Il tormentato ritorno alla democrazia

Qualche mese fa Laives ha eletto un nuovo sindaco. Date le forze in campo, gli osservatori esterni hanno parlato di un esito delle consultazioni sorprendente. In realtà, Laives non è nuova a scelte controcorrente e in fatto di colpi di scena la cittadina alle porte di Bolzano non si è mai fatta mancare niente.

Un vecchio articolo del “Volksbote” (organo ufficiale dell’Svp) ci riporta al 1947. Quell’anno, l’intera Giunta presieduta da Riccardo Calovi si era dimessa, a quanto pare per protestare contro la nomina di un segretario comunale non troppo gradito e il mancato ritorno a Laives del segretario precedente, Josef Pfeifer, stimatissimo in paese. 

Il vero motivo dell’Avventino fu però la decennale diatriba per il rinnovo dei contratti d’affitto della Part, i terreni comunali di epoca teresiana che il fascismo aveva cercato di togliere ai coltivatori locali per assegnarli agli amici di partito. Per tutta risposta, la Prefettura insediò un Commissario (il Dr. Giuseppe Majo), sollevando un putiferio che si placò solo dopo sei mesi con la nomina di un nuovo sindaco, questa volta il Dr. Alessandro Dal Rì.

Ma facciamo un ulteriore passo indietro.

Per Laives, come per gli altri comuni della Bassa Atesina, il dopoguerra era iniziato, per così dire, a guerra ancora in corso. Dopo l’8 settembre e la caduta del fascismo, si prospettò infatti la necessità di garantire la stabilità amministrativa degli enti locali. Non si trattò tuttavia di un ritorno alla democrazia con regolari elezioni ma dell’ennesima imposizione dall’alto – e a scegliere i personaggi da mettere a capo dei municipi furono questa volta gli occupanti nazisti e i loro sostenitori locali. 

L’ultimo sindaco di Laives democraticamente eletto era stato Alfred Gerber, rappresentante, con Anton Gerber, Franz Gerber, il Dr. Franz Gerber, Josef Gerber e Alois Gerber, di una vera e propria dinastia di amministratori pubblici di stampo asburgico che, al pari dei Kurzel e degli Ebner, aveva inciso profondamente nella vita pubblica della Laives dell’800. 

Nel periodo della prima guerra mondiale – dal 1914 al 1919 – era rimasto sindaco il leggendario Josef Ebner, confermato anche dopo il passaggio del Sudtirolo all’Italia. Nel 1922 si tennero le prime elezioni democratiche dopo il conflitto mondiale e insieme a Ebner, ancora sindaco, comparve sulla scena politica il giovane Alfred Gerber, che divenne sindaco nel 1926, chiudendo definitivamente l’epoca degli Ebner. Segretario comunale era nel frattempo diventato Josef Pfeifer, amato dalla popolazione ma sgradito alle autorità fasciste e quindi costretto ad abbandonare Laives. Gerber durò in carica pochi mesi: il 12 giugno fu deposto dai fascisti e al suo posto fu nominato il Podestà Camillo Comolli. 

La democrazia era definitivamente finita e per molti anni furono i podestà mussoliniani a governare il paese. 

Il primo Commissario Prefettizio nominato pochi giorni prima della resa dei fascisti nel 1943 fu un altro personaggio entrato nella storia politica di Laives, il Dr. Alessandro Dal Rì. All’epoca il funzionario pubblico trentino dirigeva la scuola agraria di Laives e per quasi un decennio fu, quale membro autorevole della DC, uno dei protagonisti del ripristino della democrazia. Qualche settimana dopo, fu affiancato da Alfred Gerber, il quale fu nominato sindaco il 31 dicembre 1943. Non durò a lungo il regno di Gerber: dopo un mese e mezzo gli subentrò Heinrich Weiss che rimase in carica fino al 1945. L’11 luglio il CNL nominò la Giunta Popolare Comunale, che rappresentò il primo tentativo di reale superamento del radicato fascismo locale. Alessandro Dal Rì fu rieletto sindaco ma dopo un mese l’intera giunta fu sostituita. Giuseppe Espen divenne vicesindaco, tra gli assessori Vittorio Perathoner, Guido Guarda, Luigi Palaoro, Dionigio Corbella, Emilio Gardener, Antonio Ebner e Paolo Frasnelli. Il  decreto prefettizio del 19 novembre 1945 confermò Dal Rì  e Espen ma cancellò la Giunta. Nel 1946 le giunte furono ben quattro: la carica di sindaco fu occupata da Dal Rì, Tevini e per un paio di mesi da Francesco (Franz) Defranceschi e Riccardo Calovi. Dopo i fatti del 1947, tornò in carica Dal Rì, che mantenne la carica fino alle prime elezioni democratiche, che si svolsero soltanto nel 1952. Primo sindaco della nuova era divenne – ancora – Alfred Gerber, che chiuse definitivamente la sua lunghissima carriere politica nel 1956, trent’anni dopo la prima nomina.

Autore: Reinhard Christanell

La via del Brennero romana

In un curioso baedeker per ciclisti uscito in Tirolo nel 1895 compare anche il tour Innsbruck – Brennero – Bolzano – Ala – Verona. In sostanza, la vecchia via del Brennero romana. Superate le Alpi e la Val d’Isarco, il ciclista di fine ‘800 arrivava a Rencio attraverso il famoso Kuntersweg che da Colma conduceva a Prato Isarco.

Questa mulattiera di fondovalle, che permetteva di aggirare la salita del Renon e quindi il vecchio percorso romano Auna di Sotto – Longomoso – Longostagno, era stata realizzata nel XIV secolo da Heinrich Kunter, che in cambio dell’enorme spesa ottenne dai conti del Tirolo il diritto di riscuotere un pedaggio e di edificare due taverne. 100 anni dopo il percorso fu ampliato e reso carrabile. Bolzano ottenne così la sua agognata porta verso i ricchi mercati tedeschi. Anche Egna e gli altri paesi della Bassa Atesina approfittarono enormemente della nuova via commerciale.
L’importanza della via del Brennero era già nota ai Romani, che un millennio e mezzo prima avevano inaugurato le rotte militari e commerciali verso le Alpi e la Germania con tre percorsi verso Augsburg / Augusta Vindelicorum, fondata da Augusto nel 15 a.C. : il Resia, il Brennero e il Passo di Monte Croce Carnico. Nei secoli successivi, proprio il sistema stradale di 80000 km determinò la diffusione capillare del latino come lingua veicolare e, soprattutto, del cristianesimo in Europa.
Le tre strade e la rete di percorsi laterali costituivano un insieme organico incentrato proprio sul passo del Brennero (posto a “soli” 1370 s.l.d.m.) e il collegamento tra Verona e Augsburg. La famosa via Claudia Augusta, che attraversava anche la Bassa Atesina, fu costruita due secoli prima della via del Brennero ma successivamente divenne una arteria secondaria di quest’ultima.
Se in epoca repubblicana ci si accontentò di rendere percorribili le vecchie mulattiere montane e di riadattare le ampie piste spontanee in pianura, in età imperiale la “via publica” delimitata e sottratta alla proprietà privata divenne la regola. Ancora oggi antichi tracciati romani inutilizzati risultano di proprietà demaniale secondo il principio romano “viam publicam populus non utendo amittere non potest” che ne esclude l’usucapione. La delimitazione della via publica (via deriva da vehere, trasportare) prevedeva un actus centrale e carrabile (da agere, guidare le bestie) e due iter (da ire, camminare) pedonali laterali. La larghezza complessiva variava tra 10 e 120 piedi. Oggigiorno è difficile individuare antiche vie romane perché spesso si trovano sotto quelle moderne. L’unica ausilio è rappresentato dai famosi miliari o altri monumenti (spesso funebri) eretti ai bordi delle strade stesse.
Per tornare al nostro percorso, la sottomissione della Rezia e della Vindelicia convinse Druso a realizzare la strada verso Augusta attraverso il passo Resia. La via Claudia fu poi ultimata da suo figlio Claudio. Alla confluenza tra Adige e Isarco e nei pressi del grande ponte di Druso (forse a Gries?) fu fondata la stazione di Pons Drusi e più a nord Veldidena, l’odierna Innsbruck. Qualche anno prima, nel 24, era stata costruita la strada da Verona a Tridentum che poi permise l’attraversamento completo della valle dell’Adige e della Bassa Atesina. Settimio Severo e Caracalla completarono la via del Brennero verso il 200 d.C. Nell’itinerarium Antonini e nella Tabula Peutingeriana, due carte stradali romane, la via del Brennero conta 13 stazioni tra Verona e Augusta. Fino a Pons Drusi la misurazione in miglia (1480 m) risulta perfetta, successivamente si trova qualche inesattezza. La lunghezza complessiva varia quindi tra 402,5 e 427,5 km. L’itinerario Antonini segna da Tridentum le stazioni di Endidae (sotto Castelfeder) e Sublavione, la Tabula parla di Tredente, Ponte Drusi e Sublavione.
Concludendo, i nostri ciclisti moderni nel 1895 dopo Bolzano, dove al Cafè Kusseth nelle ore serali era possibile incontrare i velocipedisti locali, erano indirizzati a Laives attraverso il ponte sull’Isarco (Loreto), Bronzolo e Ora. Dalla palude di Termeno si raggiungeva Egna e Salorno (dove in antichità sboccava una mulattiera proveniente da Faedo) e poi, finalmente, il confine di stato di Ala, dove gli esosi finanzieri italiani pretendevano lo sdoganamento della bicicletta con pagamento del relativo pedaggio.

Redattore: Reinhard Christanell

La ferrovia tedesca in Val di Fiemme


Si iniziò a discutere di collegamento ferroviario tra la valle dell’Adige e Cavalese a metà ‘800. La nuova linea del Brennero, completata nel 1867, aveva rivoluzionato il sistema dei trasporti basato su navigazione fluviale e carrozze e carri trainati da cavalli. Il Fleimstal tirolese era importante non solo da un punto di vista turistico ma soprattutto per la grande quantità di legname che forniva all’economia asburgica. Era perciò impensabile rinunciare alle potenzialità offerte dal nuovo cavallo di ferro che in pochi anni aveva conquistato non solo le sconfinate praterie americane ma anche le città e anguste vallate alpine dell’impero austro-ungarico.

Benché nessuno mettesse in dubbio la rilevanza strategica dell’opera, né Vienna né Innsbruck riuscirono ad approvare uno dei vari progetti elaborati a Trento e a Bolzano. Il Landtag tirolese, in cui sedevano anche i deputati trentini, e i giornali diventarono la sede principale delle aspre polemiche che costarono il posto a più di un avventato amministratore. Passarono i decenni senza che si riuscisse a sciogliere il nodo principale della questione ovvero se la ferrovia dovesse diventare “tedesca” o “italiana”. 

In altre parole: Trento, capoluogo del Welschtirol e centro del nascente irredentismo italiano, pretendeva una linea che partisse da Trento e poi da Lavis risalisse la Val di Cembra per arrivare a Predazzo, con ciò rimarcando l’italianità della Val di Fiemme “trentina”. Bolzano chiedeva invece una linea Egna – Predazzo (o Moena) che servisse anche i paesi tra il fondovalle e il Passo di S. Lugano. Fiemme e Fassa dovevano rimanere “tirolesi” e perciò il collegamento ferroviario era di primaria importanza. In mezzo ai due contendenti i diretti interessati, ossia i comuni della Val di Fiemme, che chiedevano un’esecuzione rapida dell’opera e il contenimento dei costi di realizzazione a cui dovevano partecipare.

Il 13 gennaio 1912 la “Tiroler Landzeitung” scrisse: “I Welschtiroler (Trentini) minacciano l’ostruzionismo a causa della questione della ferrovia della Val di Fiemme. Pretendono la realizzazione di una linea doppia ossia di una linea con due punti di partenza: Trento e Egna. Vienna tuttavia in un recente consiglio dei ministri ha negato il sostegno a questa assurda richiesta.”

In realtà, dopo molti anni di inutili discussioni, Vienna aveva iniziato a “simpatizzare” apertamente per la doppia linea che scontentava soprattutto i comuni della Val di Fiemme, preoccupati dall’inevitabile esplosione dei costi. A Egna si svolse una grande manifestazione popolare per la realizzazione della sola “ferrovia tedesca”. I deputati tirolesi cercarono di boicottare l’accordo sulla doppia linea mediante un’intesa con i il partito più forte dei Trentini, i Popolari, ai quali promisero il finanziamento di varie opere minori rimaste nel cassetto. 

La snervante discussione e le trattative interminabili furono improvvisamente troncate dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vienna deliberò immediatamente la realizzazione “per ragioni militari” di tre linee ferroviarie che dovevano supportare i soldati schierati sul fronte dolomitico, in cui avrebbero perso la vita 180000 combattenti: la linea della Val Gardena, la linea ampezzana e, appunto, la linea della Val di Fiemme. 

Le opere dovevano essere costruite in pochissimo tempo e perciò tutte le decisioni furono prese dai vertici dell’amministrazione viennese. Per quanto riguarda la Val di Fiemme, il capolinea fu spostato da Egna a Ora, la cui stazione si trovava già al di qua dell’Adige. Nell’inverno 1915/16, tra neve e gelo e con gli scarsi mezzi a disposizione, gli Austriaci, impiegando oltre ai propri 3000 operai e tecnici anche un migliaio di prigionieri russi, realizzarono i 50,5 km di linea ferroviaria a scartamento ridotto (760 mm, poi ampliati a 1000 mm nel 1929 dopo l’elettrificazione) con sei gallerie, sette viadotti e otto ponti.

 La prima locomotiva Henschel pesava 53 tonnellate ed era in grado di trainare un peso di 80 tonnellate alla velocità di 15 km/h su una pendenza del 46 per mille. Dopo un anno o poco più, la ferrovia passò all’Italia e rimase in funzione fino al 1963. 

Autore: Reinhard Christanell

Anche Laives aveva il suo Don Camillo


Laives divenne curazia nel 1711, precisamente il 3 agosto. Il primo curato fu Zacharias Hochleitner, che rimase in carica fino al 1718. Prima di allora i sacerdoti scendevano da Bolzano a Laives nel fine settimana o in occasione di ricorrenze particolari. Alloggiavano nella vecchia canonica accanto alla chiesa poi demolita.

Molti dei curati succedutisi nel corso dei decenni lasciarono un segno profondo nella comunità. Alcuni entrarono nella leggenda paesana: qualcuno per le sue virtù, altri per ragioni meno nobili. Tale Josef Grafer, per esempio, curato dal 1832 al 1856, era un omone gigantesco, tanto che dovettero fabbricargli un confessionale su misura. Anton Guggenberger, suo successore, rimase in carica fino al 1862 e si impegnò la costruzione della nuova chiesa. Leggendario anche il curato Thaddaeus von Elzenbaum, nato a Termeno nel 1849 e in servizio a Laives dal 1877 al 1905. Il più importante di tutti fu probabilmente Bartlme Clementi, attivo dal 1919 al 1947: dovette gestire i disastri della prima guerra mondiale, il passaggio del Sudtirolo dall’Austria all’Italia e, soprattutto, le infinite angherie del faascismo che a Laives era ben radicato. I funerali solenni di Clementi entrarono nella storia della città. A Clementi succedette un altro parroco leggendario, Alois Pfoestl, a Laives fino al 1973.

Il protagonista della nostra storia non è nessuno di costoro bensì il sacerdote che ereditò la carica da von Elezenbaum agli albori del XX secolo, ossia Benjamin Vescoli. Nativo di Redagno, arrivò a Laives poco più che trentenne da Luserna e vi rimase fino allo scoppio della grande guerra nel 1914. Era un uomo controverso, legati a valori d’altri tempi e, soprattutto, noto per la sua intolleranza nei riguardi dei “costumi” liberali del genere femminile. Questo Don Camillo locale fu spesso preso di mira dai liberali e anticlericali dell’epoca, tra cui spiccava il giornale socialdemocratico “Volkszeitung”.

Il 12 febbraio 1909 il periodico “dei lavoratori” pubblicò un articoletto di poche righe che forse sfuggì a molti lettori. Il titolo del pezzo suonava “Pfäffischer Größenwahn”, megalomania pretesca. “Del parroco di Laives ci siamo già occupati in diverse occasioni”, scrisse il giornale, “e di recente è avvenuto un altro fatto rimarchevole. Una maestra dell’asilo ha organizzato una festa per i suoi bambini e quando “Sua Eccellenza” l’ha saputo ha preteso che tutti i bambini peccaminosi che avevano partecipato all’innocente festa si scusassero con lui. In ginocchio”.

La storia poteva finire qui ma ovviamente il curato reagì alla sua maniera. “Se l’autore di queste righe è in grado di provare le sue affermazioni, può ritirare presso il sottoscritto la somma di 50 corone; in caso contrario è un vile mentitore”. Il giornale rispose a sua volta con un lungo pezzo che apparve il 12 marzo: “Caro amico Vescoli, l’appetito viene mangiando e perciò ti serviamo un’altra porzione che forse ti convincerà ad aumentare il premio a 100 corone. Dica il curato se corrisponde a verità che le 15 bambine che avevano partecipato alla festicciola dell’asilo siano state costrette a chiedere perdono in ginocchio; non solo, dica anche se corrisponde a verità che a tutte le partecipanti alla festicciola il curato pretese che venisse messo il voto tre in condotta (“Sitten” si chiamava la materia, ovvero “costumi”, più o meno come nell’odierno Iran, dove esiste la polizia morale)”.

Il giornale rimproverò anche al Vescoli di aver spostato il funerale di un bambino per poter partecipare a una festa sul Montelargo, dove rimase, in “gentile compagnia”, fino a mezzanotte. Come sia finita la vicenda non si sa. Fatto sta che dopo qualche anno il curato levò le tende e si spostò a Monte San Pietro. Concluse la sua carriera a Castelvecchio presso Caldaro, dove morì nel 1936 all’età di 62 anni.

L’assonanza fra “polenta” e “Caldaro”

La storia, si sa, spesso si nasconde nelle parole. Una di queste è “Plent”, con la quale a Caldaro (e poi nel dialetto sudtirolese in generale) si definisce la polenta di mais, pietanza tipica del Veneto, della Lombardia e del Trentino. “Plentnkessl” è invece il paiolo di rame in cui la vivanda viene cucinata e che compare nello stemma comunale di Caldaro. Non è dunque un caso se gli abitanti di questo comune venivano sopranominati “Plentnfresser”, mangiatori di polenta.

In effetti, la polenta, reminiscenza culinaria e lessicale per certi versi paragonabile alla famosa madeleine proustiana,  era la padrona incontrastata della tavola caldarese fino alla metà del secolo scorso e veniva consumata al posto del pane a colazione, pranzo e cena. 

Poi dai campi attorno al lago scomparvero le piantagioni di granturco (Tirggn) e la tradizionale polenta cotta sotto le vigne cedette il posto ad altri alimenti. 

Plent, vivanda e termine, furono “importati” dal vicino Trentino, in particolare dalla Val di Non. Come pure quel “Tschink”, storpiatura di  sindaco, appellativo del capo del “Rigl”, ossia della regola. 

Del resto, i strettissimi legami tra Caldaro e la Val di Non, tipici di ogni confine linguistico, risalgono alla notte dei tempi e tradizionalmente molti contadini nonesi possedevano vigneti tra Caldaro e Termeno. Secondo alcuni storici è probabile che fino al XIV secolo Caldaro fosse un comune quasi completamente abitato da popolazione di lingua romanza originaria, per l’appunto, dei paesi oltre il passo della Mendola. Oggi  la presenza italiana si limita ad un 7% dei cittadini. 

Nella famosa lettera di S. Vigilio, risalente a un periodo tra il IX e il XII secolo, si narrano le vicende della nascita della parrocchia di Caldaro, che sarebbe stata fondata dallo stesso vescovo trentino vissuto nel IV secolo. 

Nei boschi di Castelvecchio ancora oggi troviamo i ruderi della basilico di San Pietro, raro esempio di edificio religioso risalente agli albori del cristianesimo in Tirolo. Nel documento e in molti altri atti notarili successivi la località compare sempre con il nome di Caldare. 

A partire dal XIV secolo, inizio della lenta tedeschizzazione di Caldaro, il nome viene latinizzato in Caldarium, con possibile riferimento al paiolo che ancora oggi compare nello stemma comunale. Da quel periodo in poi iniziò la lenta trasformazione del nome. Da Chaldar e Chaltar si passò a Chalter,  finché in un atto notarile redatto a Merano troviamo un significativo “vinea iuxta Calderem, quod in vulgo dicitur Chalter”. La -n finale di Kaltern può invece essere interpretata come la desinenza al dativo di Chalter, ossia “a Caldaro” o “di Caldaro”. 

Non è escluso che Caldaro, come sostiene il linguista originario della Val di Non Carlo Battisti, nel periodo longobardo facesse parte della gastaldia di Romeno. Certo è che Caldaro e Termeno erano occupate dagli arimanni del ducato di Trento, tanto che le leggi longobarde rimasero in vigore anche molti secoli dopo la scomparsa dei Longobardi stessi. 

Tra i proprietari terrieri di Caldaro, a partire dall’epoca in cui questi vennero registrati, troviamo molti nomi di origine romanza accanto ad altri provenienti prevalentemente dalla Baviera. Singolare anche il fatto che molti nomi siano orgogliosamente accompagnati dall’indicazione della località di provenienza della persona, per cui abbiamo proprietari originari “de Cavareno, de Romeno, de Malusco, de Sarnonico, de Roncuno, de Segio, de Castro Fundo, de Melango (Castelfondo). La stessa parrocchia di Romeno possedeva molti terreni nel territorio di Caldaro. Nel XIII secolo Caldaro venne occupata da Mainardo II che la sottrasse al Vescovo di Trento Enrico. Mainardo mise a capo del comune i conti di Rottenburg, originari di Jenbach in Tirolo. Nel 1308 il territorio fu restituito al vescovo ma i Rottenburg rimasero al loro posto. 

Autore: Reinhard Chrstanell

L’immigrazione trentina nell’Unterland

Unterland, territorio di confine tra due grandi aree linguistico-culturali, è da molto tempo sinonimo di “mescolanza” etnica o Mischkultur che dir si voglia.  Se fino al XV secolo nella Bassa Atesina romanica e nella attigua zona di Mezzocorona e Lavis furono poste le basi per l’espansione dei coloni germanofoni, a partire dal XVI e XVII secolo la situazione si evolse in tutt’altra direzione. Dapprima prese il sopravvento la presenza di famiglie italiane nella fetta di Welschtirol a sud di Salorno, poi aumentò significativamente l’insediamento di persone originarie dalle valli trentine (asburgiche) anche in Bassa Atesina e Oltradige. 

Ovviamente nei due territori la situazione presentò aspetti differenti che permangono fino ai giorni nostri. Le vecchie sedi giudiziarie di Appiano, Caldaro, Termeno e Cortaccia subirono l’aumento repentino della presenza italiana soprattutto grazie all’arrivo dei braccianti richiesti dal settore agricolo. Essi provenivano  in gran parte dalla vicina Val di Non, all’epoca ricca di bocche da sfamare ma povera di risorse. Il fenomeno che si potrebbe definire la “discesa dei Nonesi” era noto in misura ridotta già qualche secolo prima, quando i contadini della Bassa accolsero a braccia aperte questa manodopera a basso costo. 

Singolare il fatto che i laboriosi immigrati nel giro di una o due generazioni divennero essi stessi affittuari e liberi contadini, facendo di tutto per essere assimilati dalla comunità di lingua tedesca. Perciò a livello statistico la minoranza italiana nei comuni tra Appiano e Magrè era composta sempre e solo da coloro che erano appena arrivati in quei paesi, mentre tutti gli altri si erano perfettamente integrati nell’ambiente tedesco.

Nel 1835 Staffler parla di “sangue misto” a proposito degli abitanti della sede giudiziaria di Caldaro, come del resto testimoniato dai moltissimi cognomi italiani presenti ancora oggi nella comunità. Il censimento del 1880 e 1910 evidenziò una presenza italiana nei comuni dell’Oltradige che oscillava tra il 4 e l’8 per cento, dovuta soprattutto alla rapida assimilazione della manodopera nonesa impiegata in agricoltura. Tra il 1880 e il 1890 si registrò una vera e propria ondata di arrivi: ad Appiano i nuovi italiani passarono da 16 a 342, a Caldaro  da 57 a 234. 

Diversa la situazione a Vadena, dove Staffler parla di una comunità “totalmente italiana”. Ciò benché in origine Vadena fosse stato un comune prevalentemente tedesco. Dalla fine del XVIII secolo aumentò la presenza dei latifondisti e coloni trentini e, in misura minore, veneti. A quanto pare, fu il curato Pamheri di Baselga a “chiamare” a Vadena molti trentini nel periodo tra il 1817 e il 1839. 

Nei comuni tra Bolzano e Salorno nel 1600 non si registra una grossa presenza di persone di madrelingua italiana. Tuttavia Martin Zeiller scrive nel 1629 che tra Trento e Bolzano “non è raro incontrare persone di lingua italiana”. Anche nei comuni della Bassa la causa della forte immigrazione trentina fu la carenza di manodopera  in agricoltura. I braccianti provenivano in gran parte dalla Val di Fiemme e di Non ma anche da altri comuni trentini. A metà del XVIII secolo molti masi di Egna e Pochi erano già di proprietà dei coloni trentini. Bronzolo attirò a sua volta molti immigrati trentini grazie all’attività di navigazione sull’Adige e alle cave di porfido. A Laives la manodopera italiana fu inizialmente impiegata nelle nuove risaie e nel campo della produzione della seta.

È dunque certo che nei paesi dell’Unterland nel XVII e XVIII secolo esistesse una reale situazione di pacifica convivenza tra italiani e tedeschi, con i primi che tendevano ad essere assimilati rapidamente e i secondi che erano padroni della lingua italiana. Molte famiglie dal cognome italiano si servivano diffusamente della lingua tedesca e i matrimoni misti contribuirono ulteriormente a creare quel mix di popolazione caratteristico dell’Unterland. Poi, agli albori del XX secolo, nacquero i primi movimenti politici impregnati di nazionalismo che tentarono in tutti i modi di avvelenare il clima di reciproco rispetto.

Autore: Reinhard Christanell

I nomi antichi della Val D’Adige

La toponomastica è da decenni uno dei temi più controversi nella nostra provincia. A ben guardare, non ci sarebbe nessun motivo per tanto fervore poiché la gran parte dei toponimi locali neppure ci appartiene. Moltissimi derivano da lingue estinte e popoli scomparsi da secoli o addirittura millenni e ci sono ignoti i loro reali significati. Per rimanere nell’ambito dei fiumi, di cui ci occupiamo in questa sede, i cui nomi sono i più antichi in assoluto e spesso risalgono addirittura a un’epoca preindoeuropea, chi conosce il significato dei nomi dei maggiori corsi d’acqua che attraversano le nostre valli come Adige, Isarco, Rienza, Talvera, Passirio? 

L’Adige è il fiume più importante dell’Alto Adige. Strabone, storico e geografo greco vissuto all’epoca di Cristo, lo chiamava Athesinos e credeva che sorgesse da un non meglio precisato lago alpino-appenninico (le Alpi rimasero terra sconosciuta fino all’epoca augustea) e sfociasse, dopo aver accolto le acque dell’Ategis (Isarco), nel mare Adriatico. È singolare la somiglianza del nome dei due fiumi che si incontrano tra Bolzano e Laives. 

In realtà non è l’Athesinos, fino al punto di confluenza il meno lungo, ad accogliere l’Ategis, ma il contrario: ragion per cui diversi autori ritengono che in origine il corso d’acqua che oggi attraversa la Bassa Atesina si chiamasse Isarco e solo in un secondo momento il nome del fiume, che probabilmente in terra veneta portava un altro nome, divenne quello di Athesinos per tutta la sua lunghezza. 

L’etimologia esatta dei due nomi non è chiara, anche se alla loro base troviamo la radice proto-indogermanica “adro-“, corso d’acqua, acqua corrente. La forma tedesca del nome risale all’alto medioevo e deriva dalla zona di Bolzano e non dalla Bassa Atesina, dove la lingua parlata era ancora quella romanza. La lettera A si trasformò in E e divenne Etisa, poi mutata in Etse, Etsche e infine Etsch. 

In Bassa Atesina rimase invece a lungo presente la forma Adesch, tuttora in uso nelle valli ladine con Ladesch per definire sia l’Adige che l’Isarco. Ancora oggi la parlata trentina della Bassa Atesina conosce e utilizza prevalentemente questo nome. 

Il nome tedesco Etisa, sorto con la colonizzazione bavara della zona di Bolzano, è documentato in Bassa Atesina a partire dal XII secolo, quando la lingua romanza arretra fortemente e con l’arrivo dei coloni germanofoni va a sparire del tutto. 

Singolare è anche il fatto che l’Adige non diede subito il nome alla valle che attraversa, come invece è il caso dell’Inn in Tirolo. Non si parla di Val d’Adige / Etschtal prima del XVIII secolo. La parte superiore della valle dell’Adige porta da sempre il nome di Vallis Venusta, dal popolo retico che la abitava. 

Dall’XI secolo appare anche il nome tedesco di Finsgowe, poi Vinschew, Vintscheu, Vintschga e Vintschgau. Da Merano in giù la valle era denominata Vallis Tridentina fino al XII secolo. Anche i Tridentini erano un popolo retico insediato probabilmente in parte di questo territorio e fino a Trento. Persa la memoria dei vecchi Tridentini, la valle dell’Adige iniziò lentamente a ricordarsi del proprio fiume. Non comparve tuttavia la definizione valle / Tal come la conosciamo oggi ma la forma Longum Athesis, che si potrebbe tradurre come “Lungo-Adige” o terra lungo l’Adige. Qualche documento riporta anche la forma Longiatesis teotonicum, Lungadige tedesco, oppure terra Athesis e circa o apud Athesim. 

Il termine Unterland è inizialmente riferito alla zona tra Merano e Terlano. Soltanto a partire dal XIX secolo viene assegnata al territorio a sud di Bolzano, che dal XVI secolo veniva definito “Oberes und Unteres Etschviertel”, quartiere all’Adige di sopra e di sotto. 

L’Ategis di Strabone, ovvero l’Isargus / Isarcus romano, da cui prese il nome il popolo degli Isarci, che con i Tridentini si dividevano il territorio dell’odierna Bassa Atesina, prende probabilmente il suo nome dalla radice “is-“ come i fiumi Isar, Isere e Ister, il cui significato dovrebbe essere quello di acqua rapida, tumultuosa. In tedesco il latino Isarcus divenne, dopo il XII secolo, Ysages, Ysac e Isach, poi dopo il XIII secolo Eysach e finalmente Eisack.

Autore: Reinhard Christanell

L’importanza dei ponti sull’Adige

Pons Drusi è i primo nome noto dell’odierna Bolzano. Dove esattamente si trovasse questo strategico ponte romano che permise la conquista della piana bolzanina non si sa, ma certo è che il toponimo la dice lunga sull’importanza  dei ponti in questo territorio attraversato da molti corsi d’acqua. 

Prima che iniziasse la sistematica costruzione dei ponti in legno, cemento o ferro, attraversare i grandi fiumi, torrenti e ruscelli non era impresa semplice. Zattere, barche e traghetti più o meno improvvisati, più o meno sicuri trasportavano merci e persone da un argine all’altro, da un approdo a quello successivo. 

In un documento del 1300 appare la dicitura “vadum seu portum in Sacco” ossia guado o magazzino a Sacco (Rovereto) per indicare il luogo dove un traghetto permetteva di passare il fiume. Invece la vecchia parole tedesca per traghetto è “urvar”, per cui abbiamo un maso Urfar a Vadena e località denominate Urfar di sopra o di sotto tra Vadena e Ora. 

In periodi di secca e con acque particolarmente calme, i traghetti si muovevano liberamente sul fiume, in altri dovevano essere fissati a una fune stesa tra una riva e l’altra per non essere trascinati a valle dalla corrente. Era quest’ultimo il caso dell’Urfar di Vadena e dell’Urfar di Gmund / Monte tra Ora e Termeno. Ancora nel 1574 il titolare di quest’ultimo, Augustin Pergomes, chiese al governo di Vienna la costruzione di un ponte vero e proprio al posto del traghetto troppo pericoloso, richiesta alla quale si oppose strenuamente il vicino comune di Egna che già disponeva del suo ponte.

In un atto del 1235 viene citato un “pons de navi” preso l’Adige. Non si tratta di un ponte vero e proprio ma di un traghetto di proprietà del vescovo di Tento in località Schefbrugg, in italiano Nave San Felice. Tra il 1818 e il 1840 sono noti diversi ponti di barche chiamati “porti”.

L’aumento del traffico commerciale tra Bolzano, Egna e Trento richiese la graduale sostituzione dei traghetti con ponti. I vecchi ponti romani in questa zona erano di legno per cui non si sono conservati. Il ponte più antico di cui si abbia notizia è quello che attraversa il Passirio a Merano e risale all’anno 800. Ma è tra il 1150 e il 1200 che inizia un’intensa attività di costruzione di ponti sia sull’Adige che sull’Isarco. Tra il 1200 e il 1350 furono realizzati il ponte di Egna e il ponte Talvera a Bolzano. Se un tempo era prevalente l’utilizzo del legno, a partire dal XIX secolo i ponti furono costruiti in pietra, calcestruzzo o ferro. Per la costruzione dei ponti venivano impegnati fondi dei comuni e dei proprietari dei terreni adiacenti, che erano obbligati a fornire il legname o pagare importi equivalenti. Chi transitava sul ponte era tenuto a pagare un pedaggio per sé, eventuali carri e capi di bestiame.

Tra i ponti più noti tra Bolzano e la Bassa Atesina vi sono quelli di Castel Firmiano o Formigar, come veniva chiamato prima del XV secolo. 

Era di proprietà del vescovo di Trento e venne citato per la prima volta nel 1216, quando “in capite pontis Formiani” ebbe luogo una riunione tra nobili della zona. Ancora nel 1181 e nel 1185 si parla invece di “vadum de cuvalo apud flumen Athesis subtus Formicarum” e “ad vadum de Formeiano”, che ci indicano che ancora non c’era il ponte ma un traghetto. Allo stesso periodo risale il ponte sull’Isarco sempre a Bolzano, chiamato anche ponte di Bolzano e poi Loreto. Potrebbe essere sorto qui il primo ponte di Druso che diede il nome alla città.

8 chilometri a sud di Formigar si trova Vadena, dove dal XIV secolo si parla di un Urfar. Un “vadum de Mazoco” (Caldaro/Termeno) è citato verso il 1200. Con la costruzione della ferrovia venne realizzato un ponte a Gmund/Monte. A Egna il primo ponte risale al 1305. A Salorno il ponte sull’Adige esiste dal XIV secolo. Sotto Salorno, a parte Trento, esistevano solo traghetti: Nave San Felice, Calliano, Rovereto, Mori, Serravalle, Ala e Avio. A Nevis / Lavis esisteva tuttavia un ponte sull’Avisio / Efeis dal 1202. 

Autore: Reinhard Christanell

L’Allmende tra Caldaro e Cortaccia

Chiunque oggi attraversi la Bassa Atesina tra Bolzano e Trento incontra un territorio quasi interamente destinato alla coltivazione intensiva di mele o uva. Ma non è stato sempre così. Per molto tempo – e parliamo di migliaia di anni – la valle era occupata soprattutto dall’alveo esteso del fiume, da una fitta boscaglia e da un’ampia distesa di terreni incolti o utilizzati come pascolo.

Il godimento collettivo del territorio ovvero i cosiddetti usi civici come pascolatico, erbatico, caccia, legnatico e altri era definito “Allmende” o “Gemein” ed era tradizionalmente riservato da tempi remotissimi a tutti cittadini residenti in un determinato comune. I comuni di Caldaro, Termeno e Cortaccia, i cui diritti di fruizione del “Moos” risalirebbero addirittura al vescovo trentino S. Vigilio, erano comproprietari delle ampie paludi attorno e a sud del lago di Caldaro nella misura di metà quello di Caldaro e di un quarto ciascuno gli altri due.
Il primo regolamento scritto riguardante l’utilizzo di questi terreni incolti risale al 1534. Ovviamente regolamentava i diritti e doveri dei singoli comuni e nello stesso tempo serviva a prevenire i continui contenziosi o le piccole baruffe tra contadini che si contendevano il fieno per le bestie o la legna da ardere. Una modifica introdotta nel 1688 proibì addirittura ai contadini di recarsi – come probabilmente accadeva – nei campi armati di pistole, sciabole, pugnali o altre armi.
Era invece consentita l’attrezzatura indispensabile per il lavoro come falce e rastrello o, nel caso di taglio di piante, delle asce o seghe. Inoltre era assolutamente vietato riunirsi in “compagnie” di più di due uomini per volta, ciascuno con una sola falce onde evitare provocazioni, discussioni troppo accese e scontri armati.
Problemi nascevano anche tra usi civici del Gemein e i proprietari privati di terreni quali nobili, conventi o grandi possidenti. In particolare era interdetto a questi ultimi di “allargare” arbitrariamente i confini dei propri appezzamenti con recinzioni erette di sotterfugio o piantumazione di vigne sui terreni del Gemein, pena la rimozione forzata.
Il cambiamento è avvenuto grazie alle copiose opere di bonifica effettuate a partire dal XVIII secolo dapprima nella zona di Bolzano denominata “Neufeld” e quindi anche in tutti i comuni della Bassa Atesina fino a Kronmetz / Mezzocorona. Sia la regolazione del corso dell’Adige che la realizzazione di grandi fossati capaci di “drenare” i terreni hanno permesso ai comuni di recuperare i terreni coltivabili da assegnare soprattutto alle famiglie meno abbienti.
Il concetto teresiano di riforma agraria prevedeva proprio la piccola proprietà diffusa come mezzo per combattere la povertà e la fame. Ovviamente non tutti erano felici di queste scelte “sociali”: in particolare i grandi latifondisti e signori feudali che storicamente “occupavano” la parte migliore e coltivabile della valle temevano la concorrenza e l’invadenza dei piccoli coltivatori diretti. Il valore dei loro terreni rischiava di scendere notevolmente.
Anche i pastori e allevatori non vedevano di buon occhio le bonifiche e assegnazioni. Ciò nonostante, la politica di Maria Teresa si impose e i comuni, che di fatto erano i proprietari delle centinaia di ettari di campi bonificati, iniziarono a “spartire” (da qui il nome Part o, in tedesco, Toaler, come per esempio nel comune di Laives) tra i contadini dei paesi dei piccoli appezzamenti di terra che garantissero una sorta di minimo vitale alle famiglie.
Nella distribuzione della terra si teneva conto delle sue dimensioni ma anche della sua qualità. Chi riceveva un campo qualitativamente buono a volto si doveva accontentare di una metratura minore, chi invece accettava terreni meni appetibili in compenso poteva godere di qualche metro quadro in più.

Autore: Reinhard Christanell

I confini linguistici nella Bassa Atesina

La storia dell’umanità è, per certi versi, una storia di confini. Confini collettivi e privati, politici e linguistici. Confini imposti e, nello stesso tempo, minacciati o violati. Anche la cosiddetta “privacy” altro non è che un confine tra le singole persone. E un confine rappresenta la “Heimat”, il luogo ideale in cui “confinare” la propria individualità. 

Ma come nascono i confini? Quelli politici, si sa, quasi sempre in seguito a conflitti, raramente grazie a pacifici accordi. Più complessa è la questione dei confini linguistici o culturali. Infatti, se è abbastanza semplice fissare o spostare una linea immaginaria su una carta geografica, è più difficile popolare in modo omogeneo un territorio o sradicare persone, famiglie, comunità dai luoghi dove risiedono da decenni, a volte da secoli. Perciò lo spostamento di un confine linguistico non è quasi mai repentino ma frutto di un processo lento, spesso irriconoscibile. 

Un esempio in tal senso è la storia della Bassa Atesina, territorio tra Bolzano e Trento schiacciato da un millennio e mezzo tra due grandi culture e realtà linguistiche: quella tedesca e quella italiana. In questi pochi chilometri di spazio che funge, in certo qual modo, da confine “liquido” e cerniera nel corso dei secoli le linee di demarcazione linguistiche, indipendentemente da quelle politiche mutate più volte, si sono spostate quasi impercettibilmente da sud verso nord.

Il punto di partenza “storico” è il periodo di occupazione romana, in cui tutto il territorio dell’odierno Trentino-Alto Adige era parte integrante dell’impero – anche da un punto di vista linguistico. 

Certo anche allora erano ancora presenti isole linguistiche riferibili alle vecchie popolazioni retiche ma non si può comunque parlare di un vero e proprio confine linguistico come si è formato in seguito.

Dopo la scomparsa dei Romani, abbiamo assistito all’arrivo delle popolazioni germaniche: Franchi, Longobardi e Bavari.

Specialmente le ultime due hanno determinato la divisione sistematica di un territorio prima unitario: a nord, appena sotto Bolzano o Laives, i Bavari, a sud i Longobardi. In un articolo apparso sul periodico Schlern nel 1949, lo storico Otto Stolz ha tracciato bene le linee principali della “separazione” territoriale e linguistica della regione partendo proprio dai confini imposti da queste due popolazioni nell’VIII e IX secolo. Da un punto di vista politico non è del tutto chiaro dove corressero i confini in Val d’Adige, a quanto pare piuttosto “ballerini”. 

Da quello linguistico, tutta la Bassa Atesina risultò a lungo influenzata dal precedente periodo romano progressivamente soppiantato dall’insediamento dei Longobardi romanizzati e soprattutto dai coloni bavari. Nel 1027 le contee di Trento e Bolzano passarono al principe-vescovo di Trento e in quel periodo Bolzano faceva parte del ducato bavaro. Nel 1305 il re tedesco Albrecht I affidò ai conti del Tirolo la sovranità doganale fino ai confini  politici – e probabilmente linguistici – contraddistinti dal torrente Efeis (oggi Avisio). 

È verosimile che il territorio al di là dell’Avisio venisse considerato “welsch” ossia di cultura italiana, quello al di qua tedesco  –  benché politicamente anche Trento facesse parte dello stesso regno di Bolzano. Nella vecchia pretura di Königsberg con i comuni Nefis (oggi Lavis), Pressan (Pressano), Faid (Faedo), Jaufen (Giovo) e St. Michael (San Michele) i toponimi e i cognomi delle famiglie ricordano ancora la loro origine tedesca. 

Anche tra le vecchie preture di Kron- o Deutschmetz (Mezzocorona o Mezzo Tedesco)  da un lato e di Welschmetz o Merzzolombardo dall’altro possiamo trovare tracce univoche di un’antica linea di confine linguistico. Nel XVI secolo,  Marx Sittich von Wolkenstein parla già di “welsches Volk nach Sprach und Sitten“ (popolazione italiana per lingua e usanze) con riferimento a Königsberg, mentre dice “alles teitsch Volk” per quanto riguarda le vicine Salorno e Cortaccia. Probabilmente in quei due o tre secoli è avvenuto un significativo spostamento del confine linguistico verso nord, fermandosi poi fino ai nostri tempi all’altezza di Salorno. 

Scrisse infatti Denis Diderot a proposito di Salorno: “Un gros bourg aux confins d’Alemagne et d’Italie dans le Tyrol, dont il fait la séparation“. Quello di Salorno si è rivelato un confine “resistente”, tanto che sia Napoleone, sia il regime fascista qualche decennio più tardi, pur scompaginando i confini politici regionali, non riuscirono a scalfire la solidità linguistico-culturale della Bassa Atesina.

Autore: Reinhard Christanell