“Realtà paesana, problematiche cittadine” 

“Laives? No grazie!”: con questo titolo “rubato” alla campagna contro l’energia atomica, il periodico degli studenti universitari sudtirolesi “Skolast” pubblicò un articolo piuttosto critico sul comune di Laives e le prospettive della sua gioventù.

Correva l’anno 1991. Il ’68 e il ’77 barricadieri erano un lontano ricordo, qualche protagonista di quel periodo storico era rientrato nei ranghi “dell’arco costituzionale”, altri si erano definitivamente persi. La militanza politica giovanile aveva ammainato bandiera e il futuro delle nuove generazioni era tutto da inventare. L’autore del testo, Ugo Pozzi, sintetizzo così la situazione sociale della cittadina: “Realtà paesana, problematiche cittadine”.  Ormai da qualche decennio Laives, che dal 1985 poteva fregiarsi del titolo di città dovuto a una crescita demografica abnorme, si trascinava un problema “esistenziale”  per così dire grosso come una casa. Grazie ad una politica urbanistica a dir poco generosa e alla contestuale “chiusura” della città di Bolzano imposta dall’allora potente assessore Benedikter, il paese continuò a lievitare in modo sciagurato. Gli abitanti crescevano di anno in anno, non c’era campo o vigneto che non cadesse nelle mani degli speculatori edilizi bolzanini e locali – che peraltro non hanno mai smesso di comportarsi da padroni del vapore. Intere vie erano nate o nacquero in quegli anni: via Marconi, via Andreas Hofer e Galizia, via Nazario Sauro, la zona 46 (ex-Fuchser) e così via. Gli abitanti passarono dai 5000 del dopoguerra ai quasi 15000 degli anni ‘90.  Un salto nel buio, uno choc identitario che nessuna realtà sociale può superare indenne.  Scriveva giustamente Pozzi: “Infatti, al di là del volume sociale del comune, che si aggira all’incirca sulle 15-16000 unità, la mentalità è ancora fortemente agricola o più propriamente paesana. Bar alla sera e chiesa alla domenica sono le attività principali della popolazione, attività queste che nascondono problemi da sobborgo metropolitano come la violenza, la delinquenza giovanile e la droga tra tutte”. In effetti, se lo strato più antico della popolazione continuava a vivere come sempre, seguendo i riti e i ritmi della vita contadina, i nuovi arrivati, “spaesati” nel verso senso della parola, stentavano ad integrarsi. Del resto, non bisogna dimenticare che questa non era la prima violenza demografica che questo luogo subiva: basti ricordare che nel 1823 contava 736 abitanti e 95 case, viveva di agricoltura e di quel che offriva l’economia legata alla navigazione sull’Adige. Nel 1900 gli abitanti erano già 2513, l’immigrazione dal Welschtirol e da alcune zone lombardo-venete avevano stravolto le fondamenta sociali del paese. Il fascismo diede il colpo di grazia alla vecchia Laives, che in breve tempo raddoppiò gli abitanti. Furono soprattutto operai della zona industriale di Bolzano a insediarsi in paese. Ma il vero botto alle strutture sociali avvenne dagli anni ‘70 in poi: pur conservando il nucleo contadino di epoca asburgica, Laives divenne la classica località di periferia – con tutte le conseguenze. Scrisse ancora Pozzi: “Non a caso Laives è uno dei principali mercati per il traffico di stupefacenti altoatesino. Sembra addirittura che la droga vada da Laives a Bolzano e non viceversa! Coinvolti in questa spirale senza fine sono chiaramente i giovani che mal si adattano alle paesane abitudini e cercano in tutti i modi l’evasione”.  Tra le mancate “possibilità di evasione” Pozzi cita: “Niente cinema, niente locali adatti dove poter suonare o ritrovarsi al di là del circolo “FENALC” inadatto a soddisfare le sempre maggiori richieste e in procinto di abbattimento”.

E allora? Laives si trasforma in dormitorio, le grida dei giovani, “che reclamano sempre più un luogo proprio ove poter finalmente vivere la propria vita con modalità meno conformistiche e alienanti” incontrano un comune “sordo che mena il can per l’aia citando a intervalli regolari il progetto Laives 2000 comprendente una stupenda casa della cultura”. 

“Sarà utile che il comune di Laives pensi a tutto ciò e tenga conto che in futuro ci potrà essere qualcuno che dirà basta …” conclude l’articolo Pozzi. Forse non sapeva che prima o poi anche il disagio si trasforma in normalità.

Autore: Reinhard Christanell

Quando dall’albergo si votò il “ribaltone”

Il comune di Laives nacque ufficialmente nel 1819 grazie al nuovo ordinamento asburgico dei comuni. Da sempre collegato al capoluogo, il piccolo paese decise di staccarsi (anche se non… troppo) da Bolzano nel corso di una riunione tenuta all’albergo Casagrande.

Nel 1823 il preposto Johann von Reich pubblicò un rapporto sullo stato della popolazione, che consisteva complessivamente in 736 persone, di cui 569 residenti e 167 non residenti (soprattutto braccianti agricoli, domestiche e apprendisti artigiani). 128 persone abitavano a Unterau / S. Giacomo, 151 a Seit, 96 a Montelargo e 361 a Laives paese. Di questi, solo 53 erano possidenti e perciò ammessi al voto. Insomma, un mondo decisamente diverso da quello attuale.

I primi sindaci vennero dalla potente famiglia Kurzel. Il capostipite Lorenzo fu capocomune dal 1836 al 1846, suo figlio Anton dal 1870 al 1875, il nipote Caesar dal 1879 al 1907. Al termine della battaglia elettorale del 1907, prevalse un nome nuovo, Josef Ebner, che rimase in carica fino al 1926, quando fu sostituito da Alfred(o) Gerber.

Nel dopoguerra, le prime elezioni democratiche si tennero nel 1952. Fu eletto nuovamente Alfred Gerber, sostituito nel 1956 dal democristiano Ennio Janeselli. Nel frattempo la popolazione di Laives era passata dai  3200 abitanti del 1921 a 8400, di cui 6500 del gruppo linguistico italiano. 

Il “ribaltone” che scosse il mondo politico sudtirolese avvenne nel 1960, quando un giovane politico rampante della Svp di nome Eduard Weis riuscì del tutto inaspettatamente a impadronirsi delle redini del comune grazie a un accordo con una lista civica e i socialisti. Fu il primo e per molti anni unico sindaco “tedesco” in un comune italiano. Il consiglio comunale era composto da 20 consiglieri, la maggioranza risicatissima poteva contare solo su 11 voti. 

Rimasero all’opposizione la DC, il PSDI, il MSI e il PCI. 

Chi erano quei 20 eletti? Per la DC, maggior partito italiano, Ennio Janeselli (sindaco uscente), Luigi Ornaghi (mitico maestro), Carlo Gioia, Orlando Pristerà (entrambi sindaci in anni successivi), Giovanni Tonazzoli, Armando Polonioli (anche lui sindaco). 

Il PCI mandò in consiglio il medico Tito Vezio Grazi, la lista civica Albino Loner e Mario Tabarelli. 

Il PSDI Armando di Anselmo, il PSI Renato Corrarati, Ottorino Muzzana e Giuseppe Corbella. Il MSI elesse Aurelio Poliandri, mentre i consiglieri SVP (che nel giro di 8 anni a causa della forte immigrazione italiana perse un terzo dei seggi) furono Adolf Hafner, Franz Warasin, Eduard Weis, Josef Clementi, Josef Pircher e Antonio (Toni) Espen. 

Dunque 14 italiani e 6 tedeschi. Il 2 luglio Eduard Weis fu eletto sindaco con 11 voti su 13 presenti. 7 consiglieri non si presentarono in aula. Loner, Corrarati, Corbella e Espen furono nominati assessori. Nel 1961 a Corrarati subentrò un altro nome notissimo a Laives, Pio Pegolotti. Nel 1962 entrò in consiglio un esponente storico del MSI, Gaetano Borin, padre di Bruno, a sua volta consigliere di lungo corso. Nel 1962, in seguito a dissidi con i socialisti, Weis si dimise per permettere un “ribaltone nel ribaltone”: uscirono dalla giunta i socialisti ed entrarono la DC con Gioia e Pristerà oltre a Di Anselmo e Primo Loner. 

Il caso Laives suscitò scalpore non solo in Alto Adige. I nazionalisti italiani allora guidati dal quotidiano Alto Adige gridarono allo scandalo a causa di quel giovane sindaco sudtirolese. Attaccò perfino il rappresentante del MSI che aveva votato a favore del bilancio scrivendo: “Quello che resta inspiegabile è invece il voto favorevole dato al bilancio ed alla Giunta dal consigliere del MSI…” 

La Giunta di Weis terminò la legislatura ma restò un fatto isolato (fino ai giorni nostri): nel 1964 i rapporti di forza rimasero più o meno gli stessi ma sindaco fu eletto l’emergente democristiano Armando Polonioli (a sua volta padre di un altro sindaco, Giovanni), allora primo cittadino più giovane d’Italia.

Autore: Reinhard Christanell

I cognomi della discordia

I rapporti tra Sudtirolesi e governi italiani si distinguono  per un’ambiguità di fondo che impedisce il superamento del trauma originario dell’annessione del 1920. Perfino ora che l’amministrazione locale ha abbracciato la causa della destra italiana, sono sufficienti episodi anche minimi (per esempio in ambito scolastico) per riaccendere nella società dispute ataviche dai toni e dai contenuti d’altre epoche.

A tal proposito, il regime fascista adottò metodi perentori e violenti per regolamentare la convivenza e affermare l’italianità di questo territorio. Seguendo le linee guida tracciate da Ettore Tolomei nei “Provvedimenti per l’Alto Adige”, i fascisti emanarono leggi “speciali” come quelle sulla toponomastica, sui programmi didattici, sull’obbligo dell’uso della lingua italiana negli uffici pubblici, sulla lingua d’insegnamento e, perfino, sulla “Restituzione in forma italiana dei cognomi delle famiglie della Provincia di Trento”.

È di quest’ultima “perla” che vogliamo occuparci in questa sede. Non tragga in inganno l’indicazione “Provincia di Trento”: nel 1922 tutta la Bassa Atesina fu accorpata alla Provincia di Trento per “favorire” l’italianizzazione del territorio “mistilingue”. Con regio decreto-legge del 10 gennaio 1926, n. 17, entrato in vigore il 30 gennaio e poi convertito con legge n. 898 del 24 maggio 1926, si impose ipso facto la restituzione (mai reclamata da nessuno!) in forma italiana dei cognomi delle famiglie della provincia di Trento. “Vittorio Emanuele III, per GRAZIA E PER VOLONTA’ DELLA NAZIONE (il termine “nazione” ultimamente è ritornato di moda), sentito il Consiglio dei Ministri, sulla proposta del Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la giustizia e gli affari di culto…. abbiamo decretato e decretiamo: Le famiglie della provincia di Trento (Bassa Atesina N.d.R.) che portano un cognome originario italiano o latino tradotto in altre lingue o deformato con grafia straniera, o con l’aggiunta di un suffisso straniero, riassumeranno il cognome originario nelle forme originarie. Saranno egualmente ricondotti alla forma italiana i cognomi di origine toponomastica, derivanti da luoghi, i cui nomi erano stati tradotti in altra lingua, o deformati con grafia straniera, e altresì i predicati nobiliari tradotti o ridotti in forma straniera. Chiunque, dopo la restituzione avvenuta, fa uso del nome o del predicato nobiliare nella forma straniera, è punito con la multa da L. 500 a L. 5000.”  

Non serve chissà quale ingegno per comprendere la portata di siffatto tragico – e per certi versi grottesco –  provvedimento. I “portatori” di cognome straniero di “antiche origini latine” si videro notificato un provvedimento che trasformò e, il più della volte, storpiò il loro nome di famiglia. Il più classico degli esempi è il fantasioso Rabensteiner – Pietracorvo, la cui antica romanità sta tutta nel colore dell’uccello… 

In concreto, i cognomi modificati furono moltissimi e qui ne elenchiamo alcuni riguardanti cittadini della Bassa Atesina: passi per la “i” aggiunta a Peterlin e Abram, ma trasformare  Pichler e Kofler in Collini e Colli, Perpmer in Marini, Geier in Girardi, Spitaler in Serri, Floess in Vallesi, Fulterer in Fulteri, Gamper in Campi, Heissl in Casali, Ossinger in Ossini, Bonecher in Bonetti, Stuppner in Stuneri, Schraffl in Dalle Torri, Visintainer in Visentini, Baumgartner (cognome tipicamente latino) in Fiore, Moedlhammer in Martelli, Cont in Conti, Coser in Coseri, Moser in Moseri, Pirhofer in Perrone, Rohregger in Rovere, Plank in Bianchi, Gasser in Dallavia, Heuschreck in Mattei, Kalser in Colli, Schachner in Dalmonte, Ortler in Ortelli, Petermair in Pietromanio e, mistero toponomastico, Meraner in Cristoforetti – tutto ciò rappresenta  semplicemente la follia di un regime dittatoriale come quello del ventennio fascista.

A tutti costoro e a molti altri cittadini il Prefetto Karl Tinzl restituì il cognome originario con decreto del 16 marzo 1945, cancellando di fatto una vergogna di dimensioni epocale.

Autore: Reinhard Christanell

Le memorie di guerra dell’aviere Fratini

La storia la scrivono i vincitori e i veri protagonisti raramente hanno la possibilità di dire la loro. Non è questo il caso di un  cittadino di Laives, Giovanni Fratini, che ha raccolto in un breve diario le sue terribili esperienze di guerra e di prigionia. 

Giovanni Fratini nacque a Civitella d’Agliano (VT) nel 1922. Orfano di entrambi i genitori, nel 1933 raggiunse a Laives la sorella Lina, sposata con Quinto Dallapiazza, bracciante presso la tenuta agricola dei Campofranco. 

Il ragazzo trovò impiego presso il negozio di generi alimentari delle sorelle Conci di San Giacomo ma nel 1942 venne arruolato come aviere a La Spezia. Rifiutatosi di aderire alla Repubblica di Salò, il 10 settembre 1943 venne fatto prigioniero e internato in Germania. 

Rientrò a Laives solo dopo tre anni per riprendere il suo lavoro in bottega. Nel 1953 sposò la maestra Livia Joris, insegnante di italiano a Laives e Seit (che doveva raggiungere a piedi). Morì a San Giacomo nel 2009.

Il manoscritto porta il titolo “Piccolo Diario e Appunti su quella che fu la mia movimentata vita militare e conseguente prigionia di guerra”. 

Inizia l’11 giugno 1942: “Nelle ore antimeridiane mi presentai al centro affluenza dell’aeroporto di Bolzano, ove verso sera abbiamo avuto in consegna il corredo”. Il giorno seguente la compagnia raggiunge La Spezia. I due mesi di addestramento sono segnati dalla nostalgia di casa “sopportata con rassegnazione”.  Manca il cibo, la debolezza inizia a farsi sentire. Il 20 luglio “Giuramento, giorno di festa (povera festa però)”. 

Il 6 Agosto si parte per Bologna, aeroporto di Borgo Panigale. Il servizio consiste nelle “ronde attorno al campo di aviazione”. Finalmente il 25 agosto arriva il primo permesso di due giorni. Verso la fine di ottobre cambia il servizio: “Si monta di sentinella agli apparecchi decentrati”. Con l’arrivo dell’inverno, il servizio si fa duro. La nebbia e il gelo segnano le notti. Dopo un periodo di malattia e convalescenza, Giovanni trascorre un mese a casa (“che sogno”). il 16 luglio Bologna viene bombardata, la paura è tanta.

Il 24 luglio nuovo bombardamento, poi continui allarmi per tutta la prima metà del mese di settembre. 

“8 settembre: alle 8 di sera ci giunge la notizia della resa da parte italiana; riceviamo immediatamente l’ordine di smontare dal servizio e riunirci per far fronte a qualunque forza estranea tentasse di entrare nel campo. Il 9 settembre alle 6.10 carri armati tedeschi penetrano in varie parti del campo. Breve sparatoria”.

 Si depongono le armi, qualcuno tenta la fuga in campagna. “Incolonnati e scortati raggiungiamo la città.” Inizia la lunga, terribile prigionia. Verso la fine di luglio e nel mese di agosto le incursioni anglo-americane si susseguono giorno e notte. Il 10 settembre Giovanni scrive: “Questa notte si ha dormito così così… fuori, qualche raffica di mitra e vari colpi di altre armi da fuoco”. 

Il 15 settembre si parte da Bologna: “destinazione ignota”. “È  questo uno dei momenti più dolorosi – scrive commosso Giovanni – quanto strazio nel nostro cuore”. 

Saliti sui vagoni merci in 40-50 per vagone, inizia “quel viaggio triste… la popolazione accorre al nostro passaggio facendoci dono di cose preziose come pane, salame e uova.” Il 16 settembre si arriva in Germania, la sete si fa sentire e si beve l’acqua “che scola dal tetto del nostro vagone: sporca, sabbiosa ma comunque buona”.

Il viaggio prosegue fino al 18 quando si raggiunge un campo di concentramento a 60 chilometri da Hannover. La vita è durissima, mancano i viveri. Poi il trasferimento a Barum, a 18 chilometri da Braunschweig. Si lavora in una fabbrica di zucchero. “I giorni eternamente lunghi passano lentamente senza poter vedere alcuna via d’uscita”, si dispera Giovanni. Scrive diverse lettere ai familiari e rimane in attesa della risposta. Cambiano le mansioni, ci sono da sgomberare le macerie di una fabbrica bombardata o levare le tegole da un tetto. Da casa arriva un primo pacco, la gioia è grande. I bombardamenti si fanno  sempre più intensi, si cerca di procurarsi quale tozzo di pane lavorando negli orti delle famiglie del paese. Le mansioni dei prigionieri cambiano continuamente, il cibo non è mai sufficiente. “Solo la fede ci sorregge ancora”, scrive Giovanni mentre inizia il secondo inverno di prigionia. Il 15 gennaio si registra “un violento bombardamento”. Poi la nota più attesa: “Giovedì Santo, siamo alla stazione in attesa di rientrare in Italia: la prova più dura alla quale sono stato sottoposto sta per terminare con un bombardamento degli alleati che causa diversi feriti”. Nel 1966 Giovanni Fratini sarà insignito della “Croce al Merito di Guerra per l’internamento in Germania”.

Autore: Reinhard Christanell

Il tormentato ritorno alla democrazia

Qualche mese fa Laives ha eletto un nuovo sindaco. Date le forze in campo, gli osservatori esterni hanno parlato di un esito delle consultazioni sorprendente. In realtà, Laives non è nuova a scelte controcorrente e in fatto di colpi di scena la cittadina alle porte di Bolzano non si è mai fatta mancare niente.

Un vecchio articolo del “Volksbote” (organo ufficiale dell’Svp) ci riporta al 1947. Quell’anno, l’intera Giunta presieduta da Riccardo Calovi si era dimessa, a quanto pare per protestare contro la nomina di un segretario comunale non troppo gradito e il mancato ritorno a Laives del segretario precedente, Josef Pfeifer, stimatissimo in paese. 

Il vero motivo dell’Avventino fu però la decennale diatriba per il rinnovo dei contratti d’affitto della Part, i terreni comunali di epoca teresiana che il fascismo aveva cercato di togliere ai coltivatori locali per assegnarli agli amici di partito. Per tutta risposta, la Prefettura insediò un Commissario (il Dr. Giuseppe Majo), sollevando un putiferio che si placò solo dopo sei mesi con la nomina di un nuovo sindaco, questa volta il Dr. Alessandro Dal Rì.

Ma facciamo un ulteriore passo indietro.

Per Laives, come per gli altri comuni della Bassa Atesina, il dopoguerra era iniziato, per così dire, a guerra ancora in corso. Dopo l’8 settembre e la caduta del fascismo, si prospettò infatti la necessità di garantire la stabilità amministrativa degli enti locali. Non si trattò tuttavia di un ritorno alla democrazia con regolari elezioni ma dell’ennesima imposizione dall’alto – e a scegliere i personaggi da mettere a capo dei municipi furono questa volta gli occupanti nazisti e i loro sostenitori locali. 

L’ultimo sindaco di Laives democraticamente eletto era stato Alfred Gerber, rappresentante, con Anton Gerber, Franz Gerber, il Dr. Franz Gerber, Josef Gerber e Alois Gerber, di una vera e propria dinastia di amministratori pubblici di stampo asburgico che, al pari dei Kurzel e degli Ebner, aveva inciso profondamente nella vita pubblica della Laives dell’800. 

Nel periodo della prima guerra mondiale – dal 1914 al 1919 – era rimasto sindaco il leggendario Josef Ebner, confermato anche dopo il passaggio del Sudtirolo all’Italia. Nel 1922 si tennero le prime elezioni democratiche dopo il conflitto mondiale e insieme a Ebner, ancora sindaco, comparve sulla scena politica il giovane Alfred Gerber, che divenne sindaco nel 1926, chiudendo definitivamente l’epoca degli Ebner. Segretario comunale era nel frattempo diventato Josef Pfeifer, amato dalla popolazione ma sgradito alle autorità fasciste e quindi costretto ad abbandonare Laives. Gerber durò in carica pochi mesi: il 12 giugno fu deposto dai fascisti e al suo posto fu nominato il Podestà Camillo Comolli. 

La democrazia era definitivamente finita e per molti anni furono i podestà mussoliniani a governare il paese. 

Il primo Commissario Prefettizio nominato pochi giorni prima della resa dei fascisti nel 1943 fu un altro personaggio entrato nella storia politica di Laives, il Dr. Alessandro Dal Rì. All’epoca il funzionario pubblico trentino dirigeva la scuola agraria di Laives e per quasi un decennio fu, quale membro autorevole della DC, uno dei protagonisti del ripristino della democrazia. Qualche settimana dopo, fu affiancato da Alfred Gerber, il quale fu nominato sindaco il 31 dicembre 1943. Non durò a lungo il regno di Gerber: dopo un mese e mezzo gli subentrò Heinrich Weiss che rimase in carica fino al 1945. L’11 luglio il CNL nominò la Giunta Popolare Comunale, che rappresentò il primo tentativo di reale superamento del radicato fascismo locale. Alessandro Dal Rì fu rieletto sindaco ma dopo un mese l’intera giunta fu sostituita. Giuseppe Espen divenne vicesindaco, tra gli assessori Vittorio Perathoner, Guido Guarda, Luigi Palaoro, Dionigio Corbella, Emilio Gardener, Antonio Ebner e Paolo Frasnelli. Il  decreto prefettizio del 19 novembre 1945 confermò Dal Rì  e Espen ma cancellò la Giunta. Nel 1946 le giunte furono ben quattro: la carica di sindaco fu occupata da Dal Rì, Tevini e per un paio di mesi da Francesco (Franz) Defranceschi e Riccardo Calovi. Dopo i fatti del 1947, tornò in carica Dal Rì, che mantenne la carica fino alle prime elezioni democratiche, che si svolsero soltanto nel 1952. Primo sindaco della nuova era divenne – ancora – Alfred Gerber, che chiuse definitivamente la sua lunghissima carriere politica nel 1956, trent’anni dopo la prima nomina.

Autore: Reinhard Christanell

La via del Brennero romana

In un curioso baedeker per ciclisti uscito in Tirolo nel 1895 compare anche il tour Innsbruck – Brennero – Bolzano – Ala – Verona. In sostanza, la vecchia via del Brennero romana. Superate le Alpi e la Val d’Isarco, il ciclista di fine ‘800 arrivava a Rencio attraverso il famoso Kuntersweg che da Colma conduceva a Prato Isarco.

Questa mulattiera di fondovalle, che permetteva di aggirare la salita del Renon e quindi il vecchio percorso romano Auna di Sotto – Longomoso – Longostagno, era stata realizzata nel XIV secolo da Heinrich Kunter, che in cambio dell’enorme spesa ottenne dai conti del Tirolo il diritto di riscuotere un pedaggio e di edificare due taverne. 100 anni dopo il percorso fu ampliato e reso carrabile. Bolzano ottenne così la sua agognata porta verso i ricchi mercati tedeschi. Anche Egna e gli altri paesi della Bassa Atesina approfittarono enormemente della nuova via commerciale.
L’importanza della via del Brennero era già nota ai Romani, che un millennio e mezzo prima avevano inaugurato le rotte militari e commerciali verso le Alpi e la Germania con tre percorsi verso Augsburg / Augusta Vindelicorum, fondata da Augusto nel 15 a.C. : il Resia, il Brennero e il Passo di Monte Croce Carnico. Nei secoli successivi, proprio il sistema stradale di 80000 km determinò la diffusione capillare del latino come lingua veicolare e, soprattutto, del cristianesimo in Europa.
Le tre strade e la rete di percorsi laterali costituivano un insieme organico incentrato proprio sul passo del Brennero (posto a “soli” 1370 s.l.d.m.) e il collegamento tra Verona e Augsburg. La famosa via Claudia Augusta, che attraversava anche la Bassa Atesina, fu costruita due secoli prima della via del Brennero ma successivamente divenne una arteria secondaria di quest’ultima.
Se in epoca repubblicana ci si accontentò di rendere percorribili le vecchie mulattiere montane e di riadattare le ampie piste spontanee in pianura, in età imperiale la “via publica” delimitata e sottratta alla proprietà privata divenne la regola. Ancora oggi antichi tracciati romani inutilizzati risultano di proprietà demaniale secondo il principio romano “viam publicam populus non utendo amittere non potest” che ne esclude l’usucapione. La delimitazione della via publica (via deriva da vehere, trasportare) prevedeva un actus centrale e carrabile (da agere, guidare le bestie) e due iter (da ire, camminare) pedonali laterali. La larghezza complessiva variava tra 10 e 120 piedi. Oggigiorno è difficile individuare antiche vie romane perché spesso si trovano sotto quelle moderne. L’unica ausilio è rappresentato dai famosi miliari o altri monumenti (spesso funebri) eretti ai bordi delle strade stesse.
Per tornare al nostro percorso, la sottomissione della Rezia e della Vindelicia convinse Druso a realizzare la strada verso Augusta attraverso il passo Resia. La via Claudia fu poi ultimata da suo figlio Claudio. Alla confluenza tra Adige e Isarco e nei pressi del grande ponte di Druso (forse a Gries?) fu fondata la stazione di Pons Drusi e più a nord Veldidena, l’odierna Innsbruck. Qualche anno prima, nel 24, era stata costruita la strada da Verona a Tridentum che poi permise l’attraversamento completo della valle dell’Adige e della Bassa Atesina. Settimio Severo e Caracalla completarono la via del Brennero verso il 200 d.C. Nell’itinerarium Antonini e nella Tabula Peutingeriana, due carte stradali romane, la via del Brennero conta 13 stazioni tra Verona e Augusta. Fino a Pons Drusi la misurazione in miglia (1480 m) risulta perfetta, successivamente si trova qualche inesattezza. La lunghezza complessiva varia quindi tra 402,5 e 427,5 km. L’itinerario Antonini segna da Tridentum le stazioni di Endidae (sotto Castelfeder) e Sublavione, la Tabula parla di Tredente, Ponte Drusi e Sublavione.
Concludendo, i nostri ciclisti moderni nel 1895 dopo Bolzano, dove al Cafè Kusseth nelle ore serali era possibile incontrare i velocipedisti locali, erano indirizzati a Laives attraverso il ponte sull’Isarco (Loreto), Bronzolo e Ora. Dalla palude di Termeno si raggiungeva Egna e Salorno (dove in antichità sboccava una mulattiera proveniente da Faedo) e poi, finalmente, il confine di stato di Ala, dove gli esosi finanzieri italiani pretendevano lo sdoganamento della bicicletta con pagamento del relativo pedaggio.

Redattore: Reinhard Christanell

La ferrovia tedesca in Val di Fiemme


Si iniziò a discutere di collegamento ferroviario tra la valle dell’Adige e Cavalese a metà ‘800. La nuova linea del Brennero, completata nel 1867, aveva rivoluzionato il sistema dei trasporti basato su navigazione fluviale e carrozze e carri trainati da cavalli. Il Fleimstal tirolese era importante non solo da un punto di vista turistico ma soprattutto per la grande quantità di legname che forniva all’economia asburgica. Era perciò impensabile rinunciare alle potenzialità offerte dal nuovo cavallo di ferro che in pochi anni aveva conquistato non solo le sconfinate praterie americane ma anche le città e anguste vallate alpine dell’impero austro-ungarico.

Benché nessuno mettesse in dubbio la rilevanza strategica dell’opera, né Vienna né Innsbruck riuscirono ad approvare uno dei vari progetti elaborati a Trento e a Bolzano. Il Landtag tirolese, in cui sedevano anche i deputati trentini, e i giornali diventarono la sede principale delle aspre polemiche che costarono il posto a più di un avventato amministratore. Passarono i decenni senza che si riuscisse a sciogliere il nodo principale della questione ovvero se la ferrovia dovesse diventare “tedesca” o “italiana”. 

In altre parole: Trento, capoluogo del Welschtirol e centro del nascente irredentismo italiano, pretendeva una linea che partisse da Trento e poi da Lavis risalisse la Val di Cembra per arrivare a Predazzo, con ciò rimarcando l’italianità della Val di Fiemme “trentina”. Bolzano chiedeva invece una linea Egna – Predazzo (o Moena) che servisse anche i paesi tra il fondovalle e il Passo di S. Lugano. Fiemme e Fassa dovevano rimanere “tirolesi” e perciò il collegamento ferroviario era di primaria importanza. In mezzo ai due contendenti i diretti interessati, ossia i comuni della Val di Fiemme, che chiedevano un’esecuzione rapida dell’opera e il contenimento dei costi di realizzazione a cui dovevano partecipare.

Il 13 gennaio 1912 la “Tiroler Landzeitung” scrisse: “I Welschtiroler (Trentini) minacciano l’ostruzionismo a causa della questione della ferrovia della Val di Fiemme. Pretendono la realizzazione di una linea doppia ossia di una linea con due punti di partenza: Trento e Egna. Vienna tuttavia in un recente consiglio dei ministri ha negato il sostegno a questa assurda richiesta.”

In realtà, dopo molti anni di inutili discussioni, Vienna aveva iniziato a “simpatizzare” apertamente per la doppia linea che scontentava soprattutto i comuni della Val di Fiemme, preoccupati dall’inevitabile esplosione dei costi. A Egna si svolse una grande manifestazione popolare per la realizzazione della sola “ferrovia tedesca”. I deputati tirolesi cercarono di boicottare l’accordo sulla doppia linea mediante un’intesa con i il partito più forte dei Trentini, i Popolari, ai quali promisero il finanziamento di varie opere minori rimaste nel cassetto. 

La snervante discussione e le trattative interminabili furono improvvisamente troncate dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vienna deliberò immediatamente la realizzazione “per ragioni militari” di tre linee ferroviarie che dovevano supportare i soldati schierati sul fronte dolomitico, in cui avrebbero perso la vita 180000 combattenti: la linea della Val Gardena, la linea ampezzana e, appunto, la linea della Val di Fiemme. 

Le opere dovevano essere costruite in pochissimo tempo e perciò tutte le decisioni furono prese dai vertici dell’amministrazione viennese. Per quanto riguarda la Val di Fiemme, il capolinea fu spostato da Egna a Ora, la cui stazione si trovava già al di qua dell’Adige. Nell’inverno 1915/16, tra neve e gelo e con gli scarsi mezzi a disposizione, gli Austriaci, impiegando oltre ai propri 3000 operai e tecnici anche un migliaio di prigionieri russi, realizzarono i 50,5 km di linea ferroviaria a scartamento ridotto (760 mm, poi ampliati a 1000 mm nel 1929 dopo l’elettrificazione) con sei gallerie, sette viadotti e otto ponti.

 La prima locomotiva Henschel pesava 53 tonnellate ed era in grado di trainare un peso di 80 tonnellate alla velocità di 15 km/h su una pendenza del 46 per mille. Dopo un anno o poco più, la ferrovia passò all’Italia e rimase in funzione fino al 1963. 

Autore: Reinhard Christanell

Anche Laives aveva il suo Don Camillo


Laives divenne curazia nel 1711, precisamente il 3 agosto. Il primo curato fu Zacharias Hochleitner, che rimase in carica fino al 1718. Prima di allora i sacerdoti scendevano da Bolzano a Laives nel fine settimana o in occasione di ricorrenze particolari. Alloggiavano nella vecchia canonica accanto alla chiesa poi demolita.

Molti dei curati succedutisi nel corso dei decenni lasciarono un segno profondo nella comunità. Alcuni entrarono nella leggenda paesana: qualcuno per le sue virtù, altri per ragioni meno nobili. Tale Josef Grafer, per esempio, curato dal 1832 al 1856, era un omone gigantesco, tanto che dovettero fabbricargli un confessionale su misura. Anton Guggenberger, suo successore, rimase in carica fino al 1862 e si impegnò la costruzione della nuova chiesa. Leggendario anche il curato Thaddaeus von Elzenbaum, nato a Termeno nel 1849 e in servizio a Laives dal 1877 al 1905. Il più importante di tutti fu probabilmente Bartlme Clementi, attivo dal 1919 al 1947: dovette gestire i disastri della prima guerra mondiale, il passaggio del Sudtirolo dall’Austria all’Italia e, soprattutto, le infinite angherie del faascismo che a Laives era ben radicato. I funerali solenni di Clementi entrarono nella storia della città. A Clementi succedette un altro parroco leggendario, Alois Pfoestl, a Laives fino al 1973.

Il protagonista della nostra storia non è nessuno di costoro bensì il sacerdote che ereditò la carica da von Elezenbaum agli albori del XX secolo, ossia Benjamin Vescoli. Nativo di Redagno, arrivò a Laives poco più che trentenne da Luserna e vi rimase fino allo scoppio della grande guerra nel 1914. Era un uomo controverso, legati a valori d’altri tempi e, soprattutto, noto per la sua intolleranza nei riguardi dei “costumi” liberali del genere femminile. Questo Don Camillo locale fu spesso preso di mira dai liberali e anticlericali dell’epoca, tra cui spiccava il giornale socialdemocratico “Volkszeitung”.

Il 12 febbraio 1909 il periodico “dei lavoratori” pubblicò un articoletto di poche righe che forse sfuggì a molti lettori. Il titolo del pezzo suonava “Pfäffischer Größenwahn”, megalomania pretesca. “Del parroco di Laives ci siamo già occupati in diverse occasioni”, scrisse il giornale, “e di recente è avvenuto un altro fatto rimarchevole. Una maestra dell’asilo ha organizzato una festa per i suoi bambini e quando “Sua Eccellenza” l’ha saputo ha preteso che tutti i bambini peccaminosi che avevano partecipato all’innocente festa si scusassero con lui. In ginocchio”.

La storia poteva finire qui ma ovviamente il curato reagì alla sua maniera. “Se l’autore di queste righe è in grado di provare le sue affermazioni, può ritirare presso il sottoscritto la somma di 50 corone; in caso contrario è un vile mentitore”. Il giornale rispose a sua volta con un lungo pezzo che apparve il 12 marzo: “Caro amico Vescoli, l’appetito viene mangiando e perciò ti serviamo un’altra porzione che forse ti convincerà ad aumentare il premio a 100 corone. Dica il curato se corrisponde a verità che le 15 bambine che avevano partecipato alla festicciola dell’asilo siano state costrette a chiedere perdono in ginocchio; non solo, dica anche se corrisponde a verità che a tutte le partecipanti alla festicciola il curato pretese che venisse messo il voto tre in condotta (“Sitten” si chiamava la materia, ovvero “costumi”, più o meno come nell’odierno Iran, dove esiste la polizia morale)”.

Il giornale rimproverò anche al Vescoli di aver spostato il funerale di un bambino per poter partecipare a una festa sul Montelargo, dove rimase, in “gentile compagnia”, fino a mezzanotte. Come sia finita la vicenda non si sa. Fatto sta che dopo qualche anno il curato levò le tende e si spostò a Monte San Pietro. Concluse la sua carriera a Castelvecchio presso Caldaro, dove morì nel 1936 all’età di 62 anni.

L’assonanza fra “polenta” e “Caldaro”

La storia, si sa, spesso si nasconde nelle parole. Una di queste è “Plent”, con la quale a Caldaro (e poi nel dialetto sudtirolese in generale) si definisce la polenta di mais, pietanza tipica del Veneto, della Lombardia e del Trentino. “Plentnkessl” è invece il paiolo di rame in cui la vivanda viene cucinata e che compare nello stemma comunale di Caldaro. Non è dunque un caso se gli abitanti di questo comune venivano sopranominati “Plentnfresser”, mangiatori di polenta.

In effetti, la polenta, reminiscenza culinaria e lessicale per certi versi paragonabile alla famosa madeleine proustiana,  era la padrona incontrastata della tavola caldarese fino alla metà del secolo scorso e veniva consumata al posto del pane a colazione, pranzo e cena. 

Poi dai campi attorno al lago scomparvero le piantagioni di granturco (Tirggn) e la tradizionale polenta cotta sotto le vigne cedette il posto ad altri alimenti. 

Plent, vivanda e termine, furono “importati” dal vicino Trentino, in particolare dalla Val di Non. Come pure quel “Tschink”, storpiatura di  sindaco, appellativo del capo del “Rigl”, ossia della regola. 

Del resto, i strettissimi legami tra Caldaro e la Val di Non, tipici di ogni confine linguistico, risalgono alla notte dei tempi e tradizionalmente molti contadini nonesi possedevano vigneti tra Caldaro e Termeno. Secondo alcuni storici è probabile che fino al XIV secolo Caldaro fosse un comune quasi completamente abitato da popolazione di lingua romanza originaria, per l’appunto, dei paesi oltre il passo della Mendola. Oggi  la presenza italiana si limita ad un 7% dei cittadini. 

Nella famosa lettera di S. Vigilio, risalente a un periodo tra il IX e il XII secolo, si narrano le vicende della nascita della parrocchia di Caldaro, che sarebbe stata fondata dallo stesso vescovo trentino vissuto nel IV secolo. 

Nei boschi di Castelvecchio ancora oggi troviamo i ruderi della basilico di San Pietro, raro esempio di edificio religioso risalente agli albori del cristianesimo in Tirolo. Nel documento e in molti altri atti notarili successivi la località compare sempre con il nome di Caldare. 

A partire dal XIV secolo, inizio della lenta tedeschizzazione di Caldaro, il nome viene latinizzato in Caldarium, con possibile riferimento al paiolo che ancora oggi compare nello stemma comunale. Da quel periodo in poi iniziò la lenta trasformazione del nome. Da Chaldar e Chaltar si passò a Chalter,  finché in un atto notarile redatto a Merano troviamo un significativo “vinea iuxta Calderem, quod in vulgo dicitur Chalter”. La -n finale di Kaltern può invece essere interpretata come la desinenza al dativo di Chalter, ossia “a Caldaro” o “di Caldaro”. 

Non è escluso che Caldaro, come sostiene il linguista originario della Val di Non Carlo Battisti, nel periodo longobardo facesse parte della gastaldia di Romeno. Certo è che Caldaro e Termeno erano occupate dagli arimanni del ducato di Trento, tanto che le leggi longobarde rimasero in vigore anche molti secoli dopo la scomparsa dei Longobardi stessi. 

Tra i proprietari terrieri di Caldaro, a partire dall’epoca in cui questi vennero registrati, troviamo molti nomi di origine romanza accanto ad altri provenienti prevalentemente dalla Baviera. Singolare anche il fatto che molti nomi siano orgogliosamente accompagnati dall’indicazione della località di provenienza della persona, per cui abbiamo proprietari originari “de Cavareno, de Romeno, de Malusco, de Sarnonico, de Roncuno, de Segio, de Castro Fundo, de Melango (Castelfondo). La stessa parrocchia di Romeno possedeva molti terreni nel territorio di Caldaro. Nel XIII secolo Caldaro venne occupata da Mainardo II che la sottrasse al Vescovo di Trento Enrico. Mainardo mise a capo del comune i conti di Rottenburg, originari di Jenbach in Tirolo. Nel 1308 il territorio fu restituito al vescovo ma i Rottenburg rimasero al loro posto. 

Autore: Reinhard Chrstanell

L’immigrazione trentina nell’Unterland

Unterland, territorio di confine tra due grandi aree linguistico-culturali, è da molto tempo sinonimo di “mescolanza” etnica o Mischkultur che dir si voglia.  Se fino al XV secolo nella Bassa Atesina romanica e nella attigua zona di Mezzocorona e Lavis furono poste le basi per l’espansione dei coloni germanofoni, a partire dal XVI e XVII secolo la situazione si evolse in tutt’altra direzione. Dapprima prese il sopravvento la presenza di famiglie italiane nella fetta di Welschtirol a sud di Salorno, poi aumentò significativamente l’insediamento di persone originarie dalle valli trentine (asburgiche) anche in Bassa Atesina e Oltradige. 

Ovviamente nei due territori la situazione presentò aspetti differenti che permangono fino ai giorni nostri. Le vecchie sedi giudiziarie di Appiano, Caldaro, Termeno e Cortaccia subirono l’aumento repentino della presenza italiana soprattutto grazie all’arrivo dei braccianti richiesti dal settore agricolo. Essi provenivano  in gran parte dalla vicina Val di Non, all’epoca ricca di bocche da sfamare ma povera di risorse. Il fenomeno che si potrebbe definire la “discesa dei Nonesi” era noto in misura ridotta già qualche secolo prima, quando i contadini della Bassa accolsero a braccia aperte questa manodopera a basso costo. 

Singolare il fatto che i laboriosi immigrati nel giro di una o due generazioni divennero essi stessi affittuari e liberi contadini, facendo di tutto per essere assimilati dalla comunità di lingua tedesca. Perciò a livello statistico la minoranza italiana nei comuni tra Appiano e Magrè era composta sempre e solo da coloro che erano appena arrivati in quei paesi, mentre tutti gli altri si erano perfettamente integrati nell’ambiente tedesco.

Nel 1835 Staffler parla di “sangue misto” a proposito degli abitanti della sede giudiziaria di Caldaro, come del resto testimoniato dai moltissimi cognomi italiani presenti ancora oggi nella comunità. Il censimento del 1880 e 1910 evidenziò una presenza italiana nei comuni dell’Oltradige che oscillava tra il 4 e l’8 per cento, dovuta soprattutto alla rapida assimilazione della manodopera nonesa impiegata in agricoltura. Tra il 1880 e il 1890 si registrò una vera e propria ondata di arrivi: ad Appiano i nuovi italiani passarono da 16 a 342, a Caldaro  da 57 a 234. 

Diversa la situazione a Vadena, dove Staffler parla di una comunità “totalmente italiana”. Ciò benché in origine Vadena fosse stato un comune prevalentemente tedesco. Dalla fine del XVIII secolo aumentò la presenza dei latifondisti e coloni trentini e, in misura minore, veneti. A quanto pare, fu il curato Pamheri di Baselga a “chiamare” a Vadena molti trentini nel periodo tra il 1817 e il 1839. 

Nei comuni tra Bolzano e Salorno nel 1600 non si registra una grossa presenza di persone di madrelingua italiana. Tuttavia Martin Zeiller scrive nel 1629 che tra Trento e Bolzano “non è raro incontrare persone di lingua italiana”. Anche nei comuni della Bassa la causa della forte immigrazione trentina fu la carenza di manodopera  in agricoltura. I braccianti provenivano in gran parte dalla Val di Fiemme e di Non ma anche da altri comuni trentini. A metà del XVIII secolo molti masi di Egna e Pochi erano già di proprietà dei coloni trentini. Bronzolo attirò a sua volta molti immigrati trentini grazie all’attività di navigazione sull’Adige e alle cave di porfido. A Laives la manodopera italiana fu inizialmente impiegata nelle nuove risaie e nel campo della produzione della seta.

È dunque certo che nei paesi dell’Unterland nel XVII e XVIII secolo esistesse una reale situazione di pacifica convivenza tra italiani e tedeschi, con i primi che tendevano ad essere assimilati rapidamente e i secondi che erano padroni della lingua italiana. Molte famiglie dal cognome italiano si servivano diffusamente della lingua tedesca e i matrimoni misti contribuirono ulteriormente a creare quel mix di popolazione caratteristico dell’Unterland. Poi, agli albori del XX secolo, nacquero i primi movimenti politici impregnati di nazionalismo che tentarono in tutti i modi di avvelenare il clima di reciproco rispetto.

Autore: Reinhard Christanell