I nomi antichi della Val D’Adige

La toponomastica è da decenni uno dei temi più controversi nella nostra provincia. A ben guardare, non ci sarebbe nessun motivo per tanto fervore poiché la gran parte dei toponimi locali neppure ci appartiene. Moltissimi derivano da lingue estinte e popoli scomparsi da secoli o addirittura millenni e ci sono ignoti i loro reali significati. Per rimanere nell’ambito dei fiumi, di cui ci occupiamo in questa sede, i cui nomi sono i più antichi in assoluto e spesso risalgono addirittura a un’epoca preindoeuropea, chi conosce il significato dei nomi dei maggiori corsi d’acqua che attraversano le nostre valli come Adige, Isarco, Rienza, Talvera, Passirio? 

L’Adige è il fiume più importante dell’Alto Adige. Strabone, storico e geografo greco vissuto all’epoca di Cristo, lo chiamava Athesinos e credeva che sorgesse da un non meglio precisato lago alpino-appenninico (le Alpi rimasero terra sconosciuta fino all’epoca augustea) e sfociasse, dopo aver accolto le acque dell’Ategis (Isarco), nel mare Adriatico. È singolare la somiglianza del nome dei due fiumi che si incontrano tra Bolzano e Laives. 

In realtà non è l’Athesinos, fino al punto di confluenza il meno lungo, ad accogliere l’Ategis, ma il contrario: ragion per cui diversi autori ritengono che in origine il corso d’acqua che oggi attraversa la Bassa Atesina si chiamasse Isarco e solo in un secondo momento il nome del fiume, che probabilmente in terra veneta portava un altro nome, divenne quello di Athesinos per tutta la sua lunghezza. 

L’etimologia esatta dei due nomi non è chiara, anche se alla loro base troviamo la radice proto-indogermanica “adro-“, corso d’acqua, acqua corrente. La forma tedesca del nome risale all’alto medioevo e deriva dalla zona di Bolzano e non dalla Bassa Atesina, dove la lingua parlata era ancora quella romanza. La lettera A si trasformò in E e divenne Etisa, poi mutata in Etse, Etsche e infine Etsch. 

In Bassa Atesina rimase invece a lungo presente la forma Adesch, tuttora in uso nelle valli ladine con Ladesch per definire sia l’Adige che l’Isarco. Ancora oggi la parlata trentina della Bassa Atesina conosce e utilizza prevalentemente questo nome. 

Il nome tedesco Etisa, sorto con la colonizzazione bavara della zona di Bolzano, è documentato in Bassa Atesina a partire dal XII secolo, quando la lingua romanza arretra fortemente e con l’arrivo dei coloni germanofoni va a sparire del tutto. 

Singolare è anche il fatto che l’Adige non diede subito il nome alla valle che attraversa, come invece è il caso dell’Inn in Tirolo. Non si parla di Val d’Adige / Etschtal prima del XVIII secolo. La parte superiore della valle dell’Adige porta da sempre il nome di Vallis Venusta, dal popolo retico che la abitava. 

Dall’XI secolo appare anche il nome tedesco di Finsgowe, poi Vinschew, Vintscheu, Vintschga e Vintschgau. Da Merano in giù la valle era denominata Vallis Tridentina fino al XII secolo. Anche i Tridentini erano un popolo retico insediato probabilmente in parte di questo territorio e fino a Trento. Persa la memoria dei vecchi Tridentini, la valle dell’Adige iniziò lentamente a ricordarsi del proprio fiume. Non comparve tuttavia la definizione valle / Tal come la conosciamo oggi ma la forma Longum Athesis, che si potrebbe tradurre come “Lungo-Adige” o terra lungo l’Adige. Qualche documento riporta anche la forma Longiatesis teotonicum, Lungadige tedesco, oppure terra Athesis e circa o apud Athesim. 

Il termine Unterland è inizialmente riferito alla zona tra Merano e Terlano. Soltanto a partire dal XIX secolo viene assegnata al territorio a sud di Bolzano, che dal XVI secolo veniva definito “Oberes und Unteres Etschviertel”, quartiere all’Adige di sopra e di sotto. 

L’Ategis di Strabone, ovvero l’Isargus / Isarcus romano, da cui prese il nome il popolo degli Isarci, che con i Tridentini si dividevano il territorio dell’odierna Bassa Atesina, prende probabilmente il suo nome dalla radice “is-“ come i fiumi Isar, Isere e Ister, il cui significato dovrebbe essere quello di acqua rapida, tumultuosa. In tedesco il latino Isarcus divenne, dopo il XII secolo, Ysages, Ysac e Isach, poi dopo il XIII secolo Eysach e finalmente Eisack.

Autore: Reinhard Christanell

L’importanza dei ponti sull’Adige

Pons Drusi è i primo nome noto dell’odierna Bolzano. Dove esattamente si trovasse questo strategico ponte romano che permise la conquista della piana bolzanina non si sa, ma certo è che il toponimo la dice lunga sull’importanza  dei ponti in questo territorio attraversato da molti corsi d’acqua. 

Prima che iniziasse la sistematica costruzione dei ponti in legno, cemento o ferro, attraversare i grandi fiumi, torrenti e ruscelli non era impresa semplice. Zattere, barche e traghetti più o meno improvvisati, più o meno sicuri trasportavano merci e persone da un argine all’altro, da un approdo a quello successivo. 

In un documento del 1300 appare la dicitura “vadum seu portum in Sacco” ossia guado o magazzino a Sacco (Rovereto) per indicare il luogo dove un traghetto permetteva di passare il fiume. Invece la vecchia parole tedesca per traghetto è “urvar”, per cui abbiamo un maso Urfar a Vadena e località denominate Urfar di sopra o di sotto tra Vadena e Ora. 

In periodi di secca e con acque particolarmente calme, i traghetti si muovevano liberamente sul fiume, in altri dovevano essere fissati a una fune stesa tra una riva e l’altra per non essere trascinati a valle dalla corrente. Era quest’ultimo il caso dell’Urfar di Vadena e dell’Urfar di Gmund / Monte tra Ora e Termeno. Ancora nel 1574 il titolare di quest’ultimo, Augustin Pergomes, chiese al governo di Vienna la costruzione di un ponte vero e proprio al posto del traghetto troppo pericoloso, richiesta alla quale si oppose strenuamente il vicino comune di Egna che già disponeva del suo ponte.

In un atto del 1235 viene citato un “pons de navi” preso l’Adige. Non si tratta di un ponte vero e proprio ma di un traghetto di proprietà del vescovo di Tento in località Schefbrugg, in italiano Nave San Felice. Tra il 1818 e il 1840 sono noti diversi ponti di barche chiamati “porti”.

L’aumento del traffico commerciale tra Bolzano, Egna e Trento richiese la graduale sostituzione dei traghetti con ponti. I vecchi ponti romani in questa zona erano di legno per cui non si sono conservati. Il ponte più antico di cui si abbia notizia è quello che attraversa il Passirio a Merano e risale all’anno 800. Ma è tra il 1150 e il 1200 che inizia un’intensa attività di costruzione di ponti sia sull’Adige che sull’Isarco. Tra il 1200 e il 1350 furono realizzati il ponte di Egna e il ponte Talvera a Bolzano. Se un tempo era prevalente l’utilizzo del legno, a partire dal XIX secolo i ponti furono costruiti in pietra, calcestruzzo o ferro. Per la costruzione dei ponti venivano impegnati fondi dei comuni e dei proprietari dei terreni adiacenti, che erano obbligati a fornire il legname o pagare importi equivalenti. Chi transitava sul ponte era tenuto a pagare un pedaggio per sé, eventuali carri e capi di bestiame.

Tra i ponti più noti tra Bolzano e la Bassa Atesina vi sono quelli di Castel Firmiano o Formigar, come veniva chiamato prima del XV secolo. 

Era di proprietà del vescovo di Trento e venne citato per la prima volta nel 1216, quando “in capite pontis Formiani” ebbe luogo una riunione tra nobili della zona. Ancora nel 1181 e nel 1185 si parla invece di “vadum de cuvalo apud flumen Athesis subtus Formicarum” e “ad vadum de Formeiano”, che ci indicano che ancora non c’era il ponte ma un traghetto. Allo stesso periodo risale il ponte sull’Isarco sempre a Bolzano, chiamato anche ponte di Bolzano e poi Loreto. Potrebbe essere sorto qui il primo ponte di Druso che diede il nome alla città.

8 chilometri a sud di Formigar si trova Vadena, dove dal XIV secolo si parla di un Urfar. Un “vadum de Mazoco” (Caldaro/Termeno) è citato verso il 1200. Con la costruzione della ferrovia venne realizzato un ponte a Gmund/Monte. A Egna il primo ponte risale al 1305. A Salorno il ponte sull’Adige esiste dal XIV secolo. Sotto Salorno, a parte Trento, esistevano solo traghetti: Nave San Felice, Calliano, Rovereto, Mori, Serravalle, Ala e Avio. A Nevis / Lavis esisteva tuttavia un ponte sull’Avisio / Efeis dal 1202. 

Autore: Reinhard Christanell

L’Allmende tra Caldaro e Cortaccia

Chiunque oggi attraversi la Bassa Atesina tra Bolzano e Trento incontra un territorio quasi interamente destinato alla coltivazione intensiva di mele o uva. Ma non è stato sempre così. Per molto tempo – e parliamo di migliaia di anni – la valle era occupata soprattutto dall’alveo esteso del fiume, da una fitta boscaglia e da un’ampia distesa di terreni incolti o utilizzati come pascolo.

Il godimento collettivo del territorio ovvero i cosiddetti usi civici come pascolatico, erbatico, caccia, legnatico e altri era definito “Allmende” o “Gemein” ed era tradizionalmente riservato da tempi remotissimi a tutti cittadini residenti in un determinato comune. I comuni di Caldaro, Termeno e Cortaccia, i cui diritti di fruizione del “Moos” risalirebbero addirittura al vescovo trentino S. Vigilio, erano comproprietari delle ampie paludi attorno e a sud del lago di Caldaro nella misura di metà quello di Caldaro e di un quarto ciascuno gli altri due.
Il primo regolamento scritto riguardante l’utilizzo di questi terreni incolti risale al 1534. Ovviamente regolamentava i diritti e doveri dei singoli comuni e nello stesso tempo serviva a prevenire i continui contenziosi o le piccole baruffe tra contadini che si contendevano il fieno per le bestie o la legna da ardere. Una modifica introdotta nel 1688 proibì addirittura ai contadini di recarsi – come probabilmente accadeva – nei campi armati di pistole, sciabole, pugnali o altre armi.
Era invece consentita l’attrezzatura indispensabile per il lavoro come falce e rastrello o, nel caso di taglio di piante, delle asce o seghe. Inoltre era assolutamente vietato riunirsi in “compagnie” di più di due uomini per volta, ciascuno con una sola falce onde evitare provocazioni, discussioni troppo accese e scontri armati.
Problemi nascevano anche tra usi civici del Gemein e i proprietari privati di terreni quali nobili, conventi o grandi possidenti. In particolare era interdetto a questi ultimi di “allargare” arbitrariamente i confini dei propri appezzamenti con recinzioni erette di sotterfugio o piantumazione di vigne sui terreni del Gemein, pena la rimozione forzata.
Il cambiamento è avvenuto grazie alle copiose opere di bonifica effettuate a partire dal XVIII secolo dapprima nella zona di Bolzano denominata “Neufeld” e quindi anche in tutti i comuni della Bassa Atesina fino a Kronmetz / Mezzocorona. Sia la regolazione del corso dell’Adige che la realizzazione di grandi fossati capaci di “drenare” i terreni hanno permesso ai comuni di recuperare i terreni coltivabili da assegnare soprattutto alle famiglie meno abbienti.
Il concetto teresiano di riforma agraria prevedeva proprio la piccola proprietà diffusa come mezzo per combattere la povertà e la fame. Ovviamente non tutti erano felici di queste scelte “sociali”: in particolare i grandi latifondisti e signori feudali che storicamente “occupavano” la parte migliore e coltivabile della valle temevano la concorrenza e l’invadenza dei piccoli coltivatori diretti. Il valore dei loro terreni rischiava di scendere notevolmente.
Anche i pastori e allevatori non vedevano di buon occhio le bonifiche e assegnazioni. Ciò nonostante, la politica di Maria Teresa si impose e i comuni, che di fatto erano i proprietari delle centinaia di ettari di campi bonificati, iniziarono a “spartire” (da qui il nome Part o, in tedesco, Toaler, come per esempio nel comune di Laives) tra i contadini dei paesi dei piccoli appezzamenti di terra che garantissero una sorta di minimo vitale alle famiglie.
Nella distribuzione della terra si teneva conto delle sue dimensioni ma anche della sua qualità. Chi riceveva un campo qualitativamente buono a volto si doveva accontentare di una metratura minore, chi invece accettava terreni meni appetibili in compenso poteva godere di qualche metro quadro in più.

Autore: Reinhard Christanell

I confini linguistici nella Bassa Atesina

La storia dell’umanità è, per certi versi, una storia di confini. Confini collettivi e privati, politici e linguistici. Confini imposti e, nello stesso tempo, minacciati o violati. Anche la cosiddetta “privacy” altro non è che un confine tra le singole persone. E un confine rappresenta la “Heimat”, il luogo ideale in cui “confinare” la propria individualità. 

Ma come nascono i confini? Quelli politici, si sa, quasi sempre in seguito a conflitti, raramente grazie a pacifici accordi. Più complessa è la questione dei confini linguistici o culturali. Infatti, se è abbastanza semplice fissare o spostare una linea immaginaria su una carta geografica, è più difficile popolare in modo omogeneo un territorio o sradicare persone, famiglie, comunità dai luoghi dove risiedono da decenni, a volte da secoli. Perciò lo spostamento di un confine linguistico non è quasi mai repentino ma frutto di un processo lento, spesso irriconoscibile. 

Un esempio in tal senso è la storia della Bassa Atesina, territorio tra Bolzano e Trento schiacciato da un millennio e mezzo tra due grandi culture e realtà linguistiche: quella tedesca e quella italiana. In questi pochi chilometri di spazio che funge, in certo qual modo, da confine “liquido” e cerniera nel corso dei secoli le linee di demarcazione linguistiche, indipendentemente da quelle politiche mutate più volte, si sono spostate quasi impercettibilmente da sud verso nord.

Il punto di partenza “storico” è il periodo di occupazione romana, in cui tutto il territorio dell’odierno Trentino-Alto Adige era parte integrante dell’impero – anche da un punto di vista linguistico. 

Certo anche allora erano ancora presenti isole linguistiche riferibili alle vecchie popolazioni retiche ma non si può comunque parlare di un vero e proprio confine linguistico come si è formato in seguito.

Dopo la scomparsa dei Romani, abbiamo assistito all’arrivo delle popolazioni germaniche: Franchi, Longobardi e Bavari.

Specialmente le ultime due hanno determinato la divisione sistematica di un territorio prima unitario: a nord, appena sotto Bolzano o Laives, i Bavari, a sud i Longobardi. In un articolo apparso sul periodico Schlern nel 1949, lo storico Otto Stolz ha tracciato bene le linee principali della “separazione” territoriale e linguistica della regione partendo proprio dai confini imposti da queste due popolazioni nell’VIII e IX secolo. Da un punto di vista politico non è del tutto chiaro dove corressero i confini in Val d’Adige, a quanto pare piuttosto “ballerini”. 

Da quello linguistico, tutta la Bassa Atesina risultò a lungo influenzata dal precedente periodo romano progressivamente soppiantato dall’insediamento dei Longobardi romanizzati e soprattutto dai coloni bavari. Nel 1027 le contee di Trento e Bolzano passarono al principe-vescovo di Trento e in quel periodo Bolzano faceva parte del ducato bavaro. Nel 1305 il re tedesco Albrecht I affidò ai conti del Tirolo la sovranità doganale fino ai confini  politici – e probabilmente linguistici – contraddistinti dal torrente Efeis (oggi Avisio). 

È verosimile che il territorio al di là dell’Avisio venisse considerato “welsch” ossia di cultura italiana, quello al di qua tedesco  –  benché politicamente anche Trento facesse parte dello stesso regno di Bolzano. Nella vecchia pretura di Königsberg con i comuni Nefis (oggi Lavis), Pressan (Pressano), Faid (Faedo), Jaufen (Giovo) e St. Michael (San Michele) i toponimi e i cognomi delle famiglie ricordano ancora la loro origine tedesca. 

Anche tra le vecchie preture di Kron- o Deutschmetz (Mezzocorona o Mezzo Tedesco)  da un lato e di Welschmetz o Merzzolombardo dall’altro possiamo trovare tracce univoche di un’antica linea di confine linguistico. Nel XVI secolo,  Marx Sittich von Wolkenstein parla già di “welsches Volk nach Sprach und Sitten“ (popolazione italiana per lingua e usanze) con riferimento a Königsberg, mentre dice “alles teitsch Volk” per quanto riguarda le vicine Salorno e Cortaccia. Probabilmente in quei due o tre secoli è avvenuto un significativo spostamento del confine linguistico verso nord, fermandosi poi fino ai nostri tempi all’altezza di Salorno. 

Scrisse infatti Denis Diderot a proposito di Salorno: “Un gros bourg aux confins d’Alemagne et d’Italie dans le Tyrol, dont il fait la séparation“. Quello di Salorno si è rivelato un confine “resistente”, tanto che sia Napoleone, sia il regime fascista qualche decennio più tardi, pur scompaginando i confini politici regionali, non riuscirono a scalfire la solidità linguistico-culturale della Bassa Atesina.

Autore: Reinhard Christanell

Le grandi bonifiche del XVIII secolo

Tra il XV e il XVII secolo la vita in Bassa Atesina si era resa particolarmente difficoltosa. La popolazione era in costante calo e le condizioni ambientali avverse dovute specialmente alle distese di paludi e acquitrini creati dalle acque stagnanti dell’Adige avevano prostrato nel fisico e nel morale i contadini dei paesi lungo l’asse del fiume. In particolare la malaria non dava tregua agli abitanti e d’estate era quasi impossibile soggiornare in valle. Nacque proprio in quel periodo, per chi poteva permettersela, l’usanza dei “freschi” estivi, ossia dei soggiorni in altura per sfuggire la calura e le insidie del fondovalle.

Poi, negli ultimi decenni del 1700, dietro insistenza dei comuni interessati e su impulso dell’imperatrice asburgica Maria Teresa, furono finalmente bonificati e assegnati ai piccoli coltivatori molti terreni paludosi della Val d’Adige, fino a quel momento tradizionalmente di proprietà collettiva (Gemain) delle comunità. Per secoli vi si era praticato solo il pascolo, prevalentemente di ovini, e raccolto paglia e fieno per le esigenze domestiche. Qualche sparuto tentativo di utilizzo agricolo era stato effettuato a partire dal XIII secolo da parte di alcuni conventi o grandi proprietari terrieri ma la spada di Damocle delle continue alluvioni scoraggiava i contadini dall’avviare laboriose e costose opere di coltivazione.

Le bonifiche, di fatto anteriori ai grandi interventi di regolazione dell’alveo dell’Adige terminati in concomitanza con la realizzazione della linea ferroviaria tra Bolzano e Verona, interessarono dapprima piccoli lotti di terreni prossimi ai conoidi alluvionali che ospitavano i paesi della Bassa. 

Poi, con la realizzazione di alcuni grandi fossati di raccolta delle acque da incanalate verso l’Adige, fu possibile acquisire sempre nuovi terreni coltivabili  a sud di Bolzano, tra Laives e Ora e, in particolari, nei comuni di Caldaro, Termeno e Cortaccia. 

In tal senso, la realizzazione della Fossa Grande di Caldaro fu un evento di portata storica che impiegò centinaia di uomini. Nel 1769 alcun comuni come Caldaro, Termeno, Caldiff-Enn, Magrè, Cortaccia, Koenigsberg e Kronmetz (Mezzocorona) comunicarono al “Gubernium” di Innsbruck la propria intenzione di procedere “senza ulteriori  perdite di tempo” con gli interventi di bonifica. L’idea principale era quella di realizzare un grande fossato dal lago di Caldaro fino a Salorno, capace di convogliare le acque stagnanti nell’Adige e quindi drenare il terreno. Poiché non tutti e per vari interessi anche spiccioli (l’aumento di terreni coltivabili ne avrebbe diminuito il valore di mercato) erano convinti dell’impresa, il governo affidò a  Michael von Conforti l’incarico di ripartire i terreni da bonificare tra i richiedenti tenendo conto non solo della dimensione ma anche della qualità dei lotti. Si trattava di ca. 1500 ettari di terreno da suddividere tra Caldaro (la metà) e Termeno e Cortaccia (un quarto ciascuno).

Il progetto per la realizzazione della Fossa fu affidato all’ingegnere bolzanino Josef Peter von Zallinger e nel 1774 iniziarono i lavori. Il canale fu ultimato nel 1777, ma in precedenza i comuni di Salorno e Mezzocorona avevano temporaneamente bloccato i lavori per il timore “che l’intero lago di Caldaro si riversasse nelle loro campagne”. Visto il successo del canale, l’anno successivo si iniziarono i lavori per un secondo canale, capace di raccogliere le acque tra Termeno e Magrè. Alcuni anni dopo, il canale fu prolungato fino a San Michele ma una soluzione definitiva ai problemi di scorrimento delle acque fu trovata solo nel 1853, quando fu finalmente risolto l’annoso problema del Noce che, apportando grandi masse di materiale dalla Val di Non, impediva il regolare deflusso delle acque dei canali e dell’Adige stesso. 

Un ulteriore canale fu poi realizzato nel 1779 tra Laghetti e Salorno, denominato Lutterotti-Graben, e nello stesso anno fu realizzato il collegamento tra la Fossa di Bronzolo e Ora. Seguì nel 1853 la Fossa tra Vadena e Laimburg. Nel 1845 fu realizzato un analogo canale tra Nalles, Andriano e Appiano, sicché l’intera Bassa Atesina a quel punto si poteva ritenere bonificata e coltivabile.

Autore: Reinhard Christanell

La “vacca” di Caldaro, il treno della Bassa

Tra la fine del XIX e il primo decennio del XX secolo furono realizzate in tutto il Tirolo diverse linee ferroviarie “secondarie” poi frettolosamente smantellate nel secondo dopoguerra e oggi rimpiante da tutti. Tra le più importanti si ricorda il collegamento Bolzano-Renon, la Dermulo – Fondo – Mendola, la funicolare della Mendola e, soprattutto, la ferrovia elettrica transatesina a scartamento normale tra Bolzano – Gries e Caldaro.

Quest’ultima fu inaugurata il 15 dicembre 1898, dopo oltre un decennio di lavori preparatori. La nuova ferrovia dell’Oltradige o Überetscherbahn nel gergo popolare era chiamata Lepsbahnl (dalla bevanda denominata Leps, bevuta dai contadini nei campi), poiché trasportava soprattutto il vino prodotto in zona verso lo snodo ferroviario di Bolzano, o la vacca di Caldaro, per quel suo andamento lento e ondeggiante simile a quello dei pacifici ruminanti. Sarebbe rimasta in funzione fino al 1963 per quanto riguarda il trasporto di persone (ne potevano salire fino a 75), fino al 1971 per il servizio merci. Nel 1903 fu realizzato anche il collegamento tra la stazione di Caldaro e Sant’Antonio, dove si trovava la stazione a valle della spettacolare funicolare della Mendola. Proprio quest’opera favorì la nascita dell’importante movimento turistico che interessò il Passo della Mendola in quel periodo. Non fu invece mai completato il collegamento inizialmente previsto con Termeno ed Egna.

Si realizzò così un sogno lungamente covato dagli agricoltori a dagli operatori turistici dell’Oltradige. Il collegamento alla rete ferroviaria nazionale e internazionale permise per la prima volta il superamento del laborioso trasporto dei prodotti agricoli – soprattutto vino e mais –  con carri trainati da buoi e inoltre favorì decisamente l’afflusso di turisti verso le amene località tra S. Paolo, il Lago di Caldaro e la Mendola. Numerosi alberghi e posti di ristoro sorsero proprio lungo la linea ferroviaria e nella bella stagione mezza Bolzano si trasferiva in Oltradige.

Il percorso del treno era non solo funzionale alle esigenze degli abitanti di Appiano e Caldaro ma anche grandioso da un punto di vista paesaggistico. Oggi il tracciato è interamente occupato da una frequentatissima pista ciclabile che circumnaviga il Monte di Mezzo con partenza e arrivo sotto Castel Firmiano. I cicloamatori contemporanei lo chiamano il giro delle Fiandre. Nel suo tratto iniziale, il treno sfruttava la già esistente linea di Merano, poi da Castel Firmano iniziavano i 10,742 km di salita fino ad Appiano e pianura fino a Caldaro. Velocità massima in pianura 45 km all’ora, in salita 30. Complessivamente la linea aveva una lunghezza di 14,974 km, ai quali si aggiunsero i 2,4 ripidissimi chilometri da Caldaro alla funicolare della Mendola. 

Partito da Bolzano, il treno si fermava a Ponte Roma, Ponte Resia, Kaiserau, Castel Firmiano, S. Paolo, Appiano, Monticolo-Pianizza e Caldaro. Nella sua corsa – inizialmente e fino al 1911 con pittoresca locomotiva a vapore, quindi con locomotori elettrici  – il treno doveva oltrepassare due ponti sul Talvera e sull’Adige e due gallerie: la prima sotto Castel Firmiano, la seconda all’altezza di San Paolo. Il breve tratto all’interno dell’abitato di Caldaro fu elettrificato fin dall’origine ed anche la funicolare che raggiungeva il Passo della Mendola fruiva della trazione a corrente elettrica.

L’opera fu “sponsorizzata” dai comuni interessati e in particolare da quello di Caldaro con il sindaco Andreas Di Pauli. Il finanziamento fu invece garantito dal banchiere bolzanino Sigismund Schwarz, che favorì la nascita della Aktiengesellschaft Überetscherbahn  (Società per azioni Ferrovia dell’Oltradige) con sede a Bolzano. La realizzazione dell’opera fu affidata alla ditta Stern & Hafferl per un costo complessivo di 2,5 milioni di Corone. La gestione fu inizialmente assegnata alla società privata “k.k. Südbahngesellschaft”, alla quale, dopo il passaggio dell’Alto Adige all’Italia, subentrarono le FF.SS. Negli ultimi anni gestì la linea la Überetscherbahn AG.

Autore: Reinhard Christanell

Le vecchie strade della Bassa Atesina

Tutte le strade portano a Roma, si diceva un tempo. Forse era un’esagerazione ma è un dato di fatto che le pietre miliari lungo i 100.000 chilometri di rete stradale lastricata indicavano la distanza dal cosiddetto miliario aureo del Foro romano. 

Tra le tre meraviglie dell’era romana citate da Plinio il Vecchio le strade stanno al primo posto. Le altre due sono gli acquedotti e le cloache. A dire il vero, le strade extraurbane si chiamavano viae mentre con il termine “strata” (fatta a strati) si indicavano quelle nei centri urbani. Oggi la maggior parte di queste strade sono scomparse, hanno preso altri nomi o seguono tracciati diversi che ne rendono complicata la localizzazione. I vecchi percorsi rimangono nella memoria collettiva come “strada vecchia” o, appunto, strada “romana”. 

È sorprendente con quale velocità scompaiano le strade abbandonate, tanto che già dopo pochi anni è difficile riconoscerne il percorso. Se volessimo ricostruire la rete stradale che nei secoli attraversò la Bassa Atesina, dovremmo andare alla ricerca di alcuni elementi che solitamente caratterizzano la presenza di una vecchia strada: pietre miliari, ponti, capitelli. Sappiamo per esempio che al tempo di Augusto una strada di grande importanza, la Via Claudia Augusta, attraversava la Bassa Atesina fino a Ora. Qui, scesa da Castelfeder, dove ancora oggi possiamo ammirarne un breve tratto con una pietra miliare, probabilmente si biforcava: da una parte verso Gmund / Monte attraversando il vecchio rione San Pietro, dove rimane nella memoria il vecchio nome “Strass”, fino all’argine dell’Adige (Urfer), dove un tipico ponte romano di barche e tavole permetteva agli eserciti e ai commercianti l’attraversamento del fiume. Poi la strada proseguiva lungo la valle Lavason fino ad Appiano e Castelfirmiano per imboccare la Val Venosta fino ad Augusta, l’odierna Augsburg. Il tratto forse meno importante e all’epoca ricco di foreste fluviali e paludi proseguiva sotto la montagna in direzione di Bronzolo e Laives, per poi raggiungere Pons Drusi attraverso l’odierno viale Trento e Ponte Loreto. 

Con la crescita dei villaggi della Bassa Atesina tra il XII e il XV secolo, anche la strade, probabilmente abbandonate o trascurate da secoli, si sono adeguate alle nuove esigenze. Lungo le strade si trovavano gli edifici più importanti come chiese, alberghi, magazzini. A Ora sono riconoscibili vari tracciati della “alte Straße”, tutti risalenti all’epoca di espansione medievale della località. Lungo la via principale, raggiunta la piazza centrale (Hotel Elefante) si dirigeva verso l’odierna stazione dove proseguiva in linea retta verso Bronzolo in mezzo alla valle e alla palude. Certo la strada era molto più breve di quelle pedemontane precedenti ma di non semplice manutenzione. Questa strada è anche la prima segnata nel catasto teresiano (1782/85) con il nome di “Landstraße”. Scrive nel 1839 J. Staffler nella sua famosa “Statistik und Topographie von Tirol: “Ancora 42 anni fa la strada tra Bronzolo e Ora di una lunghezza di 300 Klafter correva in mezzo a paludi e acquitrini. Ogni anno doveva essere faticosamente ripulita.” Alcuni decenni dopo, nel 1839, la nuova “Haupt-, Post- und Commerzialstraße” seguiva già il percorso sotto la montagna. Quando fu realizzata non si sa ma un documento del 1821 ci parla di un terreno ubicato presso “la nuova Landstraße”. La costruzione ha sicuramente richiesto anni di lavoro e secondo la leggenda Andreas Hofer nella sua marcia verso Mantova avrebbe percorso ancora la vecchia strada attraverso le paludi. Solo nel 1850 fu realizzato il rettilineo tra l’Hotel Elefante e la chiesa di San Pietro. Era stranamente l’epoca in cui si portavano le grandi arterie nel luogo più centrale del paese, tranciando in due poderi e vigneti. La stessa cosa avvenne a Laives, dove il vecchio precorso attraverso le vie Damiano Chiesa e Marconi fu abbandonato a favore del lungo rettilineo che ancora oggi attraversa il paese. 

Per quasi 150 la strada è rimasta invariata, salvi gli adeguamenti avvenuti a partire dagli anni ‘60 che hanno portato alla situazione odierna con circonvallazione e gallerie per riportare fuori dai centri urbani le strade di grande percorrenza.

Autore: Reinhard Christanell

Fräulein Lea, l’anima di Fontanefredde

Tra i personaggi vissuti in Bassa Atesina, un posto di riguardo spetta alla scrittrice Lea Selm. Il suo nome è indissolubilmente legato alla minuscola località di Fontanefredde / Kaltenbrunn, frazione del Comune di Trodena. Fontanefredde, come scrisse la stessa Selm, non può vantare una grande storia e per molto tempo la sua esistenza si basò esclusivamente su una sorgente utilizzata dai carrettieri che transitavano sull’odierna strada statale 48 della Val di Fiemme per abbeverare cavalli e buoi.

Dopo l’ampliamento della strada, nel 1860 venne costruito accanto alla sorgente un albergo con stazione postale. L’iniziativa era stata di Giuseppe Rizzoli di Cavalese, che oltre all’albergo aveva intenzione di fondare un birrificio. In effetti, nel 1863 il birrificio iniziò la sua produzione che durò fino al termine della prima guerra mondiale.  Più tardi, Fontanefredde si arricchì di una stazione ferroviaria, di una scuola e anche di una chiesetta. Nel vecchio albergo venne sistemato un negozio di generi misti e, molto più tardi, un distributore di benzina. 

In questo luogo visse e operò per buona parte della sua vita Lea Selm, autrice di molti testi poetici e in prosa. La sua è una storia assai singolare. Nacque il 19 gennaio 1883 a Montagna, nella casa del nonno materno Martin Selm, fabbro del paese. Sua madre, Elisabeth Selm, era inserviente presso il castello di Enn e qui conobbe un uomo di origini indiane, a sua volta dipendente del maniero. Dall’unione “clandestina” e per l’epoca oltremodo scandalosa nacque Lea, i cui documenti con riferimento al  padre riportarono sempre la voce “sconosciuto”. Lea Selm non ha mai parlato del misterioso genitore se non per “accusarlo” della sua carnagione scura, di cui da bambina, in un paese di visi pallidi, non poteva che vergognarsi. 

Lea crebbe nella casa del nonno e all’età di 14 anni inizio la sua carriera lavorativa come bambinaia in un maso del luogo. Qui, grazie alla padrona di casa, venne in contatto per la prima volta con la letteratura, che poi avrebbe segnato per sempre la sua esistenza. Karl Felix Wolff, che le fu amico per molti anni, in un suo scritto citò anche alcuni sorprendenti versi dell’allora quindicenne Lea. Altrettanto importante per la crescita umana e letteraria di Lea fu l’incontro con Henriette Schrott, figlia dei proprietari del “Grand Hotel Penegal”. Qui Lea era stata assunta come cucitrice. Anche Henriette era appassionata di poesia e le due giovani donne intrecciarono un’intensa amicizia che durò per tutta la vita. Henriette divenne un’autrice affermata e pubblicò molti romanzi presso grandi editori tedeschi e austriaci. Inoltre, sostenne in tutti i modi l’amica Lea, che di suo aveva frequentato solo le scuole elementari. 

Dopo l’esperienza di Innsbruck al fianco di Henriette, Lea Selm fece domanda di assunzione quale impiegata presso le imperial-regie poste austriache. Dopo la prima guerra mondiale, passò automaticamente alle Poste italiane. Dopo alcune tappe in Val Venosta e a Merano, Lea approdò finalmente a Fontanefredde, sicuramente un luogo in cui regnava una pace e tranquillità invidiabile per l’epoca e ideale per la sua creatività. In quell’idillio silvestre Lea Selm compose molte delle sue opere. Sempre Wolff la chiamò la “Waldsängerin”, o anima di Fontanefredde, giacché  Lea, oltre al suo lavoro di impiegata postale e poetessa, si dedicò con tutte le sue forze alla vita sociale del piccolo borgo, dove tutti la chiamavano Fräulein Lea. Poiché Fontanefredde era sprovvista di una chiesa, si adoperò in prima persona per far erigere la chiesetta di San Giuseppe, inaugurata nel 1940. All’epoca delle opzioni, Lea Selm optò per l’Italia. Come dipendente pubblica fu costretta a iscriversi al Fascio femminile del PNF.  Per 35 anni Lea prestò servizio presso l’ufficio postale di Fontanefredde e anche dopo il suo pensionamento continuò a occupare il suo alloggio nell’edificio postale. 

I suo testi apparvero soprattutto sulla rivista Schlern, a cui iniziò a collaborare nel 1920. Pubblicò anche su numerose altre riviste e si dedicò a lungo alla raccolta e trascrizione di leggende e favole popolari. Rimasero inedite due opere di grande respiro: “Fra Solidarius” e “Auf eigene Faust”. Lea Selm morì il 24 novembre 1977, pochi mesi dopo aver ottenuto la croce al merito del Land Tirol.

Autore: Reinhard Christanell

Il paese di Egna tra Romani e Baiuvari

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la Val d’Adige è rimasta “romanizzata” anche dopo la scomparsa dell’impero romano d’occidente nel V secolo. Se da Bolzano in su avevano lentamente preso piede popolazioni germaniche come i Baiuvari – che poi gradualmente si sarebbero “allargati” anche verso la Bassa Atesina, parte dell’Oltradige e la Piana Rotaliana governati dai Longobardi “trentini” – nella parte meridionale della regione per sei o sette secoli non vi fu un vero e proprio ricambio di popolazione e lingua. 

Proprio la lingua è uno degli elementi cardine per rilevare con relativa certezza il passaggio da un’epoca e da una cultura all’altra. I nomi dei paesi, i microtoponimi, i nomi delle famiglie ci svelano chi fosse la gente insediata in un determinato territorio. 

Questi passaggi sono quasi sempre avvenuti con estrema lentezza e gradualità, nel senso che spesso popolazioni – e lingue – assai diverse condividevano uno spazio comune nel reciproco rispetto o, anche, disinteresse. Era soprattutto la disponibilità di terra da coltivare e di lavoro ad attirare nuove famiglie ed in quel periodo l’economia locale non offriva grandi opportunità.

I Romani, memori delle sanguinose battaglie con le popolazioni retiche, avevano condannato la Bassa Atesina a una situazione piuttosto precaria.

I pochi villaggi vivevano essenzialmente in funzione delle importanti strade di transito come la Claudia Augusta. Perciò anche secoli dopo il ritiro dei Romani i paesi rimasero piccoli e insignificanti e la valle una zona di transito e presidio militare. Dopo l’anno 1000 le cose iniziarono a cambiare piuttosto repentinamente. I nuovi “padroni”, ossia i vescovi trentini, favorirono lo sviluppo del territorio e soprattutto i commerci sia con l’aria germanica sia con l’Italia settentrionale. 

Poiché le strade erano quel che erano, ossia quasi inservibili per gran parte dell’anno, non rimaneva che la risorsa del fiume Adige, navigabile tra Bronzolo e Verona. Già un millennio prima il fiume era stata la via principale degli scambi commerciali tra Etruschi e popolazioni alpine ed il porto principale allora si trovava a sud di Bronzolo in località Laimburg. Qui sorgeva anche un importante emporio commerciale da cui partivano merci di ogni genere e soprattutto prodotti artigianali verso l’Etruria.

Lungo l’Adige, che divenne il motore dello sviluppo economico di un’intera regione, si svilupparono i villaggi, attirando persone da ogni dove e attività utili al sistema economico. Accanto a Bronzolo e in parte Laives, specializzata nel trasporto dei beni tra il fiorente mercato di Bolzano e il porto fluviale, crebbero in maniera significativa Ora e soprattutto un borgo completamente nuovo, fondato proprio dai vescovi trentini: Burgum Novum de Egna. 

Era l’anno 1189 e il fondatore del nuovo borgo nell’antico plebatus, a cui appartenevano Villa, Ora e alcuni masi sparsi, fu il vescovo Corrado di Trento. Egna era il nome del luogo da secoli, di chiara derivazione romanico-latina, e nei primi documenti in lingua tedesca veniva spesso tradotto come Enne o Enn. Nel 1216 Egna appare come importante sede doganale e commerciale sul fiume Adige e nel 1309 le sue prerogative mercantili furono ulteriormente ampliate. Nel 1222 l’Adige distrusse completamente il borgo e i vescovi lo fecero ricostruire sempre con il nome di Burgum Egne, nome che non mutò fino al XV secolo. Ciò conferma che in questa parte della Bassa Atesina era sempre insediata la vecchia popolazione romanica e si parlava un idioma latino volgare simile all’odierno ladino. In diversi documenti del XII e XIII secolo compare anche il nome Enne o Enn, ed è probabile che per alcuni secoli due popolazioni e due lingue coesistessero nel borgo e nelle altre località limitrofe. 

Nel 1260 appare finalmente il nome di Novum Forum, che si potrebbe tradurre con il moderno Neu(er) Markt, fatto che testimonia il graduale passaggio verso una situazione che poi si cristallizzerà definitivamente soltanto nel XV secolo, con la netta prevalenza della popolazione di lingua e tradizioni tedesche. 

Autore: Reinhard Christanell

La lunga strada della Val di Fiemme

La Bassa Atesina come la conosciamo oggi fu “plasmata” principalmente nel XIX secolo da parte dei governanti asburgici. Prima di allora, tolto il lungo periodo romano, che aveva apportato notevoli migliorie alla rete viaria e al sistema idrico, il territorio era sempre stato piuttosto inospitale e, quindi, difficile da percorrere e da abitare. La Bassa Atesina come la conosciamo oggi fu “plasmata” principalmente nel XIX secolo da parte dei governanti asburgici. Prima di allora, tolto il lungo periodo romano, che aveva apportato notevoli migliorie alla rete viaria e al sistema idrico, il territorio era sempre stato piuttosto inospitale e, quindi, difficile da percorrere e da abitare.

Il problema principale del fondovalle era rappresentato dal fiume Adige che lo attraversava e, per così dire, dominava. Questo lungo corso d’acqua, così irregolare e invadente nel suo flusso, ricco di ristagni e laghetti, ramificazioni e periodiche esondazioni, determinava la vita dei pochi abitanti concentrati quasi esclusivamente sui conoidi alluvionali ai margini orientali e occidentali della valle. Fu proprio la necessità di regolare definitivamente il corso del fiume per ridurne la pericolosità a dare il via ai grandi interventi strutturali che modificarono per sempre la fisionomia della valle. Fino ad allora, di vere e proprie strade come le intendiamo oggi non era neppure il caso di parlare e il trasporto di uomini e merci doveva seguire le antiche e impervie vie montane o avvenire sul fiume, quando questo lo permetteva. L’avvento della ferrovia, progettata e poi realizzata a ridosso del fiume, costrinse gli amministratori dell’epoca ad affrontare una volta per tutte il problema Adige e furono quindi avviati e poi conclusi in tempi relativamente celeri i lavori di sistemazione del letto del fiume. A quel punto la strada era aperta per la nuova ferrovia che cambiò radicalmente la situazione viaria dell’intera regione e della valli laterali, prima difficilmente accessibili.

Da secoli, se non da millenni, esistevano sentieri più o meno ampi e battuti, che collegavano gli altipiani e le valli laterali alla Bassa Atesina, da sempre porta commerciale verso la Val Padana e l’Austria e la Germania. Con l’arrivo della ferrovia, la necessità di trasformare questi sentieri in vere e proprie strade si fece più impellente e le vallate temevano per la loro sopravvivenza economica in caso di perdurante isolamento viario. Nacquero in quel periodo importanti collegamenti come la strada della Val d’Ega, che sostituì completamente il secolare percorso tra Laives e Nova Ponente lungo la Vallarsa, e quella che oggi chiamiamo strada delle Dolomiti, ossia il collegamento da Fontanefredde a Ora. La vecchia strada che da San Lugano, un valico già noto nella notte dei tempi e citato per la prima volta in un documento del XIII secolo, portava a Trodena e Gleno per poi scendere verso Ora venne mantenuta ma perse del tutto il suo peso. Più o meno sullo stesso tracciato venne poi realizzata, con l’impiego prevalente di prigionieri di guerra russi e serbi, la linea ferroviaria Predazzo – Ora, in funzione dal 1917 al 1963.

Fu la Magnifica Comunità di Fiemme a volere la nuova strada per collegarsi meglio alla nuova linea ferroviaria e poter portare i propri prodotti, soprattutto legname, sui mercati. Il progetto fu affidato al geometra fiemmese Tomasi, che progettò la strada tra Fontanefredde e Egna. Infatti il tratto tra Montagna e Ora avrebbe richiesto, data la conformazione rocciosa del terreno, interventi difficoltosi e molto costosi nel Monte Cislon. La Comunità avviò lunghe trattative con i comuni di Montagna e Egna per l’acquisto dei terreni necessari alla costruzione della strada. I due comuni opposero strenua resistenza perché la nuova strada avrebbe tagliato in due molti terreni agricoli, rendendone difficoltosa la coltivazione. Un conigliere comunale di Egna arrivò ad affermare che anziché una strada era meglio erigere un muro, in modo che nessun mendicante fiemmese avesse più potuto mettere piede in Bassa Atesina. A quel punto alla Magnifica Comunità non rimase che realizzare la nuova strada fino a Ora e nel 1845 iniziarono i lavori, poi conclusi in concomitanza con l’inaugurazione della ferrovia tra Bolzano a Verona. I lavori per realizzare i 47 km di strada durarono 15 anni, i costi si aggirarono su un milione di Gulden, sostenuti interamente dalla Comunità fiemmese. Quando a Egna si accorsero che tutto il traffico commerciale convogliava su Ora, compresero il grande errore commesso. Per non rimanere completamente isolati dalla Val di Fiemme, furono quindi costretti a realizzare a proprie spese il collegamento tra Montagna e Egna.

Reinhard Christanell