Revisione scaduta

Un vecchio detto sostiene, giustamente, che la talpa della storia continua a scavare per poi riemergere quando vuole lei. è un modo per dire che il tempo passa, non c’è nulla di immutabile. Anche se ci sembra che le cose rimangano tali, in realtà il cambiamento è sempre dentro di noi e intorno a noi. E prima o poi ci troviamo a doverci fare i conti. Più rimandiamo e peggio è.
è una prospettiva che vale anche per la nostra autonomia, un sistema normativo faticosamente conseguito 52 anni fa, dopo un percorso durato decenni per sanare una serie di problematiche manifestatesi nella prima parte del secolo scorso e culminate con gli anni tragici della seconda guerra mondiale. Da allora lo statuto di autonomia è rimasto tale, a parte una serie di correttivi giunti più a regolamentare più che a modificare le regole del gioco, nonostante il fatto che negli ultimi 15 anni ci si sia posti a più riprese la questione di una necessaria revisione, legata alle grandi trasformazioni sociali e politiche sopraggiunte.
I primi tentativi di operare dei cambiamenti significativi nello statuto si sono incagliati, com’è noto. I delicati equilibri e le motivazioni legate al consenso dei partiti, sempre più difficile conquistare e conservare, hanno spinto a prendere tempo. Ma – a giudicare dalle cronache – tale revisione del quadro normativo è tornata nei giorni scorsi a manifestare la sua grande urgenza.
I cambiamenti demografici, il mercato del lavoro in sofferenza, l’inesistenza di un’efficace politica per la casa, il sovraffollamento turistico, impongono ora come mai l’individuazione di un nuovo paradigma. E le contraddizioni emerse nelle ultime settimane riguardanti i più giovani, la loro formazione, e più in generale il loro futuro indicano un’urgenza rispetto alla quale non possiamo più tergiversare. I temi dello ius scholae per i ragazzi con background straniero ma nati in Italia, la proposta di “classi speciali” nelle scuole pubbliche composte da soli “stranieri”, l’abbandono scolastico record a livello nazionale, i costi spropositati a cui sono sottoposte le famiglie degli studenti universitari a Bolzano, e – non ultima – la fuga dei giovani più in gamba non più in grado di costruirsi il destino in Alto Adige, impongono a mio avviso la convocazione di una sorta di “stati generali” del… nostro futuro, che coinvolgano tutte le articolazioni del nostro finora tanto decantato modello altoatesino. La talpa sta già scavando da un bel pezzo…

Autore: Luca Sticcotti

Tra paesaggio e mitologia

Paesaggi marini, orizzonti liberi e sconfinati e paesaggi di montagna, così come confini del nostro presente e confini mitologici sono alcuni dei temi delle opere di Karin Schmuck. Il suo approccio artistico prevede di studiare per lunghi periodi un luogo e la possibilità di conoscerlo da vicino attraverso il cammino, attraverso una conoscenza e una esperienza fisica. I suoi sono spesso paesaggi che scaturiscono da aree di transizione umane e metafisiche. Nell’idea di confine a Karin interessa la scomposizione della parola e l’ispirazione trae dal frammento “fine” e poi da “con”, ossia una separazione ma al tempo stesso una condivisione un insieme. La dicotomia e l’ambiguità sono elementi ricorrenti nel lavoro di Schmuck e ben si adatta al mezzo fotografico.

L’artista è interessata alla natura incontaminata, ai “non” luoghi a cui spesso viene data poca importanza.

Una particolare attitudine dell’artista è quella di esplorare i miti dei luoghi che visita muovendosi così fra il dato naturalistico e quello leggendario. In questi giorni le sue fotografie ma anche i suoi dipinti e oggetti d’arte sono esposti nella mostra personale intitolata INFINITY ospite della piattaforma per artisti Carte Blanche dell’Hotel Europa. Karin Schmuck è nata a Bolzano nel 1981 a Bolzano e vive e lavora a Siusi, in Alto Adige. Prima del Master in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna, aveva studiato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Dal 2009 ha esposto le sue opere in diverse mostre personali e collettive e ha vinto diversi premi come il premio COMBAT e il PREMIO CARLO GAJANI. 

Autrice: Rosanna Pruccoli

L’articolo 19, il mondo che non c’è e la lingua che rende liberi


Il sistema scolastico di un Paese democratico è specchio della realtà, espressione di storia, cultura e tradizione. D’altro lato è il luogo dove si seminano parole, valori e visioni che domani – ma in parte già oggi – producono i cambiamenti necessari in una società dinamica, attenta ai bisogni e ai sogni delle persone.

Da quando, alla fine del ‘700, nel Tirolo fu introdotto l’obbligo scolastico, nei territori dell’Austria multietnica si pose il tema della lingua d’insegnamento. Soprattutto nelle zone di confine sorsero conflitti che portarono, nel secolo successivo, allo sviluppo dei nazionalismi. Il fascismo agì, come sappiamo, nell’alveo di quel paradigma politico-culturale. Solo per dire che scuola e nazionalismi/etnocentrismi hanno qualche conto in sospeso.

L’accordo di Parigi del 1946 (art. 1) prevede per i “cittadini di lingua tedesca”, “l’insegnamento primario e secondario nella loro lingua materna”. La Costituzione repubblicana dichiara (art. 6) di voler tutelare “con apposite norme le minoranze linguistiche”. Lo Statuto di autonomia recita all’art. 19: “Nella provincia di Bolzano l’insegnamento nelle scuole materne, elementari e secondarie è impartito nella lingua materna italiana o tedesca degli alunni da docenti per i quali tale lingua sia ugualmente quella materna”. L’articolo 19 è molto chiaro, ma parla di un mondo che non c’è. Già nel 1972 si dava il caso di alunni figli di famiglie miste. Oggi sono molti di più. Nel 2024 (e da decenni) le nostre scuole sono frequentate da bambini, bambine e giovani la cui lingua materna non è il tedesco né l’italiano (prescindiamo qui dalla questione ladina). L’articolo 19 nella sua formulazione non è dunque applicabile se non mettendo alla porta gli alunni di altra madrelingua. Il che, purtroppo, non è “fantascuola”.

Come mai dopo decenni, con tutta l’esperienza disponibile, l’Alto Adige non ha ancora sviluppato un sistema capace di rafforzare i ragazzi nella propria lingua e di dare loro una conoscenza effettiva della seconda lingua? È come se una certa politica avesse paura di un bilinguismo effettivo, perché la lingua rende liberi e abilita alla partecipazione. “È solo la lingua che ci fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui” (don Lorenzo Milani).

L’Alto Adige (con l’Eurac, l’Università e altre istituzioni) ha tutti i numeri e dunque il dovere di elaborare sistemi e metodi che diano ai futuri cittadini un plurilinguismo effettivo da spendere in provincia, in Europa e nel mondo. A tutti, senza anacronistiche riserve e pericolose discriminazioni.

Autore: Paolo Bill Valente

La strada dedicata a Toni Ebner


In zona produttiva nel quartere di Oltrisarco a collegare via Bruno Buozzi a via Luigi Galvani vi è la strada dedicata a Toni Ebner, politico, editore, giornalista. Nato il 22 dicembre 1918 ad Aldino, frequentò il Ginnasio Liceo del Seminario arcivescovile di Tirolo. Conseguita la maturità nell’estate 1938, il 29 novembre si immatricolò all’Università di Bologna, facoltà di Giurisprudenza; morto il padre il 9 giugno 1940, dovette recarsi  spesso a casa per gestire il maso dei genitori. Tra studi e gestione del maso, lavorò anche nello studio legale bolzanino Pichler/Silbernagl; laureatosi  il 30 marzo 1943, in  tale studio lavorò fino alla chiamata al servizio militare, che svolse come interprete nel IV Corpo d’Armata. Il 10 aprile 1944 si sposò con Martha Flies, nipote del canonico Michael Gamper; ebbero quattro figli, uno dei quali, Michael, più noto come Michl, seguì le orme del padre. Terminata la guerra, Toni Ebner aprì ad Egna uno studio legale, ma si dedicò anche alla politica: l’8 maggio 1945 fu uno dei cofondatori della Südtiroler Volkspartei; ne fu il primo segretario;  nei bienni 1951/1952 e 1956/1957 fu presidente. Dal 1961 al 1964 fu consigliere comunale a Bolzano. Importante incarico fu quello affidatogli dal canonico Gamper, direttore dell’editrice “Athesia”, di gestirne l’amministrazione; della casa editrice Toni Ebner  divenne direttore il 1° aprile 1951. Morto il canonico Gamper nell’aprile 1956, Toni Ebner fu chiamato a dirigere il quotidiano “Dolomiten”. Fu eletto (SVP) alla Camera dei deputati nel 1948, 1953, 1958. Fu attivo anche nel campo giuridico; nel 1977 fu chiamato a Roma come giudice aggregato della Corte Costituzionale; dal 2 ottobre 1981 fece parte del Consiglio di Stato. Non mancarono i riconoscimenti pubblici. La mole di lavoro editoriale e giornalistico, svolto con grande zelo, non mancò di influire sulla sua salute. Eletto presidente dell’Athesia nell’ottobre 1981, tra il 12 e il 13 dicembre fu ricoverato all’ospedale di  Bolzano, dove morì il 13 dicembre.

Autore: Leone Sticcotti

La curiosa storia della parrocchia di Malles


Se siete degli amanti dello stile liberty e del “curioso” nell’arte è Malles la vostra meta. Nel 1903 i fedeli della parrocchiale di Malles ebbero l’occasione di scoprire la propria chiesa in una nuova “luminosità”:  quella cioè data dalle luce elettrica. Il 17 dicembre infatti i più ansiosi si recarono alla prima funzione, quella delle cinque del mattino, per essere i primi a godere di quella visione. Ma le novità di carattere tecnologico sembravano non finire, nel luglio del 1906, infatti fu inaugurato l’ultimo troncone della tratta ferroviaria Merano – Malles. Ora il paese era raggiungibile con un viaggio comodo e relativamente breve. Forse una parte del turismo che affollava la vicina Merano avrebbe potuto raggiungere anche l’alta Val Venosta e arricchire la parrocchiale di nuovi e raffinati affreschi non poteva essere che ben fatto. 

Così nel 1914 il decano Dietl chiamò a Malles il pittore Emanuel Raffainer di Schwaz e insieme pianificarono l’intera dipintura dell’abside e della navata. L’artista, allora trentatreenne, eseguì il progetto pittorico e uno schizzo e, ottenuta l’approvazione del decano, iniziò a dipingere. Poco tempo prima dello scoppio del primo conflitto mondiale il pittore, che aveva iniziato i lavori partendo dalla zona absidale, si trovava a dipingere l’Incoronazione di Maria. Gli echi, edulcorati dalla propaganda, dei vari successi al fronte, i fatti riportati nei bollettini di guerra e gli avvenimenti nella zona serba, rimbalzavano anche fra le viuzze del piccolo agglomerato venostano e ispirarono l’artista al punto che volle fissarne alcuni frammenti sulla parete di quel luogo sacro, anzi proprio nella rappresentazione stessa dell’Incoronazione. 

Sulla volta l’artista ha organizzato lo spazio pittorico in modo da riuscire a far convivere soggetti diversi. Un nuvolone suddivide il mondo terreno da quello ultraterreno ed in entrambe gli spazi, gremiti di personaggi, si articolano i diversi racconti. Solo a noi è dato di partecipare con lo sguardo agli accadimenti di entrambe le realtà, mentre i diretti interessati sembrano ignari gli uni degli altri. La Santissima Trinità sta per porre sul capo di Maria una corona di gusto bizantineggiante. Assistono Gioacchino e Anna, San Giovanni Battista, Santa Barbara e Santa Caterina, da un lato, Giuseppe e Giovanni Evangelista dall’altro.

Nel mondo terreno, intanto, le scene, apparentemente slegate fra loro, si accalcano una accanto all’altra ma forse si tratta delle diverse sfaccettature di un unico incubo premonitore: la guerra, che semina fame, morte e distruzione, lascia donne e bambini privi di sostegno mentre i padri sono al fronte, mette gli uni contro gli altri. Sullo sfondo, un paese va in fiamme, mentre sul lato destro, in primo piano, un uomo giace sul letto di morte: sono i suoi ultimi istanti di vita, la morte è al suo capezzale e con la clessidra in mano lo attende. Al centro, la figura in piedi sembra creare una tred’union tra quei due mondi, si tratta infatti di Bernardo di Chiaravalle, colui che nel Medioevo determinò la devozione per la Madonna. 

COME ARRIVARCI

Malles si raggiunge percorrendo prima la MeBo in direzione Merano poi imboccando e percorrendo quasi per intero la val Venosta. La parrocchiale di Santa Maria Assunta si trova in paese in via dell’Ospedale 2.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Una vita da filologo romanzo


Il professor Mattia Cavagna, bolzanino, ma anche parigino e bruxellois, racconta come ha scoperto la filologia romanza, di come ne abbia fatto la sua professione e di come la sua vita si evolva all’insegna della ricerca e della scoperta. Di luoghi, di persone e di nuovi punti di vista.

Da dove nasce la tua passione per la filologia romanza?

Quando mi sono iscritto a lettere non avevo mai sentito il termine “filologia”, poi ho incontrato un professore con un approccio interessante: riusciva ad attualizzare delle problematiche di questa disciplina. Per me la storia di ognuno di noi è una storia d’incontri e con questo professore c’è stato un colpo di fulmine. La filologia è affascinante perché ti permette di analizzare manoscritti mai letti e di scoprire nuove cose; ti insegna inoltre ad attualizzare i problemi, ad esempio, riconoscere le fake news è filologia: è la distinzione tra la copia d’autore e quella del copista, cambia la terminologia, ma le problematiche restano le stesse.

Hai sempre avuto l’obiettivo di insegnare all’università?

Questa volontà è maturata molto presto, quando ho capito che la filologia romanza è una materia grezza in cui c’è moltissimo da scoprire ho compreso che era davvero quello che volevo fare. È stato interessante: mi sono appassionato all’antico francese — la tappa intermedia tra latino e francese moderno, tappa che manca all’italiano e spagnolo — e ho imparato prima quello del francese moderno.

Quanto è stato importante l’Erasmus nella tua carriera?

Importantissimo. L’Erasmus non è un viaggio, è un’esperienza in un’altra realtà che ti forma da moltissimi punti di vista. Lo dico sempre ai miei studenti: l’Erasmus è incontournable (non ci puoi girare attorno). Dopo l’Erasmus sono tornato in Italia a laurearmi, per poi ritornare subito a Parigi dove ho lavorato al Louvre, ho conseguito il Diplôme d’études approfondies, tappa intermedia tra la tesi di laurea e il dottorato che ho vinto a Bologna in cotutela con Parigi. Non sono più tornato in Italia per la differenza dello statuto dei dottorandi, ai miei tempi più considerati in Francia; ora insegno a Bruxelles all’Université catholique de Louvain e lì sono rimasto.

Hai mai pensato di tornare in Italia?

Non mi sono mai sentito esiliato: Bolzano è casa mia come lo sono Parigi e Bruxelles. Sono sempre in Italia. L’Universitas esiste: l’Erasmus c’è anche per gli insegnanti, vengo a insegnare almeno due volte a semestre in Italia, come, spesso, vado anche all’estero; sono stato in Brasile, in Vietnam e prossimamente andrò a Shanghai.

Qual è l’esperienza extraeuropea che ti è dato di più?

Quando esci dall’Europa sei obbligato a varcare i confini della tua ricerca, nel mio caso la filologia romanza stricto sensu, e devi adattarti al pubblico e alle sue istanze: sono nuove esperienze culturali e umane, ma anche scientifiche, ti lanciano nuove sfide con cui anche i tuoi corsi vengono arricchiti. In Brasile ad esempio ho incontrato persone meravigliose che leggono Cicerone attraverso Valla e Bruni e si interrogano sul ruolo dell’umanismo civico nel Rinascimento. Sono rimasto a bocca aperta. Lì ho incontrato persone di una grande umanità ed erudizione, gli studenti capiscono il valore profondo dei libri e dell’approfondire il più possibile.

Autrice: Anna Michelazzi

ll 9 luglio ci ha lasciati Pierluigi Mattiuzzi

Meranese assai noto negli ambienti legati all’arte, alla psicanalisi, alla filosofia orientale, è stato un interessante esempio di personalità istrionica dove l’arte era molto più che immagine, colore, forma. In lui l’arte era specchio di un’anima inquieta, curiosa e libera, capace di introspezione, e terreno nel quale avevano germinato le culture orientali che, studiate a fondo e metabolizzate, in lui convivevano con tanto della saggezza occidentale. I suoi dipinti sono un difficile intrico di pensiero, fantasia, volo,  presenze, rimandi, narrazioni antiche e bisogni moderni.

Tenuto sempre in considerazione dai meranesi, nel 2015 fu scelto per la mostra dedicata ad un artista nell’ambito del trentennale delle Settimane Musicali Meranesi che trovò luogo nel Pavillon des Fleurs.

Pierluigi Mattiuzzi,  figlio di un perito industriale che si era occupato delle centrali idroelettriche in Piemonte e poi in Val Venosta era nato a Domodossola e aveva trascorso l’infanzia a Malles. A Merano aveva frequentato il liceo classico Carducci, in quegli anni una vera fucina di idee e di presa di coscienza politica e dei tempi che cambiavano oltre che delle tensioni legate al 68. Aveva poi frequentato Sociologia a Trento, noto epicentro della rivolta studentesca e delle istanze politiche più rivoluzionarie. A Merano sul “muretto” lo si vedeva spesso e la politica era il tema principale. Seguirono i nove anni in India che lo arricchirono di nuove istanze filosofiche aggiungendo alla sua già ricca personalità il fascino dello sciamanesimo.

Tutti questi trascorsi, queste esperienze, questi miti letterari e non si riverberano nelle sue tele e nei suoi colori. Importantissimi i suoi totem. Divinità, demoni, si tratta di sculture di grandi dimensioni capaci di mantenere l’effetto bidimensionale e di avere un grande impatto sul fruitore, grandi più di un uomo esse si impongono con forza nell’ambiente che le accolgono. Acrilici e resine su tavole di grandi dimensioni, affollati di segni da vedere in dettaglio per scoprire alla fine che allontanandosi il dipinto muta e il soggetto prodotto da quella moltitudine di piccolissime forme danno vita ad un importante unico essere dai caratteri apotropaici. Grandi occhi sgranati, fauci ferine, bocche digrignate e denti aguzzi. Mani e piedi si distaccano e prendono vita per qualche istante prima di ricadere nell’insieme. Sogni o incubi? Viaggi fantastici nel proprio io o negli abissi dell’umanità.

Sono sperimentazioni degli anni Ottanta i computer-graffiti che mettono in movimento le presenze dei suoi quadri al ritmo di un track musicale da lui scelto. Una ulteriore testimonianza del suo modo di vivere sempre “il qui e adesso”.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La strada dedicata a Bruno Buozzi


L’arteria che da via Volta arriva fino a via  Altmann è dedicata a Bruno Buozzi. Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1882, trovò lavoro a Milano, alla Marelli, poi alla Bianchi. Non trascurava lo studio, leggendo di tutto, anche dopo le 10-12 ore di lavoro. Nel 1905 si iscrisse alla Fiom e aderì al Psi; del sindacato divenne presto membro del direttivo, nel partito si impegnò nella corrente riformista di Filippo Turati. Respingendo la violenza come mezzo di lotta politica, abbracciò l’ideale della gradualità delle conquiste sindacali. Eletto nel 1920 alla Camera per il Psi, rieletto nel  1921, seguì Matteotti e Turati nel nuovo Partito Socialista Unitario, nelle cui liste fu rieletto deputato nel 1924. Nel dicembre 1925, pur essendo perseguitato dal regime, divenne segretario generale della CgdL. Dovette però rifugiarsi in Francia, dove si prese cura dell’anziano leader socialista, Filippo Turati, il quale morì il 29 marzo 1932 proprio nella casa parigina di Buozzi. Arrestato dai tedeschi il 1° marzo 1941, Buozzi fu trasferito, con il collega sindacalista Giuseppe di Vittorio, prima in Germania poi in Italia. Fu confinato per due anni a Montefalco (Perugia). Liberato il 30 luglio 1943, formatosi il governo Badoglio, Buozzi fu nominato commissario dell’Organizzazione dei lavoratori dell’industria. Il 10 settembre 1943 fu con Sandro Pertini a Porta San Paolo, per contrastare l’ingresso dei tedeschi a Roma. Ma Roma fu occupata, e Buozzi rientrò in clandestinità, sotto il falso nome di Mario Alberti. Sorpreso dalla polizia fascista e fermato per accertamenti il 13 aprile 1944, nella prigione di via Tasso fu scoperta la sua vera identità. Il suo nome fu incluso dalle SS in un elenco di 160 prigionieri da evacuare; l’autocarro con Buozzi si fermò all’alba del 4 giugno presso la località “La Storta”. Rinchiusi in una rimessa, nel pomeriggio Buozzi e altri tredici furono brutalmente sospinti in una vicina valletta per essere uccisi ciascuno con un colpo alla nuca.

Autore: Leone Sticcotti

La ferrovia tedesca in Val di Fiemme


Si iniziò a discutere di collegamento ferroviario tra la valle dell’Adige e Cavalese a metà ‘800. La nuova linea del Brennero, completata nel 1867, aveva rivoluzionato il sistema dei trasporti basato su navigazione fluviale e carrozze e carri trainati da cavalli. Il Fleimstal tirolese era importante non solo da un punto di vista turistico ma soprattutto per la grande quantità di legname che forniva all’economia asburgica. Era perciò impensabile rinunciare alle potenzialità offerte dal nuovo cavallo di ferro che in pochi anni aveva conquistato non solo le sconfinate praterie americane ma anche le città e anguste vallate alpine dell’impero austro-ungarico.

Benché nessuno mettesse in dubbio la rilevanza strategica dell’opera, né Vienna né Innsbruck riuscirono ad approvare uno dei vari progetti elaborati a Trento e a Bolzano. Il Landtag tirolese, in cui sedevano anche i deputati trentini, e i giornali diventarono la sede principale delle aspre polemiche che costarono il posto a più di un avventato amministratore. Passarono i decenni senza che si riuscisse a sciogliere il nodo principale della questione ovvero se la ferrovia dovesse diventare “tedesca” o “italiana”. 

In altre parole: Trento, capoluogo del Welschtirol e centro del nascente irredentismo italiano, pretendeva una linea che partisse da Trento e poi da Lavis risalisse la Val di Cembra per arrivare a Predazzo, con ciò rimarcando l’italianità della Val di Fiemme “trentina”. Bolzano chiedeva invece una linea Egna – Predazzo (o Moena) che servisse anche i paesi tra il fondovalle e il Passo di S. Lugano. Fiemme e Fassa dovevano rimanere “tirolesi” e perciò il collegamento ferroviario era di primaria importanza. In mezzo ai due contendenti i diretti interessati, ossia i comuni della Val di Fiemme, che chiedevano un’esecuzione rapida dell’opera e il contenimento dei costi di realizzazione a cui dovevano partecipare.

Il 13 gennaio 1912 la “Tiroler Landzeitung” scrisse: “I Welschtiroler (Trentini) minacciano l’ostruzionismo a causa della questione della ferrovia della Val di Fiemme. Pretendono la realizzazione di una linea doppia ossia di una linea con due punti di partenza: Trento e Egna. Vienna tuttavia in un recente consiglio dei ministri ha negato il sostegno a questa assurda richiesta.”

In realtà, dopo molti anni di inutili discussioni, Vienna aveva iniziato a “simpatizzare” apertamente per la doppia linea che scontentava soprattutto i comuni della Val di Fiemme, preoccupati dall’inevitabile esplosione dei costi. A Egna si svolse una grande manifestazione popolare per la realizzazione della sola “ferrovia tedesca”. I deputati tirolesi cercarono di boicottare l’accordo sulla doppia linea mediante un’intesa con i il partito più forte dei Trentini, i Popolari, ai quali promisero il finanziamento di varie opere minori rimaste nel cassetto. 

La snervante discussione e le trattative interminabili furono improvvisamente troncate dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vienna deliberò immediatamente la realizzazione “per ragioni militari” di tre linee ferroviarie che dovevano supportare i soldati schierati sul fronte dolomitico, in cui avrebbero perso la vita 180000 combattenti: la linea della Val Gardena, la linea ampezzana e, appunto, la linea della Val di Fiemme. 

Le opere dovevano essere costruite in pochissimo tempo e perciò tutte le decisioni furono prese dai vertici dell’amministrazione viennese. Per quanto riguarda la Val di Fiemme, il capolinea fu spostato da Egna a Ora, la cui stazione si trovava già al di qua dell’Adige. Nell’inverno 1915/16, tra neve e gelo e con gli scarsi mezzi a disposizione, gli Austriaci, impiegando oltre ai propri 3000 operai e tecnici anche un migliaio di prigionieri russi, realizzarono i 50,5 km di linea ferroviaria a scartamento ridotto (760 mm, poi ampliati a 1000 mm nel 1929 dopo l’elettrificazione) con sei gallerie, sette viadotti e otto ponti.

 La prima locomotiva Henschel pesava 53 tonnellate ed era in grado di trainare un peso di 80 tonnellate alla velocità di 15 km/h su una pendenza del 46 per mille. Dopo un anno o poco più, la ferrovia passò all’Italia e rimase in funzione fino al 1963. 

Autore: Reinhard Christanell

Anche Laives aveva il suo Don Camillo


Laives divenne curazia nel 1711, precisamente il 3 agosto. Il primo curato fu Zacharias Hochleitner, che rimase in carica fino al 1718. Prima di allora i sacerdoti scendevano da Bolzano a Laives nel fine settimana o in occasione di ricorrenze particolari. Alloggiavano nella vecchia canonica accanto alla chiesa poi demolita.

Molti dei curati succedutisi nel corso dei decenni lasciarono un segno profondo nella comunità. Alcuni entrarono nella leggenda paesana: qualcuno per le sue virtù, altri per ragioni meno nobili. Tale Josef Grafer, per esempio, curato dal 1832 al 1856, era un omone gigantesco, tanto che dovettero fabbricargli un confessionale su misura. Anton Guggenberger, suo successore, rimase in carica fino al 1862 e si impegnò la costruzione della nuova chiesa. Leggendario anche il curato Thaddaeus von Elzenbaum, nato a Termeno nel 1849 e in servizio a Laives dal 1877 al 1905. Il più importante di tutti fu probabilmente Bartlme Clementi, attivo dal 1919 al 1947: dovette gestire i disastri della prima guerra mondiale, il passaggio del Sudtirolo dall’Austria all’Italia e, soprattutto, le infinite angherie del faascismo che a Laives era ben radicato. I funerali solenni di Clementi entrarono nella storia della città. A Clementi succedette un altro parroco leggendario, Alois Pfoestl, a Laives fino al 1973.

Il protagonista della nostra storia non è nessuno di costoro bensì il sacerdote che ereditò la carica da von Elezenbaum agli albori del XX secolo, ossia Benjamin Vescoli. Nativo di Redagno, arrivò a Laives poco più che trentenne da Luserna e vi rimase fino allo scoppio della grande guerra nel 1914. Era un uomo controverso, legati a valori d’altri tempi e, soprattutto, noto per la sua intolleranza nei riguardi dei “costumi” liberali del genere femminile. Questo Don Camillo locale fu spesso preso di mira dai liberali e anticlericali dell’epoca, tra cui spiccava il giornale socialdemocratico “Volkszeitung”.

Il 12 febbraio 1909 il periodico “dei lavoratori” pubblicò un articoletto di poche righe che forse sfuggì a molti lettori. Il titolo del pezzo suonava “Pfäffischer Größenwahn”, megalomania pretesca. “Del parroco di Laives ci siamo già occupati in diverse occasioni”, scrisse il giornale, “e di recente è avvenuto un altro fatto rimarchevole. Una maestra dell’asilo ha organizzato una festa per i suoi bambini e quando “Sua Eccellenza” l’ha saputo ha preteso che tutti i bambini peccaminosi che avevano partecipato all’innocente festa si scusassero con lui. In ginocchio”.

La storia poteva finire qui ma ovviamente il curato reagì alla sua maniera. “Se l’autore di queste righe è in grado di provare le sue affermazioni, può ritirare presso il sottoscritto la somma di 50 corone; in caso contrario è un vile mentitore”. Il giornale rispose a sua volta con un lungo pezzo che apparve il 12 marzo: “Caro amico Vescoli, l’appetito viene mangiando e perciò ti serviamo un’altra porzione che forse ti convincerà ad aumentare il premio a 100 corone. Dica il curato se corrisponde a verità che le 15 bambine che avevano partecipato alla festicciola dell’asilo siano state costrette a chiedere perdono in ginocchio; non solo, dica anche se corrisponde a verità che a tutte le partecipanti alla festicciola il curato pretese che venisse messo il voto tre in condotta (“Sitten” si chiamava la materia, ovvero “costumi”, più o meno come nell’odierno Iran, dove esiste la polizia morale)”.

Il giornale rimproverò anche al Vescoli di aver spostato il funerale di un bambino per poter partecipare a una festa sul Montelargo, dove rimase, in “gentile compagnia”, fino a mezzanotte. Come sia finita la vicenda non si sa. Fatto sta che dopo qualche anno il curato levò le tende e si spostò a Monte San Pietro. Concluse la sua carriera a Castelvecchio presso Caldaro, dove morì nel 1936 all’età di 62 anni.