La città di pietra sul Rio Enz

Grande è lo stupore che ci coglie quando raggiungiamo lo sperduto e affascinante sito in cima al Montelargo, una vera e propria città di pietra. Immersi nel profondo silenzio del bosco, i resti delle mura ciclopiche, profonde fosse scavate nel terreno, enormi cumuli di pietra e, soprattutto, un grosso blocco di porfido sistemato a pochi metri dall’abisso che si apre sulla valle dell’Adige e la selvaggia Vallarsa. Questa enorme pietra orizzontale (vedi foto) fungeva probabilmente da altare per i riti sacrificali celebrati in onore di qualche divinità.
Ma torniamo al nome del luogo. Esso si compone, nelle varie versioni note, di due parole: “Enz-Ens-Ennts-Trens” e “Birch-Birg-Berg”. Di primo acchito è identificabile solo il secondo, poiché “Berg” ci riporta immediatamente al termine tedesco per montagna ma anche a “Burg”, castello, derivati entrambi dal preindoeuropeo “pir” e dal successivo “borz” con il significato di altura, rocca, dirupo. Invece “Ens-Enz-Trens” non dice molto. Gli studiosi hanno azzardato varie interpretazioni: alcune propendono per la derivazione di “Trens” (che in Alto Adige compare anche in altri toponimi come per esempio “Maria Trens”) dal latino “torrens” (ruscello, rio), ma questa ipotesi rappresenta probabilmente una variante romanica di una forma molto più antica; altre sostengono che “Trens” sia comunque errato mentre la forma corretta sarebbe “Enz”. Costoro fanno riferimento al termine dialettale bavarese “enz”, che secondo il noto linguista Grimm, “premesso ad altre parole ne fa risaltare l’aspetto mostruoso”: come nel caso di “enz-mann (uomo gigantesco) o enz-kerl, derivati da “ent” ovvero “enz” = gigante e “enterisch”, “entisch”. Questa interpretazione, che ci condurrebbe ad un significato come “grande montagna” o, forse, “montagna dei giganti”, non ci pare convincente in quanto tutte le montagne sono alte e specialmente in questa zona ve ne sono di molto più imponenti del Montelargo.
Secondo Hans Krahe, linguista a Würzburg, “Enz” sarebbe un antichissimo idronimo europeo. Nella sua forma più antica, “Enzin”, riaffiora infatti l’originale “Antin”, che deriva dall’indoeuropeo “antina”, confine, che a sua volta trae origine da antios, antistante. Già nell’835 si parla di “flumine enzin”, nel 1150 di “Enze fluvius”, nel 1100 di “Enzeberch”. Nel Canton Lucerna esiste il nome di una montagna Änzi (da Antinosi), che designa la cima dirimpetto. Da qui l’interpretazione del nome come “parete antistante, termine, confine, ciglio “, dall’antico indoeu. “Hent”. Tutti questi termini si adattano bene anche al nostro sito, esposto a precipizio su Laives e la valle dell’Adige. Dunque l’antico “Enz” potrebbe significare “ruscello che viene dalle montagne” e non è escluso che l’odierno Rio Vallarsa, nome di periodo medievale, in origine si chiamasse proprio “Enz”, e da questo rio potrebbe aver preso il nome l’antico e prestigioso insediamento di “Enz-birch”, la città sacra sopra il Rio Enz e l’origine dell’odierna Laives.

Autore: Reinhard Christanell

Enzbirch, il castelliere sul Montelargo #1

È davvero singolare il destino dei toponimi: alcuni attraversano indenni – o con trasformazioni minime che, al pari di certe creature camaleontiche, ne favoriscono l’adattamento alle mutate condizioni ambientali – varie epoche e lingue, acquisendo con il tempo un alto grado di autonomia dai contesti storici; altri invece scompaiono nel nulla dopo una breve esistenza come suoni caduti nel vuoto della memoria.
Il nome e il luogo preistorico di cui ci occupiamo oggi è forse il più distante dall’odierna realtà cittadina di Laives. Se alziamo gli occhi al cielo e lasciamo vagare lo sguardo sulla sommità arrotondata del Montelargo, rimaniamo inevitabilmente delusi. Nulla si scorge sopra le ampie pietraie o l’ultimo maso incastonato sul versante scosceso del monte; la fitta coltre di alberi nasconde la vista di quello che, forse, per la sua lontananza dal fondovalle e per l’incredibile vista offerta su tutta la valle dell’Adige, è stato il primo e più importante insediamento o luogo di culto della popolazione preromana di questo territorio oltre 2500 anni fa. Infatti lì si nasconde uno dei più grandi tesori storico-archeologici dell’intera Bassa Atesina: il sito di Enzbirch. Un insediamento ancora tutto da esplorare, circondato da una poderosa cinta muraria ancora visibile, una sorta di inaccessibile Machu Picchu nostrana. Molte le domande che attendono risposta. Chi l’ha creato? Chi vi abitava? In quale epoca? Perché quassù, a precipizio sulla Vallarsa? Era un luogo di culto? Un riparo? E, infine, perché è stato abbandonato?
Oltre mille metri sotto i nostri piedi sorge il paese di Laives. La stretta gola del Vallarsa incute rispetto e vista da quassù anche timore con le sue pareti perpendicolari, il silenzio sepolcrale del passato.
Tornando ai nostri toponimi, per quanto riguarda la l’arcana “Wallburg” (come vengono chiamati gli insediamenti fortificati caratteristici di questa zona alpina) ovvero castelliere sopra Laives denominato Enz-birch o Trens-birg, scoperta per caso negli anni ‘20 del 900, è facile indovinare, data la vetustà del sito e anche del suo nome, che siamo di fronte ad una storia antica e non facilmente decifrabile. Va ricordato, in questo contesto, che i nostri antenati privilegiavano soluzioni semplici ai loro problemi quotidiani – anche nel campo della toponomastica.
Il nome – che non è un elemento esclusivamente locale in quanto compare anche in altre località come per esempio nella regione tedesca del Baden-Wurttemberg, dove esiste un “Enzberg”, mentre in Alto Adige è diffuso il cognome Enzenberg – esiste in varie varianti. Ciò non ci deve stupire perché il fatto che un nome subisca lievi correzioni è del tutto naturale. Ogni cultura cerca di adeguare i nomi alle proprie esigenze e alle proprie competenze linguistiche. In casi estremi può accadere che non rimanga nulla del nome originario e perciò resta ingrato il compito dei ricercatori di asportare, strato dopo strato, i suoni sovrapposti per ritrovarne la forma originale.

(continua)

Autore: Reinhard Christanell

Prent, la valle dei fantasmi

La Vallarsa / Brantental che collega la Bassa Atesina (e in particolare Laives) all’altipiano del Monte Regolo, rientra a buon diritto tra le località fantasma. Ma questa gola stretta tra spaventose pareti porfiriche e attraversata da un torrente impetuoso può vantare un passato di tutto rispetto. Un tempo veniva chiamata semplicemente “Leiferer Tal / Valle di Laives oppure “Valle dei Liechtenstein” (che ne erano i proprietari). Oggi vi si affacciano solo edifici in rovina, masi semiabbandonati, mulini e officine crollati e ponti caduti.
Accanto alle risorse idriche e alle varie miniere che vi venivano coltivate, dal medioevo in poi questa valle ha conquistato grande rilevanza nel commercio di legname e nell’estrazione del porfido. Ma dalla costruzione della strada della val d’Ega a metà 900, questa valle è caduta in un sonno profondo e attende da decenni l’improbabile comparsa di un taumaturgico principe azzurro.

Il nome secolare della valle contiene l’antica parola tedesca “Brand-Prant”, che potrebbe derivare dalle numerose “Brandrodungen” (disboscamento per abbruciamento) che vi venivano praticate. Come la valle si chiamasse prima, non è noto. È presumibile che un luogo di tale rilievo per i collegamenti tra la valle dell’Adige e il Regglberg abbia portato un nome romano o preromano.

Un qualche indizio ci può essere fornito dalla circostanza che la valle nel gergo popolare continua a chiamarsi semplicemente “Val” o, in tedesco, “Tal”. E perciò non si può escludere che anche il suo primo nome sia stato il retico “Vul” o “Val”, da cui successivamente “Vallis” e “Tal”.
A Nova Ponente esistevano in epoca medievale otto quartieri o Roden. Uno di questi si chiamava – e si chiama ancora – Prent. Qui si trova anche il maso Prentner, nominato per la prima volta nel 1336 come “de Prente de nova teutonica”. Prent(e) dovrebbe essere il plurale di Brand (incendio), e la valle potrebbe anche aver preso questo nome “Prentner Tal” da questo maso Prent. A volte viene chiamato anche im Prand, Prüntental oder Präntental.

Ma il nome “Brant” non è univoco. Molti studiosi ritengono che toponimi con la radice Pre- o Pren- o Bran- siano da porre in collegamento con il popolo dei Breoni che a suo tempo frequentavano l’area alpina. Nomi come Brenner, Brenta, Brentonico, Breguzzo, Brione, Breno e molti altri ancora deporrebbero a favore di questa ipotesi. Se anche Brantental / Vallarsa rientri in questo novero non si sa.
Interessante ci sembra invece l’ipotesi delio studioso Ernst Forstemann, che ritiene che i nomi con “Brand” non derivino dal fuoco e da brennen (ardere) ma dall’acqua: “Questi nomi ci suggeriscono che deve essere esistita una radice Brand o Brant per corsi d’acqua, come per esempio nei fiumi Brend e Brenz, che trovano la loro origine nell’indogermanico brendh (sgorgare). Anche Hans Krahe riconobbe nel termine la radice bhrondhi, fonte.
Si pone dunque il quesito se la Brantental / Vallarsa abbia preso il suo nome dalla “Rode Prent” o se il nome di questa derivi dal rio che la attraversa.

Autore: Reinhard Christanell

Il quartiere di san Pietro

Diversi toponimi del nostro comune sono sopravvissuti per secoli, altri sono andati completamente perduti. Nomi nuovi sono entrati nel linguaggio comune (Galizia, Caneve, Pineta…), a dimostrazione del fatto che ogni generazione interviene nella micro-toponomastica a seconda delle necessità del momento.
S. Pietro, un nome appartenente ad un tempo ormai lontano e che non designa più un territorio ben circoscritto, si pone, in certo qual modo, tra il presente e l’antichità – e perciò non possiamo definirlo né un toponimo attuale né un vero e proprio fossile linguistico.
Lo storico Karl Atz scrive in una sua opera sulla diocesi di Bolzano: “La curazia di Laives si compone di quattro quartieri: Dorf-Paese, Unterau-S.Giacomo, S.Pietro e Montelargo”. Dunque all’inizio del XX secolo, quando Laives contava poche case e non più di 2000 anime, il termine S.Pietro era ancora in uso mentre oggi lo ritroviamo solo come “Rione S.Pietro” tra le vie Liechtenstein e Negrelli. Inoltre, il nome di Pietro compare anche nella denominazione della chiesetta del Peterköfele ovvero “St.Peter am (o auf dem) Kofel” e nel termine Peterknott.
Dove si trovava dunque il quartiere (se così lo possiamo definire) di S.Pietro? È difficile localizzare esattamente il territorio interessato ma con una certa certezza si può affermare che il centro del quartiere era rappresentato dall’omonima chiesetta sul colle che sovrasta il paese. I pochi masi nelle vicinanze, le officine di fabbri e falegnami, i vari molini sparsi fino in fondo alla cupa Vallarsa (dove poi incontriamo il paese di Monte San Pietro) ne facevano parte insieme agli edifici sopra la “Pfleg” e la “Reif”, dove forse in epoca più recente è comparso quest’ultimo nome legato al commercio del legname. Bisogna anche rimarcare il fatto che il toponimo Leifers / Laives (nelle sue varianti medievali documentate) con ogni probabilità a suo tempo designava un insieme di micro-villaggi disseminati sul conoide del Vallarsa e sul Montelargo, come per l’appunto S.Pietro, Sottomonte e Montelargo. La stessa cosa avvenne peraltro nella vicina Bolzano, dove i vari sobborghi, da Dodiciville a Castel Firmiano, da Keller (Gries) a Russan (S.Maurizio) vennero raccolti sotto il toponimo comune di Botzn o Bauzanum soltanto in epoca medievale.
Esistono, nelle regioni alpine, molte località piccole e grandi che portano questo nome. “Pietro” simboleggiava, agli albori del Cristianesimo, “la rinascita in Cristo” e veniva frequentemente rapportato a insediamenti su promontori, colli e rupi. “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” sta infatti scritto nel Vangelo secondo Matteo (16, 13-20).

Autore: Reinhard Christanell

I nomi del passato: Agruzzo

A nord di Laives (e a sud di Bolzano), nei pressi dell’attuale aeroporto, per secoli si trovava una zona incolta e insalubre utilizzata dagli abitanti delle due località (e di alcuni paesi montani) soprattutto come pascolo invernale. L’Isarco, che correva minaccioso a ridosso dei centri abitati prima di essere deviato verso Castelfirmiano, allagava costantemente l’area tra Oltrisarco (Oberau) e San Giacomo (Unterau) e perciò ogni coltivazione continuativa era destinata a scomparire rapidamente.
Quest’ampia superficie di quasi 50 ettari veniva chiamata Grutzen o Grutz, in italiano Agruzzo. Nel 1582 un documento noto proprio come “Grutz-Urbar” (Descrizione della Grutz in der Au sotto Bolzano) ne elencava tutti gli appezzamenti di terreno. Ma già nel “1496 i Niederthor bolzanini avevano ottenuto il diritto di assegnare terreni presso l’Isarco”. I piccoli coltivatori dovevano liberare la terra dal pietrame apportato dal fiume, qualcuno vi coltivava un piccolo vigneto o campo, altri erigevano improbabili muri di contenimento delle acque. Nel catasto teresiano è rimasta traccia di queste particelle.
Ma cosa significa Grutz / Agruzzo? Si tratta di una denominazione “tedesca” risalente all’arrivo dei Baiuvari nella valle dell’Adige tra il sesto e l’ottavo secolo? O di un vecchio nome romanico o addirittura preromano poi germanizzato?
I nomi dei campi spesso derivano dall’utilizzo o dalla consistenza degli stessi. Per esempio Laimburg deriva sicuramente da Laim, limo. Perciò la supposizione dei fratelli Grimm che Grutzen derivi da Grütze (frumento frantumato, cosa piccola, dalla radice indogermanica ghreud, sminuzzare) è decisamente pertinente. Un qualche collegamento è possibile anche con il termine “Gries” (Griez, arena) per terreno sabbioso.
L’ipotesi “bavarese” è suggestiva ma poco convincente. Scriveva infatti Karl Finsterwalder: “L’occupazione bavarese (…) trovò le nostre vali tirolesi ancora abitate e i moltissimi toponimi pregermanici dimostrano che la popolazione rimase nei propri paesi”.
Dunque i Baiuvari non sostituirono la vecchia popolazione romanica ma si insediarono accanto ad essa, utilizzando la toponomastica preesistente. Questi eventi tra il VII e l’VIII secolo sono comprovati anche dagli scontri proprio in questa zona tra Longobardi e Baiuvari. Solo nel 769 Bolzano con Laives divennero possedimento dei Baiuvari, dato che allora il loro duca Tassilo III, sposato a Liutberga, figlia dell’ultimo sovrano longobardo Desiderio, appare “in Bauzano rediente de Italia”.
È dunque assai probabile che il termine Grutz trovi origine in quest’epoca e nella lingua longobarda, che conosceva anche il termine grutsa o grutsena con il significato di piccolo podere di una dimensione tra i 12 e i 30 iugeri.

Autore: Reinhard Christanell

Sant’Antonio, l’antica cittadella sacra di Laives

Correva l’anno 180 d.C. Le interminabili guerre tra l’impero e i sediziosi Marcomanni condizionavano pesantemente la vita della popolazione – anche nella piccola terra tra i monti. Il 17 marzo morì a Vindibona (Vienna) il leggendario imperatore Marco Aurelio, lasciando il trono al figlio diciannovenne Commodo. Laives, già fiero villaggio retico ai piedi del soleggiato Montelargo, fa parte con tutta la valle dell’Adige fino a Statio Maiensis (Merano) della Regio X Venetia et Histria. Nei giorni del solstizio invernale, nei pressi del tempio di Saturno si radunano i possidenti della zona con i loro schiavi (che godevano di particolari privilegi durante le festività) per festeggiare i Saturnali che ogni anno si svolgevano tra il 17 e il 23 dicembre. Grandi carri trasportano le botti di vino retico, su tavoli di legno sistemati davanti al piccolo tempio vengono offerti cibi e frutti di ogni genere. Dopo le cerimonie sacre officiate dalle sacerdotesse in onore della divinità e dell’anima dei defunti, la festa durava ininterrottamente per una settimana.

Questa scena di 2000 anni fa probabilmente si è svolta nel piazzale davanti all’odierna chiesa, dove si trovava il tempio di una divinità venerata in tutto il territorium tridentinum, Sarturno. Ci troviamo dunque nell’area sacra, nella cittadella, il cui nome antico ci è ignoto. In epoca medievale questo luogo venne denominato St. Anton / Sant’Antonio (Abate), un toponimo oggi completamente dimenticato. Solo la vecchia chiesa parrocchiale porta ancora il suo nome insieme a quello di S. Nicola. I nomi di santi, a differenza di quelli “laici” di derivazione popolare, erano sempre imposti dalle istituzioni per sostituire precedenti denominazioni “pagane”. Perciò possiamo pensare che proprio al posto dell’attuale chiesa si trovasse un tempio pagano. Nel commendarius trentino si legge: “in villa Leifers quidam capella in honorem sanct antoni confessoris antiquitis constructa“. (Nel paese di Laives fu costruita in tempi antichi una cappella in onore di Sant’Antonio). Con antiquitis ci si riferisce probabilmente ai tempi carolingi o poco prima, nei quali il Cristianesimo si impose definitivamente da queste parti.

Ma perché proprio Sant’Antonio? Chi era costui? Dalle storie di Atanasio (Vita Antonii) apprendiamo che nacque in Egitto nel 251 e qui trascorse tutta la vita nel deserto; morì a 105 anni nel 356. Era, tra l’altro, il protettore degli allevatori e degli animali domestici, e perciò veniva anche chiamato Sant’Antonio dei porcelli. Antonio aveva quindi il delicato “compito” di far dimenticare una divinità precedente molto amata. Attorno all’anno 1000 le reliquie del santo furono portate a La-Motte-au-Boi e in tutta Europa si diffuse rapidamente il suo culto. 

Autore: Reinhard Christanell

Jauch, vecchio quartiere alle porte del paese

Tra i pochi toponimi locali che fortunatamente si sono salvati (e speriamo non scompaiano come gran parte del vecchio paese), si trova quello di “Jauch”. Una parola dal suono misterioso che ci riporta in un lontano passato e che, come noto, si riferisce alla parte bassa, medievale, del vecchio paese, compresa tra l’originale strada statale e “la fossa” provinciale e la via Stazione e l’albergo Steiner. Stiamo parlando delle odierne vie Noldin, Galizia e Hofer.
Molto spesso, i microtoponimi sono espressione delle esigenze particolari e contingenti di un determinato periodo storico e perciò la nostra ricerca sul termine “Jauch” si svolgerà in quei temi “grigi” – ossia non bene esplorati e documentati – dopo il crollo dell’impero romano e l’arrivo del mitico re ostrogoto Teodorico (Dietrich von Bern, dove Bern sta per Verona), quando nella valle dell’Adige viveva ancora una popolazione di lingua romanica che riuniva in se antichi elementi retici e romani e, tutto sommato, ancora pochi tratti “cristiani”.
Soprattutto Baiuwari (successori dei Boieri, che significa uomini di Boemia) e Longobardi si contesero la zona alle porte di Bolzano e proprio a Laives, dove ebbe luogo una sanguinosa battaglia, passava il confine tra i due territori. Teodorico stesso favorì costantemente l’arrivo di nuovi coloni ai quali dovevano poi essere assegnati dei terreni da coltivare.
È presumibile che proprio in quest’epoca i campi verso l’Adige, già dissodati in epoca preromana e romana, fossero attribuiti a nuovi arrivati.
Che significa dunque “Jauch”? Si tratta sicuramente di un’antica unità di misura, derivata dal latino jugerum (da iugum, giogo, tiro di buoi), ripreso dalla lingua tedesca antica come “Joch”, “Juchart” e più tardi “jûchert” e ”iuchart”.
Il nostro “Jauch”, un autentico fossile linguistico che ci svela pagine importanti del passato, deriva dall’espressione medievale “Jauchert“ (vier jaugert weid nemb wir ein zil… quattro iugeri di pascolo noi prendiamo… scrive infatti J. Ayrer).
“Jauchert ist ein stück landes, so man mit einem paar ochsen in einem tag pflügen oder ausackern kan. andere beschreiben ein jauchert ackers 240 schuh lang, 120 breit“, scrivono i fratelli Grimm nel loro famoso dizionario (Jauchert è un campo che si può arare in un giorno con un giogo di buoi…).
In conclusione, possiamo affermare che il nostro “Jauch” ha trovato una duplice applicazione: da una parte come semplice unità di misura che designa un campo di 2519,9 m², dall’altra come toponimo per una nuova area coltivabile individuata in seguito all’arrivo di nuovi coloni ubicata appena fuori dalle mura del vecchio paese, ai margini del conoide e prima delle “Leiferer Auen”, pascoli paludosi che si estendevano dalla “fossa” provinciale fino al meandrico alveo dell’Adige.

Autore: Reinhard Christanell

Gli antichi quartieri: Raut

I primi nomi propri riferiti al territorio furono sicuramente quelli dei corsi d’acqua. Molti idronimi, secondo lo studioso Hans Krahe, risalgono ad una lingua proto-europea antecedente le invasioni dei popoli indoeuropei. La ragione è pratica: i fiumi fungevano da confini e spesso anche da vie di comunicazione. È significativo il fatto che questi autentici fossili linguistici siano rimasti in vita per millenni passando indenni – o con piccoli adattamenti – da un popolo all’altro, da un’epoca a quella successiva. 
Allo stesso modo, la nascita degli insediamenti stabili produsse un’infinità di denominazioni attribuite a villaggi, poderi, campi, ruscelli eccetera. I nomi erano scelti in base all’aspetto, all’utilizzo, all’origine o anche al proprietario del luogo (come i prediali romani, molto frequenti anche in Alto Adige). 
Nel comune di Laives, vecchi documenti come il catasto teresiano, bandi d’asta fallimentare o contratti di compravendita o donazione di epoca medievale (per esempio l’urbarium di Mainardo II del XIII secolo elenca i nomi di alcuni masi da lui acquisiti a Laives: der hof bi der Aiche overo Aichner, hof in der Ekke, Wigand) sono ricchi di microtoponimi oggi purtroppo completamente dimenticati. In una vecchia cronaca del periodico “Volksblatt” leggiamo per esempio: “La scorsa domenica è scoppiato un furioso incendio nella casa di tale Johann Curti in località Rauth”. Già nel 1863 medici e levatrici del luogo erano obbligati “a garantire i loro servizi nelle località di Lent, Raut, Spital, Kölbeln, Thaler, Biegeleben, Welschmühle … “
Uno dei toponimi storici è pertanto quello di Raut. Esso si riferisce ad una zona che originariamente comprendeva una vasta area tra le odierne vie Marconi e F.Fizi fino al maso presso la fossa provinciale chiamato per l’appunto Rautgut. Oggi questo nome è quasi scomparso e si parla piuttosto della zona “Curti” dal nome dell’ultimo proprietario.
Ma che significa Raut? Sappiamo che è, con varie varianti (Rungg, Ronca, Reut), una denominazione molto diffusa in Trentino Alto Adige. Il termine deriva dall’antico verbo tedesco “reuten”, oggi roden, ossia dissodare o disboscare. Secondo Grimm, reuten o roden significa rendere coltivabile un terreno mediante l’eliminazione di cespugli e alberi. 
È dunque evidente che in origine quella zona fosse ricoperta da vegetazione e nel corso del medioevo, probabilmente in concomitanza con una massiccia immigrazione da Nova Ponente, dove nel XIII secolo molte famiglie furono costrette ad emigrare verso la Bassa Atesina o il Trentino a causa di una carenza di terreno coltivabile e una notevole crescita demografica. Allo stesso tempo il fatto che fosse scelto questo nome significa anche che le altre aree del comune erano già state precedentemente rese coltivabili.

Autore: Reinhard Christanell

Roghi votivi e il dio Saturno

Per i popoli che ci hanno preceduto, il fattore religioso-magico rivestiva grande rilievo. I compiti che oggi assolvono le previsioni del tempo, le scoperte scientifiche o semplicemente Google, un tempo erano affidati alla sola forza dell’immaginazione. Ogni aspetto della vita quotidiana, dall’alimentazione agli spostamenti, dal lavoro nei campi ai rapporti con i propri simili sottostava al “favore” di qualche nume. Ciò che valeva per i singoli, a maggior ragione valeva per le comunità: i riti propiziatori e di ringraziamento erano codificati nei secoli e si svolgevano in luoghi “eletti”: con preferenza per sommità o sacre sorgenti (coma la retica Cisa del Süssenbach o rio Dolce in Pineta).
Che culti si praticavano all’epoca dei Reti (Isarci, Tridentini, Anauni) della valle dell’Adige? Quali erano le divinità predilette? E quali erano i luoghi in cui si celebravano i riti? Nonostante il pregevole lavoro degli archeologi, il territorio della Bassa Atesina rimane ancora poco esplorato. Specialmente a Laives è presumibile che molti reperti antichi (dal mesolitico ai Romani) siano ancora sepolti sotto il poderoso conoide porfirico costantemente alimentato dal rio Vallarsa. Sono comunque state rinvenute varie tracce di roghi votivi: per esempio in via Dante e Marconi o in zona Jauch. Ma manca, per esempio, un ritrovamento simile a quello straordinario, risalente all’età del Rame (epoca dell’uomo del Similaun, per intenderci), del Pigloner Kopf sopra Vadena, dove sono state scoperte asce e altri doni votivi. 
I roghi votivi o Brandopferplätze sono noti in tutta l’area alpina e anche oltre. Vi venivano svolti due tipi di cerimonie, spesso accompagnate da sacrifici di animali, ricche libagioni e offerte di doni: una prettamente religiosa e consacrata alle divinità locali, una inerente i riti funerari con la combustione dei defunti e il “legame” con il mondo degli antenati. Secondo alcuni studi, questi luoghi di culto nella valle dell’Adige, dal Doss Trento alla Val d’Ega e in particolar modo in Val di Non, sono caratterizzati dalla presenza di una divinità legata all’agricoltura e alla fertilità dei suoli. Si tratta di un dio che, sotto vare spoglie, compare dal Bronzo finale fino ai Romani, i quali, mantenendo invariati i riti, lo chiamavano Saturno. Iscrizioni votive, doni in ceramica e metallo e non ultimo alcuni nomi di adepti del culto ci parlano di una tradizione tramandata nei secoli almeno fino all’epoca del vescovo Vigilio, noto per aver gettato una statuetta di questo dio nel torrente Sarca ed essere stato percosso per questo motivo dagli infuriati “pagani”.
È dunque probabile che sui due promontori o acropoli di Laives il culto celebrato fosse proprio quello di Saturno (ricordiamo che successivamente il patrono del paese divenne Dioniso, da cui la leggendaria Nisselbrunn – fonte di Dionisio – semidistrutta dal Vallarsa) e in particolare sul colle di S. Pietro, dove anche in epoche successive continuarono ritualità “propiziatorie” della pioggia note fino al XIX secolo. Sulla Gampnerknott (detta Comp/camp o Crozet) è più facile che i culti praticati riguardassero i rapporti con l’aldilà e dunque i riti funerari.

Autore: Reinhard Christanell

Le due acropoli di Laives

Gli scavi effettuati in varie parti del territorio a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ci hanno restituito un quadro abbastanza circostanziato – anche se certamente non esaustivo – della Laives protostorica. Del mesolitico, a dire il vero, conosciamo ancora pochi dettagli – tranne per quel che riguarda l’importante sito di San Giacomo, frequentato fin dall’era dei cacciatori e raccoglitori da nomadi in transito lungo la valle dell’Adige. Ovviamente la situazione non deve essere stata molto diversa anche a Laives, dove, all’imbocco della Vallarsa, si trovano luoghi simili, che ben si prestano a soggiorni temporanei. Evidentemente per essere documentate andrebbero effettuati sondaggi più approfonditi.
Al contrario, l’età del ferro, e in particolar modo la cultura di Fritzens-Sanzeno (o retica), hanno dato molte soddisfazioni ai ricercatori: in particolare gli archeologi Lorenzo Dal Ri e Alberto Alberti hanno portato alla luce e documentato in modo mirabile i resti di antichi villaggi retici con case semi interrate di pietra e legno, grandi focolari con lastre di porfido e macine per cereali, tracce di ampie bonifiche del terreno sassoso con rudimentali vigneti e, soprattutto, luoghi di culto. Di questi siti, sparsi un po’ su tutto il conoide, abbiamo già parlato e sappiamo che essi rappresentano la testimonianza che “c’era vita”, a Laives, anche tre millenni fa. Lo stesso nome del paese, che rientra nel novero di quelli indecifrabili, è quasi certamente un “fossile” linguistico di quell’epoca e di quella cultura e prima o poi andremo a fondo anche di questo argomento.
Se dunque i siti tra Reif e Jauch raccontano la storia di un paese cresciuto in prossimità dalla confluenza tra Adige e Isarco (e Isarci erano probabilmente gli abitanti dell’epoca, con “infiltrazioni” di Anauni e Tridentini), rimane da chiarire il ruolo dei due colli morenici che dominano – e in parte insidiano – l’abitato sottostante: la Gampnerknott (crozet) e il Peterköfele.
È molto improbabile che fossero utilizzati per insediamenti stabili in un periodo in cui l’agricoltura la faceva da padrona. Per cui è ipotizzabile che essi fossero, oltre che luogo di rifugio in caso di pericolo, centri sacri e, soprattutto, di culto, dedicati ai riti funerari e ad alcune divinità. In effetti sulla Gampnerknott sono stati ritrovati degli accumuli di pietre, alcune delle quali semifuse dal calore. Sul Peterköfele mancano queste evidenze o sono molto rare: ma, anche in considerazione dell’utilizzo “sacrale” successivo, è assai probabile che la destinazione fosse la stessa. Di queste due “acropoli” o Brandopferplätze (luoghi di roghi votivi), legati in particolare al culto di una divinità, parleremo la prossima volta.

Autore: Reinhard Christanell