Alberto Giacometti: storia di un direttore d’orchestra

È una storia fatta di musica e di affetti famigliari quella del Professor Alberto Giacometti, direttore dell’Orchestra di cura di Merano: la storia di un veneziano che approdò a Merano nel 1935 dopo aver vinto il concorso per far parte dell’Orchestra di Cura allora diretta dal conte Gravina.

Pianista, organista e violinista, Alberto Giacometti era stato violinista di spalla nell’Orchestra del Teatro La Fenice, aveva suonato all’Arena di Verona, al Carlo Felice di Genova, al Teatro Regio di Parma, ma anche in Germania e in Danimarca.

Fu fra gli orchestrali di Merano quando nel 1939 l’Orchestra di Cura, composta di 42 elementi, si congedò dal suo numeroso pubblico, licenziò i suoi musicisti e chiuse i battenti. Giacometti allora suonò di tutto ed ovunque pur di assicurare un pasto alla sua famiglia. Dopo l’8 settembre 1943 per evitare la prigionia riuscì a farsi assumere alla Montecatini di Sinigo e vi restò fino al 1949 quando l’Orchestra di Cura ricominciò a suonare sulle passeggiate.

Nell’agosto del 1957 il Consiglio direttivo dell’Azienda di Cura e Soggiorno lo nominò direttore dell’Orchestra. L’annuncio fu dato entusiasticamente da tutti i giornali regionali e dal Gazzettino di Venezia. Gli articoli spiegavano come il maestro Giacometti, stimato ed apprezzato da tutti i colleghi, facendo parte da più di vent’anni dell’Orchestra di Cura e conoscendone perfettamente le finalità, le necessità e l’ampio repertorio, era davvero la persona giusta per condurla e per portarla agli alti livelli di un tempo.

Egli seppe lottare quotidianamente con le difficoltà organizzative, i limiti economici, un pubblico difficile e variegato. Direttore stimato sapeva trarre il meglio da tutti i suoi orchestrali e alla fine del suo primo anno di dirigenza i giornali non poterono che registrare un notevole incremento di pubblico che fu sottolineato anche dall’Alto Adige in un articolo dell’11 settembre 1957: “Le Passeggiate, dove giornalmente si tengono i concerti dell’Orchestra di Cura diretti dall’ottimo maestro Giacometti, sono più frequentati del solito da un pubblico colto ed elegante”.

In un articolo apparso sul Dolomiten nel 1966 un critico musicale che si firmava con la sigla SP di lui ebbe a scrivere: “Il maestro Giacometti è un musicista moderno nel miglior senso interpretativo che nell’azione esecutiva nulla ‘intromette’ ma invece, grazie alla realizzazione dei vari rapporti musicali interiori, tutto sa ricavare di ciò che un’opera musicale contiene. Sulla base di questo vigore dinamico interiore egli mette in massimo rilievo tutte le frasi musicali con una interpretazione fulgida nei vari tempi, che esprimono sempre la proporzionata intensità in una unità architettonica di perfetto equilibrio”.

Il consenso del pubblico e le sue doti fecero sì che di anno in anno egli fosse riconfermato nel suo ruolo fino al 1969, quando il 26 luglio, durante un concerto si accasciò, piegando il capo su quel pianoforte con il quale appassionatamente stava rievocando le atmosfere del Don Pasquale di Donizzetti, stroncato da un infarto.

La sommelier e il calcio

Lea Casal ha solo 21 anni, ma ha le idee ben chiare su quello che potrebbe essere il suo domani. Quando non lavora come sommelier, è attiva in diverse società ed associazioni, prestando il suo servizio nel comune di Magrè, paese dove attualmente vive con la propria famiglia.

La cosa che più mi piace di me e il mio principale difetto.

Devo dire che sono i due lati di una stessa cosa. Quando ci tengo ad un idea, a una cosa o a una persona do tutto quello che ho, con tutto il mio cuore… Ma si tratta di una cosa che spesso non è solo positiva.

Il mio momento più felice.

I concerti di Ultimo.

Un libro da portare sull’isola deserta.

“Io sono più amore”.

La mia occupazione preferita.

Cantare e stare con le mie amiche e la mia famiglia.

Il paese dove vorrei vivere.

In Spagna, sull’isola dove c’è Palma di Maiorca.

Il mio piatto preferito.

La pizza.

Non sopporto…

L’ingiustizia, le bugie.

Per un giorno vorrei essere…

Ultimo.

La mia paura maggiore.

I serpenti.

Nel mio frigo non manca mai…

La fantastica marmellata di mia mamma.

Se fossi un animale sarei…

Penso un cane.

Il mio motto.

“Abbi il coraggio di splendere”.

Il giocattolo che ho amato di più.

Il pallone da calcio.

I miei poeti preferiti.

Gio Evan e Simone Carponi.

Il mio pittore preferito.

Michelangelo.

Il dono di natura che vorrei avere.

Fregarmene ancora di più.

Come mi vedo fra dieci anni.

Importante, felice e in piena salute.

Il colore che preferisco.

Il verde.

L’ultima volta che ho perso la calma.

In una situazione al lavoro.

Da bambina sognavo…

Di diventare una calciatrice professionista.

Daniele Bebber

(I crediti fotografici della foto di Lea Casal sono: Meike Hollnaicher / Alois Lageder)

Mercatini di Natale

I mercatini sono stati smantellati da qualche giorno ma si sa: o è Natale tutti i giorni o non è Natale mai. Così avranno ragionato gli ideatori dell’A22 Christmas Market, il mercatino lungo 60 chilometri che si svilupperà per tutto l’anno tra Trento e Bolzano, lungo l’asse autostradale. I due tecnici regionali Lukas Carboni e Lorenz Cherubini risolveranno così il problema del traffico, mettendo definitivamente una pietra sopra all’idea di una terza corsia. Le casette verranno posizionate sia nella corsia di sorpasso, sia in quella di emergenza, creando sicuramente più traffico ma immergendo i viaggiatori in un sempre confortevole clima natalizio.

Fiocco di neve

È sera, fuori nevischia, la pioggia ha il sopravvento. È troppo bagnato affinché quei fazzoletti attecchiscano. Solo una decina di anni fa avremmo fatto il pieno di neve a tutte quote. Invece, oggi, siamo qui a fare i conti della serva per individuare lo zero termico, che non è altro che confine tra gioia e malumore; esso dipende sempre da svariate variabili, tuttavia questo limite può abbassarsi di quota, da quella inizialmente prevista, grazie all’intensificazione delle precipitazioni e, soprattutto, al progressivo raffreddamento da fusione (la fusione dei fiocchi di neve sottrae calore all’aria circostante diminuendone la temperatura). In quest’epoca malata dal diossido di carbonio certo è che, in media, la quota neve nell’hotspot mediterraneo è lievitata smisuratamente rispetto agli anni Ottanta. Per hotspot si intende una regione dove effetti fisici ed ecologici forti del cambiamento climatico si riverberano su comunità umane e sulla Natura (tempesta Vaia); ergo, luoghi terracquei interessati da anomalie positive nel medio/lungo periodo. Pertanto l’hotspot deve considerarsi come indicatore climatico anziché meteorologico, anche se queste anomalie su larga scala influenzano poi drasticamente intensità e sequenze meteorologiche più o meno ravvicinate. È risaputo infatti che il riscaldamento globale non corre alla stessa velocità a tutte le latitudini. Le differenze tra queste zone possono essere molto marcate, come ad esempio l’anomalia negativa in atto sulla Scandinavia. Eppure se la maggior parte di ogni evento esordisce da connotati locali più caldi esso avrà a disposizione più energia e l’epilogo, se non riusciremo a stare al passo coi tempi, già lo conosciamo (esempi sono le due alluvioni in Romagna del 2023 ed il favonio a 230km/h di due settimane fa in Piemonte). È notte fonda, fuori nevischia, la pioggia ha ancora il sopravvento. Torniamo a noi, le centraline provinciali a fine evento hanno misurato 37.3mm a Salorno, 19.4mm a Bolzano, 13.7mm a Merano, 12mm a Brunico: solo quest’ultima, che giace a 838 metri di altitudine, ha visto un manto decoroso ammantare la città. In passato, come ribadito, sarebbe stata neve a tutte le quote, con la stessa proporzione tra mm di pioggia e cm di neve, a patto di una temperatura di 0°C e omotermia stabile (gradiente termico verticale nullo, quindi, una temperatura atmosferica costante nell’intero strato atmosferico, ovvero una colonna d’aria difficile da penetrare da richiami sciroccali). Insomma, una signora perturbazione vecchio stile gradita e attesa, ma sempre più rara con il passare degli anni, quella entrata nel Mediterraneo il 5/6 gennaio. Localmente per noi altoatesini, non s’è trattato di briciole, né di un evento epocale. Dalla finestra del fondovalle l’asfalto è sempre lucido e non ci sono accumuli nevosi. I lampioni della strada non mentono mai, ma questa è un’altra storia.

Donatello Vallotta

I giovani tra fede e speranza

// Di Niccolò Dametto

Michele Dalla Serra è da non molto il nuovo referente del settore della Pastorale Giovanile della Diocesi di Bolzano Bressanone. Questo compito è sempre stato affidato a un sacerdote, ma ora per la prima volta l’ambito viene coperto da un teologo laico per tutti i tre gruppi linguistici. Attirare i giovani al mondo della chiesa risulta sempre più difficile oggigiorno, una vera sfida che Michele, classe ’93, ha preso a cuore. Con lui oggi andremo a scoprire cosa è cambiato rispetto alle generazioni passate e come i giovani vedono la chiesa cattolica.

Come ti sei avvicinato alla religione fino poi ad arrivare a fare questo lavoro?

Sono cresciuto a Bolzano in un ambiente parrocchiale. I miei genitori mi portavano nella chiesa della Visitazione, ho frequentato lì la catechesi e i campi scuola estivi. È sempre stato il mio ambiente. Poi quando ho iniziato le superiori mi sono aggregato ad un gruppo di miei coetanei che si trovava alla Parrocchia dei Tre Santi e sono cresciuto assieme a loro, con esperienze, gite in montagna e viaggi organizzati dalla Pastorale Giovanile. Facendo queste esperienze con il tempo mi sono offerto nel dare una mano nell’organizzazione; una cosa tira l’altra e finite le superiori ho iniziato a dare una mano più sostanziosa sempre su base volontaria, fino a quando non mi è stato offerto un lavoro part-time dall’azione cattolica.

Poi ad ottobre nel 2022 la Pastorale Giovanile stava cercando qualcuno che si impegnasse nel coordinamento delle attività del gruppo linguistico italiano e del gruppo linguistico tedesco, allora mi sono candidato ed eccomi qua.

La tua fede come ti ha influenzato in questo percorso?

Sicuramente è stato un percorso di crescita. Quando le cose vanno bene, viene facile avere fede, quando invece le cose non vanno mi chiedo sempre perché lo faccio. Sicuramente non lo faccio per me: lo faccio sempre nell’ottica del servizio. Fede e servizio sono due parole che vedo molto legate tra di loro.

Che rapporto hanno i giovani con la chiesa rispetto alle generazioni passate?

In passato c’erano meno proposte e i giovani erano meno ribelli, avevano meno voglia di autodeterminarsi e fare di testa loro. Quindi era più facile per le famiglie trasmettere ai propri figli il loro spirito religioso.

I miei genitori sono cresciuti frequentando l’oratorio, come molti dei loro coetanei. Oggi non tutti i genitori d’oggi hanno avuto un passato parrocchiale, e quindi la chiesa viene vista solo come una istituzione e non si propone più ai ragazzi di andare in parrocchia. Molti genitori delle generazioni passate raccontavano le loro esperienze positivi ai loro figli e questo sicuramente aiutava: i figli si fidavano di più.

Come li vedi i giovani d’oggi?

Quello che vedo adesso è che c’è più un senso di ribellione, di fare di testa propria. Non ho ancora capito se è per mancanza di voglia, per i troppi impegni o per il troppo stress.

Insegnando religione in un liceo mi sono reso conto che i ragazzi d’oggi sono stressati in generale. Alcuni arrivano a scuola già spremuti: tra compiti, sport e lezioni se gli si fa una proposta ulteriore diventa facile che ti dicano di no.

Da un lato c’è questo abbondare di proposte, impegni e stress, dall’altro (in modo implicito/silente) c’è un fortissimo desiderio di approfondire alcune tematiche. Anche sulla scia del post-Covid a lezione si fanno un sacco di domande, non solo sul futuro ma anche sul presente. E, secondo me, rispetto a queste domande manca spesso l’occasione per metterle in comune e discuterle assieme.

Perché si parla poco di religione tra i giovani?

L’estate scorsa abbiamo fatto un campo estivo con la parrocchia e una delle difficoltà che emergeva dai ragazzi (che erano quasi tutti delle superiori) è che oggi se dicono in classe che vanno a messa o fanno parte di un gruppo parrocchiale, a loro viene attribuito lo stigma dello sfigato e quindi magari tanti si vergognano di raccontare questa loro esperienza. è stato interessante: quando ne abbiamo parlato alla fine si sono trovati ad essere ben in sei in una classe di venti alunni che stavano facendo questa esperienza, ma non ne avevano parlato tra di loro.

Secondo me, è perché si ha paura di venire etichettati anche perché ultimamente la chiesa istituzione viene criticata molto. Ma essere chiesa in realtà è una cosa diversa da quello che normalmente si pensa. Si ha paura di porsi delle domande per la paura delle risposte. Il tema della fede presuppone di farsi domande tutti i giorni per crescere, per mettersi in discussione.

Come si fa ad attirare i giovani affinché prendano parte alle iniziative religiose?

Secondo me la strategia della testimonianza e dell’esempio è senz’altro quella più efficace. Se esprimo ai giovani le mie emozioni e faccio capire loro che quella cosa lì muove anche me, la testimonianza senz’altro ha effetto. Magari non viene recepita subito ma viene presa messa lì da qualche parte e poi magari dopo qualche anno viene tirata fuori, perché qualcuno capisce cosa ha voluto dire fare quell’esperienza. In ogni caso che vengano tre ragazzi oppure cento per me tutti sono importanti ed è importante che tutti riescano a vivere bene quell’esperienza.

Ai giovani che messaggio vuoi lanciare?

Dico loro: se per un periodo le cose vanno male devi pensare che poi passa, e allora intanto prova a vedere il bello che ti dà il ritmo per andare avanti. Comunicare questo ai giovani è determinante. Perché poi iniziano a fidarsi di più e a capire che con la fede la vita non è un sogno dove va tutto alla perfezione ma che ognuno ha le proprie difficoltà ma anche le sue gioie. Per me avere fede è un valore aggiunto, mi dà ha una marcia in più per ripartire: è una speranza a lungo termine.

Che cosa deve assolutamente avere un buon cristiano?

La speranza. Se non abbiamo la speranza non possiamo ritenerci cristiani. Però non deve essere una speranza del “che vadano bene le cose”, ma un “io credo che le cose vadano bene”, “spero di capire come farle andare bene”, e “spero che succeda nei tempi giusti”. Occorre essere sicuri che prima o poi ci sarà una svolta e credere in quella sicurezza vuol dire appunto aver fede.

Come si fa poi a mantenere la fede?

Da bambino hai una fede giovane e acerba. Hai le tue scarpette piccoline. Se quando cresci ti allontani dalla fede, ti ritrovi poi ad essere adulto e avere ancora le scarpe da bambino. Ti senti ridicolo, non le vuoi più mettere quelle scarpe. Ma come cresce il piede, devi anche cambiare la scarpa. Ciascuno deve crescere nella fede facendosi delle domande, confrontandosi con gli altri, capendo se anche loro si fanno le stesse domande e come si possono trovare dei punti in comune. La dimensione tanto sottolineata dal Papa della fraternità è questa: stare insieme, confrontarsi insieme per cercare di trovare una soluzione ai problemi di tutti.

Una pausa

Due righette verticali appaiate. è molto interessante e significativo il fatto che nei più recenti apparecchi elettronici, smartphone compresi ma anche condizionatori, microonde e chi più ne ha più ne metta, sia rimasto proprio quel simbolo a indicare in maniera diretta e simbolica l’interruzione temporanea, l’intervallo, più che lo stop. Due righette verticali dunque come una sorta di contraltare e non il contrario rispetto al triangolino con il vertice rivolto verso destra a indicare invece il play, richiamando il simbolo della freccia.

Com’è noto la parola pausa ha molti usi e sfaccettature, oltre al significato basilare di arresto, sosta e fermata. Basti pensare alla “pausa di riflessione” che ormai e purtroppo sempre meno ci prendiamo, prima di compiere un passo importante oppure dopo un periodo alquanto intenso nella nostra vita. C’è poi la pausa che ci si prende quando si parla, magari per dare maggiore enfasi a quanto si sta per dire, oppure per riprendere il fiato ancora una volta dopo aver detto qualcosa di importante oppure esserci troppo infervorati. La pausa nella conversazione è stretta parente della pausa in musica, fondamentale perché in grado essa stessa di dare un senso alle note che vengono prima e dopo, ma anche per segnare una cadenza, sincopare il ritmo, rendere interessante il flusso melodico.

Ci sono poi naturalmente la pausa scolastica, che scandisce le lezioni giornaliere e consente di tirare il fiato, e quella nel lavoro che ci dà respiro.

Più in generale la pausa è quel momento in cui, per un motivo o per l’altro, ci ritroviamo in un tempo sospeso, e abbiamo quindi una possibilità – finalmente, diranno molti di voi – per renderci conto di nuovo chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, riavvicinandoci forse di nuovo al nostro vero essere noi stessi. E a dire il vero questo fermarsi non lo amiamo proprio tutti. C’è chi, uscendo dal vortice delle cose che facciamo, può arrivare a sentirsi nudo, indifeso, guardandosi anche solo virtualmente in uno specchio.

Sta di fatto che una pausa, di fatto, fa bene a tutti noi. E che – spesso – è proprio il periodo estivo il momento più adatto, per ricaricare le pile. Per poi ripartire.

Anche noi di QuiMedia per questo motivo ci fermiamo. Dopo una breve pausa i nostri giornali torneranno nelle vostre case il prossimo 24 agosto. Dopo di che riprenderemo a raccontarci come sempre quello che ci succede. Buona pausa a tutti voi!

L’Agenda 2030 è la nuova Arca di Noè

La Giunta provinciale ha annunciato la volontà, per l’Alto Adige, di “assumersi la responsabilità del futuro”. Si tratta di dare attuazione anche in sede locale all’Agenda 2030, pianificata a livello globale con 17 (e tanti altri) obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Presentato a Bolzano il “Piano Clima Alto Adige 2040”.

Gli obiettivi il cui raggiungimento è previsto in parte per il 2050, in provincia di Bolzano saranno attuati entro il 2040. Così viene dichiarato già nel nome del Piano. Sindrome da primi della classe? Ma no, questo bisogno di accelerare è riconosciuto, si dice, da “molti altri Paesi e Stati membri dell’UE”.

Vale la pena ricordare quali sono i 17 macro obiettivi da raggiungere (ognuno con una serie di sotto obiettivi): eliminare la povertà e la fame, garantire a tutti la salute, la formazione, realizzare l’uguaglianza di genere, garantire l’accesso all’acqua, all’igiene, all’energia pulita, promuovere un’economia sostenibile e la piena occupazione, infrastrutture resistenti, ridurre le disuguaglianze, rendere le città e le comunità sicure, inclusive, resistenti e sostenibili, garantire modelli di consumo e produzione sostenibili, agire con urgenza per combattere il cambiamento climatico e il suo impatto, salvaguardare i mari, proteggere gli ecosistemi terrestri, promuovere pace e giustizia e la collaborazione globale.
“Non pretendiamo di salvare il mondo, ma dobbiamo, vogliamo e possiamo assumerci la responsabilità della nostra sfera di influenza”, ha dichiarato il presidente Arno Kompatscher. E ha aggiunto: “Raggiungere gli obiettivi climatici è una sfida enorme, ma non è un’opzione o una questione di ambizione, bensì un nostro dovere: il dovere di tutti i cittadini della terra”.

Si potrebbe dire che invece sì, si tratta proprio di salvare il mondo. Gli obiettivi dell’Agenda 2030 non nascono perché tutti si sono improvvisamente svegliati attenti al prossimo e all’ambiente, ma perché se non ci sarà un cambio di rotta il pianeta è spacciato e così i suoi abitanti. E non è nemmeno solo un “dovere” sotto il profilo etico (naturalmente è anche questo), ma una necessità. L’Agenda 2030 è una specie di Arca di Noè.

Due brevi osservazioni. Per andare nella direzione annunciata da agende e piani non basta fissare obiettivi, va creata una nuova cultura (innanzitutto una cultura politica lungimirante) che metta al bando gli individualismi, altrimenti ogni anche piccolo cambiamento incontrerà resistenze insuperabili. Per raggiungere gli obiettivi non basta metterli nero su bianco: servono gli strumenti per raggiungerli. Cultura e concretezza. Bene comune. Non solo parole.

Dalle sponde del Nilo fino a Merano

Quella della cosiddetta “Mummia di Merano” o meglio di Bast-en-Ankh, è una storia ancora incompleta ma comunque piena di fascino. Nel 1915 Fritz Krafft giunse a Merano per un soggiorno di cura portando con sé la preziosa mummia con sarcofago acquistata durante un viaggio in Egitto.

Risiedeva a Castel Verruca dove la mummia era esposta per i suoi ospiti. Rientrato improvvisamente in Germania lasciò la mummia nel deposito di uno spedizioniere e solo nel 1959 i suoi eredi decisero di donarla al Museo Civico.
Qui trascorse altri cinquant’anni nei depositi e, finalmente nel 2016, con l’apertura del nuovo Museo di Palais Mamming, essa ha trovato la sua giusta collocazione nella bacheca al secondo piano.
Nel 2013 il gruppo di esperti del Mummy Project, guidato dalla dottoressa Sabina Malgora, ha condotto una approfondita indagine sul reperto e sul suo sarcofago facendo luce almeno in parte sulla storia e sulla provenienza della “Mummia di Merano”.
Si tratta di una donna che godeva di una posizione sociale elevata poiché probabilmente era la figlia di un sacerdote. Forse Irethorrou, sacerdote del tempio dedicato al dio della fertilità Min, nella città di Ipou, oggi Akhmin, nell’Alto Egitto. Si chiamava Bast-en-Ankh che significa “La dea Bastet è vivente”. Dalla posizione del corpo, con le mani incrociate sul petto e con il braccio destro sopra al sinistro, tipica delle mummie reali, gli esperti datano il periodo in cui visse fra il 261 a.C e il 387 a.C. ossia a cavallo tra la fine della XXIX Dinastia e l’inizio del periodo Tolemaico. Doveva essere deceduta intorno ai sessant’anni ed era stata deposta nella necropoli nota come “Tombe dei Nobili” nei pressi di Assuan. Sulle bende i sacerdoti avevano posizionato le tradizionali placche in “cartonnage” (carta pesta).
Secondo gli scienziati che le hanno esaminate, esse risalgono al Primo Periodo Tolemaico e cioè al III secolo a.C. mentre lo stile della decorazione è proprio quella tipica del territorio dal quale proviene la mummia. Generalmente le placche erano 4 e venivano a coprire la zona del busto, degli arti inferiori e dei piedi.
Qui però un frammento della placca che di solito sta sui piedi, si trovava sul petto; la placca che di solito copre le gambe era invece posizionata sul ventre. Manca anche la maschera che però doveva avere di sicuro come testimonia il diverso colore delle bende. Anche il tipico sudario rosso che tradizionalmente avvolgeva la salma per intero è sparito.
Ma piccoli frammenti di tessuto rosso sono stati trovati sotto il cartonnage durante le fasi del restauro compiuto nel 2000. Anche il sarcofago proviene dal territorio di Akhmim, ha forma antropoide, ossia che presenta un volto umano ma non è il suo. E’ troppo grande ed è datato all’VIII o VII secolo a.C. al III Periodo Intermedio.
La maschera rappresenta un bel volto dai grandi occhi truccati di nero e dalle labbra sono rosee, incorniciato da una tipica parrucca che ricade sul petto e prosegue sulla schiena. Il petto mostra una tipica ampia collana conosciuta come collana “usekh”. Una collana cioè fatta di tantissime piccole perline disposte in numerosi fili.

Rosanna Pruccoli

Verso una Laives senza plastica

Non c’è voluto neanche troppo tempo: un colloquio, una richiesta formale, e poi la sigla sul protocollo d’intesa. È stato firmato nei giorni scorsi l’accordo di collaborazione fra il Comune di Laives e Plastic Free, che promuove iniziative di sensibilizzazione, di raccolta della plastica e dei rifiuti non pericolosi. “Era quasi un atto dovuto, visto che Laives sta divendando sempre più sensibile al tema dell’ecologia”, spiega Ornella Libardoni, referente di Plastic Free per Laives, Bronzolo e Vadena.

// Di Luca Masiello

La firma al protocollo d’intesa fra l’amministrazione comunale laivesotta e l’associazione Plastic free è stata apposta qualche giorno fa dal sindaco Christian Bianchi e dalla referente Ornella Libardoni.
All’atto erano presenti anche l’assessore Bruno Borin, la consulente ambientale Claudia Cornaviera e l’architetta Alessandra Montel.
Si è trattato di un momento importante per l’associazione ambientalista e per tutta la comunità locale.
Ornella Libardoni, come siete arrivati a questo accordo?
è successo tutto in maniera quasi del tutto spontanea, come naturale doveva essere la sottoscrizione di questo protocollo. Negli ultimi anni Laives infatti si è dimostrato a più riprese un Comune davvero virtuoso, attento alle problematiche ci stanno tanto a cuore. Hanno eliminato la plastica dagli uffici e dalle mense scolastiche: quesot vuol dire niente bottigliette, niente piatti o stoviglie monouso, e se si calcola che solo alla mensa si servono oltre 1400 coperti al giorno, non è un’azione da poco. Eppure c’è ancora tanta maleducazione da parte dei cittadini. Così ho pensato di parlare con l’assessore Bruno Borin proponendogli si stipulare questo accordo e lui ha organizzato un incontro con sindaco e il protocollo è stato finalmente firmato.
Che cosa prevede questo protocollo d’intesa?
L’amministrazione comunale si impegna a sostenere le attività promosse dalla nostra organizzazione di volontariato offrendo il suo patrocinio gratuito e garantendo l’intervento della Seab per il ritiro dei sacchi contenenti i rifiuti di plastica raccolti durante le nostre iniziative, i cosiddetti “clean – up”. Inoltre il Comune ci assicura priorità di intervento alle segnalazioni di abbandono di rifiuti effettuate da noi volontari ma anche dei semplici cittadini.
In che modo?
Noi di Plastic Free sorvegliamo le strade ed i paesi con un occhio clinico, ma chiunque può segnalare l’abbandono illegale dei rifiuti. Basta chiamare lo Sportello Rifiuti al numero verde 800 046119: nel giro di pochissimo interviene una squadra per ripulire la zona.

È davvero così grave la situazione in Bassa Atesina?
Purtoppo devo rispondere in maniera affermativa. Qualche settimana fa abbiamo organizzato un clean – up dedicato esclusivamente ai mozziconi di sigarette. Eravamo in otto, sette volontari più l’assessore Borin, ed abbiamo battuto via Kennedy su ambo i lati dall’altezza della Despar fino alla fermata del bus di fronte alla pizzeria “Crosara”. Risultato: tre chili di mozziconi raccolti: non ci potevamo credere. Nei pressi dei bar, alle fermate degli autobus, intorno ai tombini e persino accanto ai cestini muniti di posacenere ci sono cicche buttate a terra. È indispensabile trovare un modo per sensibilizzare la popolazione, far capire loro che un filtro ci mette fino a quindici anni per degradarsi, e rilascia nell’ambiente una quantità incredibile di veleni. I fumatori sembra che non ci pensino, forse credono che non sono infestanti, o forse quel gesto di spegnere la sigaretta ovunque è ormai un meccanismo automatizzato. Noi ci stiamo provando, ci stiamo mettendo tutto il nostro impegno; assieme alla collega Martina Puentes abbiamo coinvolto un bel numero di volontari mettendo manifesti, andando nei negozi e impegnandoci sui social.

Quali sono i prossimi passi, avete delle azioni in programma?
Adesso stiamo lavorando per siglare un protocollo simile anche con il Comune di Vadena, ma dal punto di vista delle azioni di pulizia non abbiamo ancora niente in programma: fa troppo caldo. Verso la metà di settembre però ci recheremo per tre giorni al Lido di Tarquinia, dove ci sarà un raduno dei referenti di tutta Italia: sarà un’ottima occasione per conoscere altri volontari, confrontarsi con altre realtà e dunque far tesoro di nuove nozioni da importare nei nostri paesi della Bassa Atesina.