Immigrazione: nuovi volti e vecchi luoghi

Martedì 10 settembre alle ore 17.30 presso la Biblioteca Claudia Augusta di Via Cappuccini a Bolzano avrà luogo la presentazione aperta al pubblico (ingresso libero e gratuito) del nuovo volume edito da alphabeta, dedicato all’universo dell’immigrazione in provincia di Bolzano. La presentazione del libro vedrà la partecipazione del curatore Adel Jabbar in dialogo con Giorgio Mezzalira (storico).

Da circa tre decadi l’Alto Adige/Südtirol è divenuto meta, non solo area di transito, di movimenti migratori e luogo di residenza per persone provenienti da numerosi Paesi del mondo. Enti locali, associazioni, istituti di ricerca e soggetti privati si sono attivati in diversi ambiti non solo per dare risposte ai bisogni primari di una particolare fascia di popolazione in continuo aumento, ma per individuare percorsi finalizzati all’inserimento dei nuovi cittadini nel tessuto sociale e nella vita quotidiana. Sono maturate così interessanti riflessioni volte a mettere a fuoco da un lato le dinamiche migratorie in quanto tali, dall’altro le trasformazioni determinate dal loro impatto sugli equilibri di una comunità autoctona che ha di per sé marcati connotati storici e culturali. Questo volume a più voci offre uno sguardo interdisciplinare e multiprospettico, e illustra un ampio ventaglio di approcci e interventi che hanno caratterizzato la gestione dell’immigrazione sul territorio provinciale, indagando la situazione attuale ed evidenziando le problematiche che rimangono fatalmente aperte: dal quadro normativo alle politiche d’inclusione o di malcelata discriminazione, dai processi partecipativi ai problemi sanitari e abitativi, dal mondo del lavoro e della scuola a luoghi e iniziative interculturali, fino alle sfide poste dalla seconda o terza generazione di cittadini con background migratorio. Tra modelli innovativi di integrazione e puri “effetti tampone” prodotti dalle perduranti logiche dell’emergenza – che tuttora guidano l’Europa, i governi nazionali e, a caduta, le amministrazioni locali – il “sistema Alto Adige”, fondato di per sé sulla convivenza etnica, mostra alcune aree di eccellenza, ma anche difficoltà e ritardi che riflettono l’assenza di una vera strategia davanti a un fenomeno globale del nostro tempo.

Con contributi di: Ana Agolli, Gianni Bertoncello, Licia Casagrande, Giusy Diquattro, Salvatore Falcomatà, Luigi Gallo, Marina Gousia, Barbara Gramegna, Mari Jensen-Carlén, Roberta Medda-Windischer, Johanna Mitterhofer, Rita Moreschini, Tanja Nienstedt, Matthias Oberbacher, Sophia Schönthaler, Hilary Solly, Verena Wisthaler, Giorgia Zogu.

Nardo Dee: il nuovo album è “Roba Vecchia”

Il rapper bolzanino torna con un nuovo album “Roba Vecchia EP” e ci racconta un po’ di sé. Come hai intrapreso la carriera da rapper a Bolzano?  

È nato tutto un pomeriggio estivo del 2007. Ero di ritorno verso casa dopo una giornata al campetto di basket, ho visto un gruppetto di ragazzi sotto casa mia che facevano freestyle e fino ad allora non avevo mai conosciuto altri coetanei con il mio stesso interesse. Se dovessi dare una precisa collocazione temporale dell’inizio della mia carriera, quel pomeriggio estivo nel quartiere Don Bosco è stato il giorno 1 di Nardo Dee. 

Chi o cosa ti ispira a fare musica e scrivere canzoni?

Una volta in un brano ho scritto: “Il rap è musica per disagiati fatta da poeti mezzi pazzi”. Ovviamente è il mio punto di vista, però penso che saper fare liriche, sfogarsi e creare allo stesso tempo del buon rap, sia un toccasana per la mente. Nel mio percorso artistico ho trovato ispirazione ascoltando dischi di rapper come Bassi Maestro, Zampa e Ghemon.

Questo nuovo album di cosa tratta?  

È un Album in collaborazione con Dj fede, storico produttore e dj di rap italiano, composto da 4 tracce dal suono inconfondibilmente “classico”, con ritornelli e strofe, senza autotune per intenderci. Ogni canzone all’interno dell’Ep ha una sua storia e un suo preciso messaggio. Le atmosfere variano di brano in brano, così come le collaborazioni, che sono molte, ma indispensabili per confezionare un prodotto unico. 

Il titolo “Roba Vecchia EP” da cosa è nato? 

Il titolo è una provocazione, ma allo stesso tempo una meravigliosa etichetta sulla musica che produciamo. Per certi versi viviamo in un momento storico dove anche la musica è “fast-food”. Se un brano non diventa un tormentone, può durare anche solo un giorno. Gli album tendenzialmente non si fanno più, perché una volta usciti hanno una data di scadenza molto corta. “Roba Vecchia Ep” è decisamente contro corrente, essendo un disco che non è stato fatto per entrare in questa logica, ma anzi, la sua realizzazione è stata dettata solo dal piacere di fare musica come piace a noi. 

Di questo album c’è una canzone alla quale sei particolarmente legato? 

Ovviamente tutte, ma se devo sceglierne una in particolare scelgo “capo di sto gioco” perché finalmente posso dire di aver fatto una canzone con il mio rapper preferito di sempre. 

Qual è un posto dove ti piacerebbe esibirti?

Mi piacerebbe esibirmi in piazza Tribunale, dove anni fa si teneva “Playground”, il festival del rap regionale per eccellenza. Vorrei vedere un festival simile, ma nuovo allo stesso tempo; organizzato da giovani con entusiasmo. Un festival dove i locals che si esibiscono parlino solo attraverso la propria musica, il proprio talento e soprattutto che portino avanti i valori della cultura hip-hop.

Autrice: Ilaria Talamoni COOLtour

Ricordate Aldo Porcaro, pittore parigino?

Poco più di venti anni fa moriva Aldo Porcaro. Artista, anima inquieta, folle e irregolare: Porcaro attraversò la composta Bolzano, talvolta disturbando. Insieme a chi l’ha conosciuto, lo ricordiamo in alcuni frammenti di vita.

“Vi saluta e vi attende nello studio più bello Aldo Porcaro, fu Nunzio, pittore parigino” così recita il necrologio di Aldo Porcaro sull’Alto Adige del 31 ottobre 1991. Aldo Porcaro: molti bolzanini lo ricorderanno, forse. O perlomeno ricorderanno il suo nome, scritto in calce alle sue frasi provocatorie, che lasciava sui muri della città: corso Libertà e Piazza Vittoria, ma anche il centro, via Argentieri e via Leonardo da Vinci. Aldo Porcaro è stato un artista, un’anima inquieta, un folle e un irregolare, che tra gli anni ’70 e ’90 attraversò, talvolta disturbando, Bolzano.
Ne abbiamo parlato con Lukas Zanotti, anch’egli artista. “Ci siamo conosciuti in maniera strana: io marinavo la scuola andare in Tessmann a leggere libri di arte (sic!). La biblioteca apriva alle nove e allora mi fermavo sul Talvera. Quel giorno ero seduto su una panchina e stavo guardando un catalogo di Paul Klee. Lui mi ha visto, prima è passato, poi si è girato, è venuto a sedersi e abbiamo comunicato a parlare di arte”.

Che tipo era?
Era alto, un bell’uomo, il tipico meridionale, con profondi occhi neri. Dimostrava meno anni”

E poi?
Era stato a Parigi e si sentiva francese. Ci incontravamo spesso sulle passeggiate, poi mi invitava al bar a colazione-dai, offro io, insisteva- ma alla fine però toccava sempre a me pagare”- racconta Zanotti con una punta d’affetto nel sorriso.

Che faceva Aldo allora?
Era verso la fine degli anni ’80. Non so se avesse una casa, da quello che so viveva sotto il ponte, o si faceva ospitare magari da qualche donna. Aveva sempre con sé un taccuino/cartellina, si metteva a disegnare, dipingere, faceva acquerelli, acrilici. Diceva che gli sarebbe piaciuto avere un posto, ma non tanto, perché era convinto che sarebbe ripartito presto per Parigi. Ci chiamava “bolzanesi”, amava storpiare il nome. Ci considerava tutti borghesi venduti, mentre lui si sentiva francese.

E gli accessi d’ira?
Andava tutto bene finché non si parlava di politica: li finiva su un binario tutto suo e si scaldava. Si sentiva una vittima, che tutti ce l’avevano con lui, anche nella realtà altoatesina, che allora era molto chiusa e da cui si sentiva un escluso. Faceva discorsi farneticanti e cominciava a urlare.. allora era il momento di pagare e andarsene.

Com’era la sua arte?
Gli piacevano la grafica e le litografie. Partiva dal figurativo e poi lo scomponeva in frammenti, per arrivare all’astratto, forse ispirato dalle vetrate gotiche delle chiese francesi. I suoi lavori più maturi sembrano mosaici.

E a proposito della sua arte, Arnold Tribus, direttore della Neue Südtiroler Tageszeitung ed esperto d’arte, ci ha raccontato “Aldo Porcaro era una di quelle personalità artistiche con una testa tutta sua, credeva di potercela fare senza una galleria, e in effetti per un certo periodo andò bene. Negli anni ’70 era attivo sulla scena artistica, insieme ad altri colleghi come Florio Vecellio. Le opere nate al suo ritorno dalla Somalia ebbero successo, e non c’era collezionista a Bolzano che non avesse un Porcaro in casa. Poi qualcosa si ruppe e i suoi lavori non funzionavano più come prima”. E le scritte sui muri? “Per lui erano arte”- precisa Tribus” le considerava un’evoluzione del suo lavoro. Con le scritte e le provocazioni voleva scuotere quella società bolzanina che gli aveva voltato le spalle” così Tribus. Artista, imbrattatore di muri, voce sguaiata e nota stonata tra le vie ordinate di una città composta e ingessata: Aldo Porcaro è stato questo e molto di più. La sua presenza poetica e disturbante saprebbe scapigliare bene molti bolzanini di oggi.

ALDO PORCARO

La biografia di Aldo Porcaro somiglia a quella di tanti artisti “maledetti”: dopo la scuola commerciale a Bolzano lavora per una banca italiana a Mogadiscio, dove conosce la sua prima moglie Asli. La pittura e il disegno sono la sua vita e, tornato dall’Africa a Bolzano, negli anni ‘70 riesce a vendere bene i suoi dipinti “africani” dai colori accesi. Porcaro ha una vita sentimentale vivace, è un personaggio charmant. All’inizio degli anni ‘80 trascorre un anno a Parigi, ma, costretto a tornare per motivi economici, non troverà mai una sua dimensione. Instabile mentalmente, negli ultimi anni di vita vive vagabondando; muore all’ospedale di Bolzano per una malattia cardiaca il 30 ottobre 1991.
La sua storia è stata raccolta da Dietrich Reinstadler nel volumetto “Aldo Porcaro fu Nunzio Pittore Parigino”, Matzneller Editions.

Autrice: Caterina Longo

Seehauser, racconti per immagini

Da quasi mezzo secolo, Othmar Seehauser ci racconta l’Alto Adige con le sue fotografie. La mostra “Kein schöner Land/Immagini”al Kunstforum di Egna presenta una selezione degli scatti del noto fotografo altoatesino, tra la bellezza sfacciata e le tante contraddizioni della nostra provincia.

Da quasi mezzo secolo, Othmar Seehauser ci racconta l’Alto Adige con le sue fotografie. La mostra “Kein schöner Land/Immagini”al Kunstforum di Egna presenta una selezione degli scatti del noto fotografo altoatesino, tra la bellezza sfacciata e le tante contraddizioni della nostra provincia.
L’impresa non era semplice: selezionare poche decine di fotografie tra oltre un milione – tante sono quelle che compongono lo sconfinato archivio fotografico di Othmar Seehauser. Nato nel 1955 a Nova Levante, Seehauser può considerarsi tra i più importanti testimoni visivi della nostra provincia. Dagli anni ’80 ha lavorato per i media locali e come autore di libri illustrati, restituendo in immagini spettacolari la natura, le persone, i fatti e i monumenti del Sudtirolo. Seehauser ha l’occhio, l’energia e la “fame” di storie del fotoreporter fuoriclasse. Non a caso ha iniziato la sua carriera realizzando servizi dall’America latina per la stampa nazionale e internazionale, come “Der Spiegel” Tra i reportage per la prestigiosa rivista tedesca ricordiamo in particolare quello sugli effetti del disboscamento in Amazzonia.

L’arrivo dei rifugiati albanesi a Monguelfo

Anche l’immagine scelta per l’invito della mostra a Egna è un paesaggio avvolto da nebbie invernali, un’atmosfera i cui non sfigurerebbe il Bates Hotel del film Psycho, ma che in realtà ritrae uno scorcio di Renon verso Santa Maria Assunta, luogo storico della villeggiatura della ricca borghesia altoatesina. Coperti dalle nebbie, anche i posti noti appaino sotto una luce diversa, insolita. Un po’ quello che provano a fare le immagini di Seehauser: svelare quei tratti inaspettati della nostra provincia, mostrarne la bellezza, ma anche i contrasti e le contraddizioni che fanno riflettere, pensare, a volte anche sorridere. è un Alto Adige “smascherato”, quello della mostra, “Il colore abbellisce, distrae: per questo ho scelto il bianco e nero per la maggior parte delle fotografie esposte”, ci racconta Seehauser. Il percorso non segue uno svolgimento cronologico; le immagini sono raccolte in gruppi di tre, quattro, in base ai temi e ai momenti che raccontano. Sono abbinamenti che non gridano, ma suggeriscono: sta a noi fermarci ad ascoltare, a guardare.
Ecco allora che la fotografia dei boschi devastati dalla tempesta Vaia è accostata alla possente bellezza del paesaggio d’alta quota del gruppo Tessa; il venditore ambulante tra le vie di Bolzano all’arrivo dei rifugiati albanesi a Monguelfo, nel 1991. Ma c’è anche l’Alto Adige tradizionale e un po’ borioso, di uomini nei tipici Lederhosen in un momento di festoso cameratismo e quello delle architetture ipermoderne del museo Corones di Zaha Hadid e di Museion. C’è la vendita all’asta dei buoi a san Lorenzo e il trasporto del fieno su filo, sotto il Catinaccio – “che ormai non esiste più” racconta Seehauser, “perché quei campi non sono più coltivati”. Quando gli chiediamo quali sono i cambiamenti che negli anni ha visto scorrere sotto i suoi occhi, Seehauser invita a puntare il nostro sguardo sul turismo e la smania di nuove e più grandi costruzioni, che hanno sconvolto paesi e paesaggio. “Anche nelle valli che si dicono più tradizionali, come la Val Sarentino e la Val Passiria, si fatica a trovare un maso storico – si è preferito abbatterli per ricostruire edifici nuovi” constata Seehauser. Interessante contraddizione, in una terra che spesso ama identificare la tradizione con la cultura. E che vale anche per i monumenti naturali: “mi capita che solo quando vedono l’immagine del pino maestoso stampata nei miei libri le persone si rendono conto di quanto sia bello e prezioso – eppure lo hanno sotto gli occhi ogni giorno, nel prato di casa”.
In questo senso, non è un caso se il titolo scelto per la mostra, “Kein schöner Land” si riferisce ad un antico canto popolare tedesco che evoca armonia, natura e pace, a dispetto della prima impressione.
La mostra è visitabile da martedì a sabato, ore 10-12 e 16-18, Kunstforum Unterland, Portici 26, Egna. Ingresso libero, green pass obbligatorio. Fino al 18 dicembre.

Autrice: Caterina Longo

Un weird western per conoscere i pellerossa

Il termine tecnico per descriverlo è “weird western”, che in italiano di potrebbe tradurre con “Fantawestern”, un filone letterario che mescola western e fantasy, horror o fantascienza. Un genere che lo scrittore bolzanino Andrea Zanotti ha utilizzato per il suo ultimo libro, “Inno cannibale” (edizioni Dark Zone): quasi trecento pagine fresche di tipografia che sembrano destinate a diventare un cult fra gli appassionati del genere. Zanotti non è nuovo a questo tipo di scrittura: ha sfruttato le atmosfere western con “Voodoo”, e il fantasy – horror sembra quasi un filo conduttore che unisce le sue tante opere (“Dracophobia” in primis, giusto per fare un esempio).
Ma con “Inno cannibale” Andrea Zanotti compie un passo in più, e nel narrare una storia avvincente regala ai suoi lettori uno spaccato degli Stati Uniti in un periodo storico poco conosciuto, o comunque poco studiato da questa parte dell’Oceano: quello dopo la guerra di Secessione. L’autore snocciola nomi di personaggi che sono entrati nell’immaginario collettivo, da Toro Seduto al generale Custer, dal presidente Johnson a Geronimo, li fa interagire e ambienta dunque la trama del libro in una precisa dimensione spazio temporale, descrivendo in sottofondo i fatti storici realmente accaduti.
E la trama è pane per i denti degli appassionati del genere.
Black Mamba, donna-medicina a capo della tribù dei Senza-lingua, ha convocato il cerchio degli Elders, gli anziani capi di tutte le genti pellerossa. Nuovi alleati sono disposti ad aiutare le tribù contro i visi pallidi, è sufficiente unirle per innalzare l’inno cannibale, anche se l’intero ordine del creato verrà sconvolto dal rito, dato che Black Mamba vuole risveglierà Yužáža, “Colui che sgozza gli Dei”. Ma le grandi manovre dei selvaggi non passano inosservate al colonnello Souther, gerente della Clinica psichiatrica federale nr. 51. Sta a lui risolvere il problema dei “musi rossi”. Ma chi spedire in Sierra Nevada, nel covo della sciamana? La scelta cade su Marc Trementina De La Cruz, il suo compare Jo Occhiomoscio e il resto della loro improbabile banda di antieroi. Solo serpi di quella risma potranno resistere a ciò che li attende in quelle lande infestate: Wendigo, Skinwalker, Si-Te-Caha e tutte le leggende da incubo dei nativi, riportate in vita dalle malie di Black Mamba.

Autore: Luca Masiello

Il fascino del “Mostro della pioggia”

Ci sono la Cina e le Alpi, il sacro e il profano, le tradizioni contadine e le cattedrali gotiche e molto ancora nel “Mostro della pioggia” – The Monster Rain, l’esposizione di Lukas Zanotti ospitata presso la sala mostre di Vadena (fino al 18 novembre prossimo vedi info in fondo). La mostra ispirerà anche un “reading musicale” a cui daranno voce, suono e forma le attrici Flora Sarrubbo e Diletta La Rosa – ossia la Sakul Orkestra- in una suggestiva performance in programma per venerdì 12 novembre alle ore 19. Sempre venerdì, alle ore 10, l’artista bolzanino sarà presente a Vadena per un incontro sulla mostra e sul Kuka Museum di cui è fondatore ed attuale direttore (ingresso libero, prenotazione obbligatoria scrivendo a info@gemeinde.pfatten.bz.it).
Ci siamo fatti raccontare da Zanotti della mostra e del suo misterioso protagonista: “A Vadena propongo una serie di opere inedite sul mostro della pioggia. Fin dall’antichità, il drago è un animale favoloso: simile a un enorme rettile alato, vomita fuoco, è capace di paralizzare con il suo sguardo, ma è anche il signore della tempesta, del tuono e della pioggia. Soprattutto nella realtà contadina e rurale la pioggia ha sempre avuto un ruolo fondamentale – se è troppa o troppo poca crea comunque disastri. Questo ha fatto scaturire, anche a diverse latitudini, pratiche simili: in Cina quando manca la pioggia si fabbrica un gran dragone di carta o di legno che viene portato in processione; se la pioggia non arriva, il dragone viene maledetto e fatto a pezzi. Queste pratiche meteorologiche dell’Estremo Oriente somigliano a metodi simili in uso nell’Europa cristiana e tante sono le leggende alpine legate a queste creature come causa della pioggia. Tanti anche i toponimi legati alla definizione di ‘buchi dei draghi’, ‘gole del drago’, ecc.; esiste anche il ‘lago del drago’, chiamato anche ‘lago del parroco’ a Marienberg in Val Venosta. Spesso a capo delle grondaie dei tetti troviamo una testa di drago che apre le fauci facendo uscire l’acqua di scolo. Insomma, la pioggia è un drago nascosto tra le nuvole e non per nulla i contadini, ancora oggi, sparano alle nuvole per scongiurare la grandine!”.

Che forma prenderà “Il mostro della pioggia” a Vadena? “Le mie immagini riflettono le influenze delle diverse tradizioni, elementi della tradizione cristiana, ma anche aspetti pagani e della cultura orientale. In mostra ci saranno tanti lavori di piccolo e medio formato (circa A4 e A3) che, come tasselli di un mosaico, andranno a formare una grande figura antropomorfa.”
I lavori di Zanotti sono realizzati con la tecnica della xilografia, ovvero incisione sul legno e della linoleografia, tecnica di stampa da una matrice di lineoleum. Le figure che ne risultano hanno un carattere primitivo ed arcaico, espressionista, che li ricollega, ci racconta l’artista, anche alle antiche xilografie della tradizione tedesca.
Oltre alla mostra, è previsto un appuntamento “speciale”… “Sì, venerdì 12 novembre alle ore 19 ci sarà il momento ‘clou’. Il mostro della pioggia si esprime infatti non solo attraverso le immagini, ma anche in un mio poemetto, invocazione alla pioggia, a cui daranno voce Flora Sarrubbo e Diletta La Rosa. Non posso svelare troppo, ma posso anticipare che ci sarà l’acqua come elemento sonoro, in una performance che gioca con l’eco tra voci dal vivo e registrate.”
Un momento denso di suggestioni insomma, sotto il segno dell’incontro tra tradizioni e culture diverse, di quelle capaci di incantare come le storie di una volta.

Info: Lukas Zanotti, The Monster Rain, Sala mostre di Vadena
Fino al 18 novembre, da lun a sab ore 15-17.30 / dom 10-12
venerdì 12 novembre, ore 10 presentazione del progetto, ore 19 “reading musicale” a cui daranno voce, suono e forma le attrici Flora Sarrubbo e Diletta La Rosa – ossia la Sakul Orkestra.
Ingresso libero, su prenotazione info@gemeinde.pfatten.bz.it. Green pass obbligatorio.

Autrice: Caterina Longo

I frammenti di Giancarlo Lamonaca

“Frammenti. Mosche, lattine, guerra e vette immaginarie”: sono elementi piuttosto disparati quelli che compongono il titolo della personale di Giancarlo Lamonaca al Kunstforum di Egna (visibile fino al 6 novembre). 
Nato a Cortina nel 1973, Lamonaca ha studiato arte e pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna e all’HDK di Berlino e attualmente vive a Varna, presso cui ha il suo studio. Lamonaca si potrebbe definire un illusionista della visione: nelle sue opere, immagini purissime volteggiano, si sovrappongono, si specchiano una nell’altra, a volte sembrano sbriciolarsi in frammenti per ricomporsi in nuovi significati. 
Quando crediamo di aver colto, “letto” una forma e un significato, pochi centimetri dopo la nostra certezza è contraddetta. Una danza tra illusione e disillusione che può irritare o  da cui farsi trascinare, stando al “gioco dello sguardo”. Nella mostra a Egna l’artista presenta nove opere fotografiche inedite, spesso di grande formato, nate da immagini frammentate, tagliate in pezzi e ricomposte. Gli abbiamo chiesto di raccontercela.

Partiamo dal titolo della mostra: cosa hanno in comune le mosche, le lattine, la guerra e le vette immaginarie? 
Sono frammenti tratti dalla vita quotidiana, che, in maniera diversa, rispecchiano i contenuti del mio lavoro; i rifiuti, la guerra, le mosche (intese non come gli insetti a cui state pensando) e una parte di un ciclo che ho iniziato nel 2010 intitolato “Der Analog” (ital. “Il Monte Analogo”). Quest’ultimo è ispirato all’omonimo romanzo, non concluso, dello scrittore francese René Daumal, in cui un gruppo di esploratori decide di trovare e scalare il Monte Analogo, montagna la cui vetta è più alta di tutte quelle conosciute, per ritrovarsi in un mondo utopico. In questo senso, il mio è un lavoro sul tema della montagna come allegoria dell’ascesa, in cui il viaggio è la vera meta. 

Nel comunicato della mostra è scritto “c’è sempre un po’ di follia nel voler superare i limiti del fotografabile”. I limiti di ciò che possiamo fotografare sono anche i limiti di ciò che possiamo vedere?
Intendo un andare oltre; la realtà è il punto di partenza per spingere al massimo, quindi al limite, le possibilità del mezzo fotografico e dell’elaborazione. La sovrapposizione di tante immagini insieme crea una densità di materiale altissima e sposta chi guarda dalla realtà in una dimensione effimera.

È una ricerca che riguarda solo la sfera del visibile e della percezione? 
Non solo: mi piace dissimulare, nascondere i fatti, ma poi dare appigli nel titolo Ad esempio, dietro l’opera intitolata “Oppela” si cela l”immagine della città di Aleppo distrutta dalla guerra. Le mosche di cui parlo non sono vere mosche, ma quelle usate per la pesca. Come dicevo, mi piace “addensare” il contenuto delle immagini fino a renderlo quasi un’altra cosa. E’ un po’ come succede nella vita quotidiana: siamo talmente esposti alle immagini e alle informazioni, che nella densità si distorcono. I miei lavori ricalcano questo, sono così sovraccarichi da astrarre la tematica – qualsiasi essa sia, dalla montagna alla guerra, e renderla lontana e invisibile, estetica.

Parliamo della tecnica: quindi lavori molto con l’elaborazione digitale?
In realtà non modifico la foto in sé, non la filtro. E’ il lavoro di sovrapposizione che porta al risultato finale. Quando  ho un’idea in mente ci lavoro, lascio che maturi, finché non scatta l'”Aha-Erlebnis”, l’illuminazione, la sensazione di essere arrivato al punto giusto. Ma non tutti i lavori portano a una conclusione: in una fotografia cerchiamo una certezza visiva, che poi però non sempre “funziona” come pensiamo e a volte svanisce.

Giancarlo Lamonaca, Fragmente. Mosche, lattine, guerra e vette immaginarie.
Egna, Kunstforum Unterland. Da martedì a sabato, 10-12 e 16-18. Fino al 6 novembre 2021. 
Ingresso libero.

Autrice: Caterina Longo

Oltre la pittura, lezioni di sguardo

È un dialogo sul filo della luce e del colore e molto di più “PitturaxPittura”, la mostra inaugurata sabato 25 settembre scorso all’associazione lasecondaluna di Laives. L’esposizione mette in relazione l’opera degli artisti Federico Casati (Milano, 1968) e Rolando Tessadri (Mezzolombardo, 1968), che da sempre si confrontano con la pittura. Ma definirla una mostra di pittura sarebbe riduttivo. Perché la pittura è solo un punto di partenza, che, se stiamo al gioco e aguzziamo la vista, può prendere altre strade -moltiplicarsi, come suggerito dal segno “x” nel titolo- e arrivare a far vacillare ciò che crediamo di vedere, e quindi di conoscere.

Le opere di Casati e Tessadri nascono da un processo che inizia con una accurata preparazione e una grande padronanza di mezzi tecnici e pittorici e termina, o meglio ricomincia, nell’occhio di chi guarda. Sono opere sottili, che esaltano la riduzione e la sottrazione senza essere mai finite, né chiuse, perché mutano col tempo, con il meteo e con il cambiare della luce. Ma soprattutto con il nostro punto di vista.

Federico Casati presenta diversi lavori realizzati negli ultimi due anni  fino a oggi. L’artista crea tavole su cui applica degli elementi in ottone, cerchi di diverse dimensioni che fuoriescono dalla superficie del dipinto e allo stesso tempo ne fanno parte, perché colorati in tonalità simili allo sfondo. Questo rende difficile riconoscere, leggere chiaramente il quadro. Ne abbiamo parlato con l’artista.

Qual è il meccanismo dietro alle sue opere, come “funzionano”?
Le mie opere cercano di disorientare l’occhio di chi guarda: sul dipinto si vedono delle ombre, ma in un primo momento è difficile capire da cosa siano generate, si può pensare che siano dipinte. Ma poi, cambiando il punto di vista, e la luce, cambiano anche le ombre… insomma l’opera non ha mai una forma definitiva ed è difficile cogliere come sia nella realtà. 

Una questione di visione?
Si, ma non solo. Questa mutevolezza per me esprime il labile confine tra realtà e apparenza, metafora del mondo intorno noi, in cui siamo immersi. E non mi riferisco solo al piano estetico e della percezione, ma anche al piano delle relazioni con gli altri, alla difficoltà di conoscere il vero volto, la realtà di un fenomeno o di un rapporto. Conoscere cosa si cela dietro ciò che appare ai nostri occhi è aspirazione impossibile, quanto ammaliante: il tema è ampio, da brevi cenni sull’universo, noi qui ci permettiamo di volare meno alto parafrasando una frase scritta da Stephen King nel celebre romanzo ‘It’: “vedere la forma autentica della cose vuol dire conoscerne il segreto”.

Federico Casati e Rolando Tessadri

Rolando Tessadri crea invece dei monocromi (cioè tele di un solo colore o tonalità) – spesso di grandi dimensioni, come quelli esposti alla secondaluna: due dipinti inediti del 2020/21, che superano i tre metri. L’artista lavora con la tecnica del frottage, intervenendo con una spatola sul colore appena steso. Una modalità che si pone a metà strada tra pittura e grafica – in uno stretto intreccio tra tela e pigmento. 

Una ricerca intensa, prolungata e silenziosa, che porta alla creazione di lievissimi passaggi cromatici, una “sfida” che non tollera sguardi superficiali, ma esige uno sforzo in più. “Il rapporto con lo sguardo non può che essere complesso” – ha detto l’artista. Le sue opere hanno subito un’evoluzione “rispetto al periodo precedente, in cui mi sono concentrato sui bianchi e grigi, sui ‘non colori’, che esigevano una visione frontale e di superficie, legata a una certa temperie minimalista, negli ultimi due anni è emerso il bisogno di una pittura più comunicativa, sono passato ai colori più chiari. E ho sentito l’esigenza di dare dei titoli”, racconta Tessadri. Uno sviluppo e una apertura avvenuti, per assurdo, durante i mesi di chiusura e di lockdown, in cui Tessadri ha trascorso molto tempo nel suo studio a Salorno. Quanto ai titoli delle opere, essi sembrano attribuire caratteri ai colori, e agli stessi dipinti. Leggiamo ‘Pensiero interrotto’, ma anche ‘Ipocrita’ e ‘Ospite sospetto’: ognuno è libero di cercarlo fuori o dentro di sé.

PitturaxPittura 
a cura di Stefania Rossi
lasecondaluna, sala Espositiva, via Pietralba 9, Laives. 
Ingresso gratuito, Green Pass obbligatorio. Fino al 16 ottobre, giorno in cui si svolge un artist talk alle ore 18.30 (incontro gratuito ma prenotazione obbligatoria scrivendo a info@lasecondaluna.eu).

Autrice: Caterina Longo

Artiste in dialogo a “Le Carceri”

Caldaro Le Carceri, galleria d’arte ospitata nei suggestivi spazi dell’antico carcere della prefettura di Caldaro, presenta, fino al 02.10 prossimo, “REPEAT”, una doppia mostra dell’artista altoatesina AliPaloma e di Anna M. Rose, artista statunitense che lavora in Italia.
L’attenzione al corpo femminile e il richiamo agli oggetti familiari sono elementi che accomunano la ricerca delle due artiste.
Nella mostra a Caldaro, le AliPaloma e Anna M. Rose presentano installazioni create appositamente per l’occasione, che si confrontano con il concetto di nutrizione, di lavoro e di culto del corpo. Lavori, questi, che si ispirano agli spazi della ex prigione – la presenza “fisica”, architettonica del patrimonio carcerario rimane infatti sempre presente ai visitatori. Questo approccio si rispecchia anche nell’uso minimo dei materiali che compongono le installazioni: acqua, pane, cera, sapone, sale e alcool infatti, sono gli elementi utilizzati nei vari stati di aggregazione.
La mostra “REPEAT” è parte del concetto espositivo della galleria “Le Carceri”, che invita un/una artista dell’Alto Adige ad allestire una mostra insieme ad un/una partner. La particolarità di questo concetto sta nel dialogo che nasce tra gli artisti, che rappresenta anche il motto della galleria Gefängnis – Le Carceri: 1+1=1 DUE artisti UNA esposizione.
Le celle che fungono da vani espositivi “obbligano” la coppia degli artisti ad una collaborazione particolare. Un percorso che si è dimostrato convincente – da questa idea sono nate infatti mostre particolari e stimolanti.
AliPaloma & Anna M. Rose, REPEAT, Le Carceri Caldaro, Pater Bühel, ingresso gratuito. Per info e orari www.gefaengnislecarcerigalerie.it o tel. 333 2874345.
Fino al 2 ottobre 2021.

Le fughe surrealiste di Alex Dellantonio

“Il surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone in quell’armadio in cui si voleva prendere una camicia” – così spiegava la celebre artista Frida Kahlo l’essenza del surrealismo, uno dei movimenti artistici e letterari più vivaci del novecento. Nella mostra dell’artista Alexander Dellantonio, che inaugura sabato otto settembre al Kunstforum Unterland di Egna (visibile fino al 18.9), non troveremo bestie feroci, ma sicuramente molte magiche sorprese. “Surrealist Escapades”, vie di fuga surrealiste, è il titolo dell’esposizione, che presenta cento collage in bianco e nero, di cui molti inediti, realizzati dall’artista negli ultimi tre anni. Bolzanino di nascita, classe 1986, dopo il liceo artistico Dellantonio ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze e ha vissuto a Berlino, esponendo le sue opere in mostre personali e collettive in Germania, Norvegia e Italia. Quest’anno ha fatto ritorno in Alto Adige. “Portare alla luce l’anarchia dei sentimenti e dei sogni, sulla linea sottile tra desiderio e realtà, regolata attraverso l’arte dell’assemblaggio.”- questa l’idea che Dellantonio ha del surrealismo. La sua ricerca è originale e insolita perchè punta l’attenzione sul surrealismo cèco, che solo recentemente si sta guadagnando considerazione nelle università americane e in Germania.
Con passione e spirito da archeologo Dellantonio ha scavato nelle profondità delle opere di artisti e artiste come Toyen, Jindrich Styrski e Karel Teige, riportandone a galla visioni, tecniche e soprattutto quelle sottili strategie di fuga dalla realtà tipiche di tanta arte e lettura cèca. In questo senso, le opere di Dellantonio emanano un’eleganza dal fascino storico e sono capaci di ammaliare e inquietare. Ne abbiamo parlato con lui, inziando dal ritorno a Bolzano.

Come è stato il ritorno in Alto Adige dopo gli anni a Berlino?
Berlino è sexy ma povera! Dopo tanti anni, mi mancavano le montagne e il sole dell’Alto Adige. E per assurdo credo di trovare qui maggiori possibilità di proporre il mio lavoro artistico.

Come nascono le “vie di fuga surrealiste” che danno il titolo alla mostra “Surrealist Escapades”?
Il mio lavoro ha spesso avuto una connotazione politica e impegnata. Le opere nella mostra a Egna guardano agli artisti dell’avanguardia ceca, che sono stati isolati e perseguitati o perché considerati troppo avanguardisti o perché troppo borghesi, a seconda di chi li criticava (il protettorato nazionalsocialista di Boemia e Moravia prima e l’apparato stalinista della Repubblica Ceca poi). Gli artisti trovarono una via di fuga da questa realtà rifugiandosi verso qualcosa di diverso, l’arte surrealista.

Alex Dellantonio

Perché hai scelto di orientarti agli artisti del surrealismo ceco?
Ho scoperto i surrealisti cechi grazie a un libro trovato per caso al mercatino dell’usato sulle passeggiate del Talvera, una quindicina di anni fa, il “Mercato dell’arte” di Karel Teige. Mi sono appassionato alla figura di questo artista praghese, al suo credere nell’arte e perseguire la sua strada nonostante le difficoltà: mi piace l’immagine evocata dalla Devestil, il gruppo ceco di artisti a cui aderiva. La parola Devestil indica il farfaraccio, una pianta non particolarmente bella, ma tra le prime a fiorire in primavera con un fiore incantevole. Teige è anche autore del manifesto del “poetismo”, un movimento artistico che, negli anni ’20 del novecento, voleva trasformare l’arte in divertimento fantastico, inneggiando alla gioia di vivere dopo gli orrori della prima guerra mondiale. Nonostante l’isolamento da parte del Partito Comunista, fino alla sua morte, nel 1951, egli creò oltre 400 collage fotografici surrealisti, a cui mi sono ispirato per la mia serie.

Cosa deve aspettarsi il pubblico dalla mostra?
Senza svelare troppo, credo che chiunque potrà trovare qualcosa che incontra il suo gusto, sicuramente c’è un’attenzione al corpo e al bello comunemente inteso, ma anche aspetti nuovi e magari non molto visti in Alto Adige, che potranno sorprendere.
Hai scelto di lavorare con una tecnica tradizionale come il collage e la carta oggi, nel 2021… come mai questa scelta? Qual è la tua posizione rispetto al digitale?
Ho sempre amato la carta come materiale: mi piace la dimensione analogica, le persone, le sensazioni tattili. Per anni ho lavorato anche con il decollage strappando manifesti dai muri a metri! La carta è un materiale semplice, facile da utilizzare, da tagliare. Per certi versi, è come se il taglierino fosse il mio “pennello”… è come disegnare delle geometrie.

“Surrealist Escapades” è al Kunstforum Unterland di Egna
dal 7 al 18 settembre. Ingresso libero e gratuito.

Autrice: Caterina Longo