il simbolo del Forest Stewardship Council (FSC) indica l’uso di legno sostenibile e proveniente da fonti gestite responsabilmente.

Appiattire dopo l’uso. Questo simbolo si trova soprattutto nei contenitori brik del latte e dei succhi di frutta; essendo materiali difficilmente riciclabili, l’unica accortezza che possiamo attuare per diminuire il loro impatto ambientale è ridurne il volume appiattendoli, per occupare meno spazio.

RAEE. Il simbolo del bidone sbarrato indica rifiuti elettronici contenenti sostanze pericolose che dunque richiedono un corretto smaltimento.

Riconoscere e comprendere questi simboli è fondamentale per contribuire a un mondo più sostenibile. La scelta di prodotti confezionati con materiali riciclabili e il corretto smaltimento degli oggetti riducono l’impatto ambientale, preservando il pianeta per le generazioni future. Quindi, la prossima volta che acquistate un prodotto, date un’occhiata ai simboli del riciclo sulla confezione. Scegliete con saggezza e fate la vostra parte per un futuro più pulito e sostenibile.

(rubrica realizzata in collaborazione con i “Cacciatori di Briciole” di Volontarius)

La lunga strada della Val di Fiemme

La Bassa Atesina come la conosciamo oggi fu “plasmata” principalmente nel XIX secolo da parte dei governanti asburgici. Prima di allora, tolto il lungo periodo romano, che aveva apportato notevoli migliorie alla rete viaria e al sistema idrico, il territorio era sempre stato piuttosto inospitale e, quindi, difficile da percorrere e da abitare. La Bassa Atesina come la conosciamo oggi fu “plasmata” principalmente nel XIX secolo da parte dei governanti asburgici. Prima di allora, tolto il lungo periodo romano, che aveva apportato notevoli migliorie alla rete viaria e al sistema idrico, il territorio era sempre stato piuttosto inospitale e, quindi, difficile da percorrere e da abitare.

Il problema principale del fondovalle era rappresentato dal fiume Adige che lo attraversava e, per così dire, dominava. Questo lungo corso d’acqua, così irregolare e invadente nel suo flusso, ricco di ristagni e laghetti, ramificazioni e periodiche esondazioni, determinava la vita dei pochi abitanti concentrati quasi esclusivamente sui conoidi alluvionali ai margini orientali e occidentali della valle. Fu proprio la necessità di regolare definitivamente il corso del fiume per ridurne la pericolosità a dare il via ai grandi interventi strutturali che modificarono per sempre la fisionomia della valle. Fino ad allora, di vere e proprie strade come le intendiamo oggi non era neppure il caso di parlare e il trasporto di uomini e merci doveva seguire le antiche e impervie vie montane o avvenire sul fiume, quando questo lo permetteva. L’avvento della ferrovia, progettata e poi realizzata a ridosso del fiume, costrinse gli amministratori dell’epoca ad affrontare una volta per tutte il problema Adige e furono quindi avviati e poi conclusi in tempi relativamente celeri i lavori di sistemazione del letto del fiume. A quel punto la strada era aperta per la nuova ferrovia che cambiò radicalmente la situazione viaria dell’intera regione e della valli laterali, prima difficilmente accessibili.

Da secoli, se non da millenni, esistevano sentieri più o meno ampi e battuti, che collegavano gli altipiani e le valli laterali alla Bassa Atesina, da sempre porta commerciale verso la Val Padana e l’Austria e la Germania. Con l’arrivo della ferrovia, la necessità di trasformare questi sentieri in vere e proprie strade si fece più impellente e le vallate temevano per la loro sopravvivenza economica in caso di perdurante isolamento viario. Nacquero in quel periodo importanti collegamenti come la strada della Val d’Ega, che sostituì completamente il secolare percorso tra Laives e Nova Ponente lungo la Vallarsa, e quella che oggi chiamiamo strada delle Dolomiti, ossia il collegamento da Fontanefredde a Ora. La vecchia strada che da San Lugano, un valico già noto nella notte dei tempi e citato per la prima volta in un documento del XIII secolo, portava a Trodena e Gleno per poi scendere verso Ora venne mantenuta ma perse del tutto il suo peso. Più o meno sullo stesso tracciato venne poi realizzata, con l’impiego prevalente di prigionieri di guerra russi e serbi, la linea ferroviaria Predazzo – Ora, in funzione dal 1917 al 1963.

Fu la Magnifica Comunità di Fiemme a volere la nuova strada per collegarsi meglio alla nuova linea ferroviaria e poter portare i propri prodotti, soprattutto legname, sui mercati. Il progetto fu affidato al geometra fiemmese Tomasi, che progettò la strada tra Fontanefredde e Egna. Infatti il tratto tra Montagna e Ora avrebbe richiesto, data la conformazione rocciosa del terreno, interventi difficoltosi e molto costosi nel Monte Cislon. La Comunità avviò lunghe trattative con i comuni di Montagna e Egna per l’acquisto dei terreni necessari alla costruzione della strada. I due comuni opposero strenua resistenza perché la nuova strada avrebbe tagliato in due molti terreni agricoli, rendendone difficoltosa la coltivazione. Un conigliere comunale di Egna arrivò ad affermare che anziché una strada era meglio erigere un muro, in modo che nessun mendicante fiemmese avesse più potuto mettere piede in Bassa Atesina. A quel punto alla Magnifica Comunità non rimase che realizzare la nuova strada fino a Ora e nel 1845 iniziarono i lavori, poi conclusi in concomitanza con l’inaugurazione della ferrovia tra Bolzano a Verona. I lavori per realizzare i 47 km di strada durarono 15 anni, i costi si aggirarono su un milione di Gulden, sostenuti interamente dalla Comunità fiemmese. Quando a Egna si accorsero che tutto il traffico commerciale convogliava su Ora, compresero il grande errore commesso. Per non rimanere completamente isolati dalla Val di Fiemme, furono quindi costretti a realizzare a proprie spese il collegamento tra Montagna e Egna.

Reinhard Christanell

La fiducia degli altoatesini non è più scontata

La crisi di fiducia è la grande questione che segna i rapporti tra le persone, tra i gruppi sociali e dei cittadini con le istituzioni e con chi nella società ha un ruolo pubblico, come i politici, i sacerdoti e i giornalisti. La Provincia, come il partito, perde punti, ma con notevoli differenze tra i gruppi linguistici.

I dati emergono dall’indagine dell’ASTAT su “Soddisfazione delle cittadine e dei cittadini nei confronti dei servizi pubblici, 2023” che rivela “un calo generalizzato dell’ottimismo o della soddisfazione di vita”.

La fiducia nella Provincia autonoma rispetto al 2018 cala dal 78 al 66 per cento (recupera invece lo Stato italiano che passa dal 19 al 28 per cento). Ciò che sorprende è il fatto che esprime fiducia nelle istituzioni provinciali il 56 per cento tra le persone di madrelingua tedesca contro un 85 per cento tra quelle di madrelingua italiana, mistilingui o di altra lingua. Un dato che smentisce qualche stereotipo e che fa il paio con i recenti risultati elettorali, che mostrano una diminuzione consistente nel consenso per il partito che storicamente ha legato la sua immagine alla Provincia, governandola in autonomia. Sono numeri che parlano anche della persistenza di uno sviluppo diseguale tra i gruppi linguistici, con poche occasioni di incontro e con una debole sensibilità comune. È l’effetto della politica della separazione etnica attuata consapevolmente negli ultimi decenni.

Tra le figure professionali quelle più quotate sono i medici (88 per cento), gli scienziati (84), gli insegnanti (82), il personale del comune (77), le forze dell’ordine (76), gli imprenditori (71) e i magistrati (69). Da sottolineare il fatto che tutte le categorie sono in calo (tranne i politici nazionali che, pur restando gli ultimi in classifica, guadagnano due punti). I giornalisti, ahimè, scendono dal 38 al 32 per cento.

Chi perde il maggior numero di punti in termini di fiducia sono, secondo l’ASTAT, i politici altoatesini e i sacerdoti: meno dieci per entrambi gli ambiti. Dal 2018 a oggi. Spesso le scelte e i comportamenti di pochi si traducono in un danno, non solo di immagine, per molti e per tutti.

Autore: Paolo Bill Valente