La cappella russo-ortodossa


Il canone architettonico bizantino e russo-ortodosso avrebbe voluto la croce latina per la pianta della piccola chiesa russo-ortodossa, ma si utilizzò la soluzione ad aula caratterizzata però dalla tradizionale iconostasi lignea ricca di icone.

Lo spazio per i fedeli incominciava nel nartece, l’originario recinto per i catecumeni, ancora contrassegnato dal dipinto di forma triangolare raffigurante l’Ultima cena, proseguiva nel “naos” (l’aula vera e propria) dove giochi di luce e ombra sono resi possibili dalle grandi vetrate ad arco poste sul lato nord e sud a scandire lo spazio architettonico come in un sacro cerimoniale. L’aula si conclude ai piedi dell’iconostasi al limitare della cosiddetta “soleja”, la zona rialzata dove sorge appunto la tipica struttura lignea, imponente nelle sue tonalità scura del rovere e rilucente delle dorature, riccamente intagliata e modanata, impreziosita poi da immagini ieratiche di santi a figura intera e sovrastata da medaglioni, tutte opere di un artista rimasto anonimo, visto che per tradizione le icone non si firmavano. Oltre l’iconostasi si apre il presbiterio, dove trovavano posto l’altare e il trono, riservato solo al sacerdote e all’inserviente. 

L’Ambone e il “kliros”, ossia la zona riservata ai canti e alle letture dei testi sacri, tripartiscono la “soleja”: sull’ambone, posto davanti alla porta regale, si tenevano le letture tratte dal Vangelo, mentre sul “kliros” laterale trovavano posto lettori e cantori. 

Una croce russa dal tipico suppedaneo inclinato svetta ancora sulla lanterna a bulbo che rende ben individuabile il luogo sacro nelle linee architettoniche dell’edificio. 

Furono i fratelli Michael e Faina von Messing, i fondatori della Casa russa, che in prima persona seguirono sia le lungaggini burocratiche che i lavori e, con molta probabilità, avanzarono proposte per le soluzioni decorative e per gli arredi. Derivò da una loro iniziativa l’inserimento inconsueto di santa Giulia martire fra le figure dell’iconostasi, voluta probabilmente a ricordo della propria madre. Nella chiesa di un pensionato per malati di tubercolosi non poteva mancare un santo “guaritore” come san Panteleimon ossia Pantaleone di Nicomedia Medico   raffigurato nel gesto di estrarre da una scatola dei rimedi medicamentosi. 

Il 15 settembre 1897, sotto la guida di Faina von Messing, e con la direzione medica del dottor Michael von Messing, la Casa russa, anzi “Villa Borodine” risuonò del vociare entusiasta dei suoi primi ospiti. Alla Villa potevano accedere solo russi in grado di esibire certificati di appartenenza alla religione ortodossa, erano banditi i cittadini russi ebrei e gli ortodossi polacchi. 

La disponibilità era di 19 stanze e circa 30 letti, mentre tutto era regolamentato da un severo statuto che prevedeva ad esempio il divieto di possedere animali e suonare strumenti musicali, ma nella sala da pranzo vi era un pianoforte e non mancavano i piccoli concerti. Vietate erano anche le discussioni politiche o religiose ma per lo svago alla villa era allestita una ricca biblioteca e una sala di lettura dove si potevano trovare numerose riviste, e non mancavano ovviamente gli scacchi. 

La chiesa, invece, fu consacrata tre mesi dopo, il 3 dicembre 1897 alla presenza di tutta la Comunità dei fedeli, provenienti anche da altre località di cura del Tirolo meridionale, delle autorità cittadine, e del clero evangelico ed anglicano. Solo il clero cattolico si rifiutò di partecipare alla cerimonia. 

A partire da questa data le funzioni si svolsero ogni domenica e nei giorni festivi per sei mesi l’anno; in questo lasso di tempo alla villa era presente un sacerdote che, trascorso il periodo, rientrava nel luogo di provenienza. Il rito che seguiva rigidamente il cerimoniale russo terminava con l’inno nazionale.

La cappella russo-ortodossa di Merano si trova in Via Schaffer 21. Orario d’apertura: 1° e 3° sabato del mese dalle ore ore 9 alle 13 e su appuntamento (chiusura durante il periodo natalizio e pasquale).

Autrice: Rosanna Pruccoli

La signora della villa


Qui Intervista all’architetta Herta Waldner che fu espressamente scelta dall’ultima erede e rappresentante della famiglia Navarini Ugarte affinché accettasse di ereditare Villa Freischütz col il preciso compito di farne un museo capace di narrare la storia delle famiglia, della casa e di ogni singolo oggetto prezioso in essa contenuto. Herta Waldner accettò la sfida, lavorando in maniera indefessa per anni fino a creare quella che oggi è la splendida casa museo di Villa Freischütz.

La cosa che mi piace di me.

I miei capelli rossi da bambina.

Il mio principale difetto.

Credere nella bontà delle persone.
Il mio momento più felice.
Quando sono nati I miei figli.
La persona che ammiro.
Ariane Karbe, la nostra curatrice.
Un libro sull’isola deserta.
Qualsiasi libro di storia dell’arte.
La mia occupazione preferita.
Vagabondare per negozi di arredamento.
Il paese dove vorrei vivere.
Merano.
Il mio piatto preferito.
Qualunque piatto di pasta.
Non sopporto…
La burocrazia sempre in aumento con la scusa che ci vogliono semplificare la vita.
Per un giorno vorrei essere…
Isabel Ugarte a Parigi nel 1900.
La mia paura maggiore.
Perdere i miei cari.
Nel mio frigo non manca…
Il Parmigiano Reggiano stagionato.
Se fossi un animale sarei…
Un pappagallo.
Mi sono sentita orgogliosa quando…
Quando siamo riuscite ad inaugurare la casa-museo Villa Freischütz.
Il mio motto.
Dare a tutti una seconda chance.
Il giocattolo che ho amato di più.
Il Lego.
I miei poeti preferiti.
Joachim Ringelnatz e H.C. Artmann.

I miei pittori preferiti.

Ellen Tornquist e Gustav Klimt, Tamara de Lempicka.
Il dono di natura che vorrei avere.
Poter volare.
Non sopporto…
Le persone poco generose e avare.
Dico bugie solo…
Mai.
Il colore che preferisco
Un viola intenso.
L’ultima volta che ho perso la calma.
La perdo quando vedo che in tanti sponsorizzano solo lo sport e mai la cultura.
Da bambina sognavo…
Di creare una cupola di protezione su Merano.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Giocando con la palla ovale, tra rispetto e lealtà


Quindici giocatori, un campo da cento per settanta metri, una palla ovale e tanta grinta; questo è il mondo del rugby e i ragazzi del Bolzano ne sanno qualcosa. La loro società nasce a cavallo degli anni ‘70 con le prime partite giocate allo stadio Druso contro le compagini venete. Nella sua storia, la squadra ha cambiato diverse volte nome. Sin dal primo momento di crescita più significativo, dal 2004 in poi, la società era conosciuta come Sudtirolo Rugby.  Recentemente, ha deciso di riprendere il suo nome originario: Bolzano Rugby.

Dopo i primi anni duemila la società ha cominciato a costruire e lavorare su un vero e proprio vivaio giovanile che le ha consentito di arrivare, ad oggi, a circa duecentocinquanta tesserati in tutte le categorie dalla under sei alla categoria old, sia maschili che femminili. Riprendendo il nome storico degli anni ‘70, il Bolzano Rugby, è oggi pronto per cominciare una nuova sfida e continuare il suo percorso di crescita, con la nuova prima squadra iscritta nel campionato di serie C della Federazione Italiana Rugby e con tutte le categorie giovanili impegnate nei campionati interregionali del Triveneto. 

Dopo vent’anni di storia, fango e sudore, la società ha deciso di cambiare denominazione sia per la presenza di altre realtà rugbystiche in provincia sia per identificarsi maggiormente con la nostra città, rendendo omaggio al capoluogo e alla comunità che ha sempre fatto sentire il suo calore e il suo supporto. Se a prima vista il rugby può sembrare uno sport molto aggressivo, la realtà è ben diversa. Si tratta di uno sport di contatto è vero, ma il rispetto, ne è alla base. Lo conferma il presidente dell’ex Sudtirolo Rugby, Massimo Fontana “E poi c’è il terzo tempo…” – racconta Massimo – “Quel momento che questo sport non salta mai. Dopo una partita, magari molto combattuta e dura, chi ti ospita offre da mangiare e da bere e ci si ritrova tutti assieme a condividere il momento forse più bello di questo sport. Si fanno e si ricevono complimenti per il bel placcaggio, per la bella azione o per il bel passaggio fatto o subito. Strano, vero? Ma è proprio così: le regole sul campo trovano proprio nel terzo tempo la massima espressione come il rispetto, la correttezza e la lealtà che sono alla base del gioco e direi anche oltre.”

Il Bolzano Rugby si allena da ormai cinque anni allo stadio “Europa” in via Resia, l’unica struttura cittadina a poter ospitare partite di rugby federali ma che ad oggi risulta un po’ antiquata. Lo stadio abbisogna di importanti interventi di rifacimento del manto sintetico, ormai giunto a fine vita tecnica, per garantire la miglior qualità possibile delle partite in casa del Bolzano. È una grande preoccupazione da parte di tutte le società che si allenano allo stadio Europa, visto soprattutto l’avvicinarsi della stagione competitiva.

La società è sempre pronta ad accogliere nuovi giocatori da inserire nelle sue squadre. “Il nostro è uno sport proprio per tutti, in mischia serve il più robusto, nei trequarti il più agile e scattante, in mediana (diciamo la regia per intendersi) chi è anche capace a calciare. Sin da piccoli i nostri giovani atleti prendono coscienza che alla squadra servono gli uni e gli altri”, continua Massimo.

Per chiunque voglia conoscere e avvicinarsi a questo sport di valori veri, si possono trovare tutte le informazioni sul sito www.bolzanorugby.it o scrivendo a info@bolzanorugby.it o chiamando il numero 351 8355285.

Autore: Niccolò Dametto

Una vita da filologo romanzo


Il professor Mattia Cavagna, bolzanino, ma anche parigino e bruxellois, racconta come ha scoperto la filologia romanza, di come ne abbia fatto la sua professione e di come la sua vita si evolva all’insegna della ricerca e della scoperta. Di luoghi, di persone e di nuovi punti di vista.

Da dove nasce la tua passione per la filologia romanza?

Quando mi sono iscritto a lettere non avevo mai sentito il termine “filologia”, poi ho incontrato un professore con un approccio interessante: riusciva ad attualizzare delle problematiche di questa disciplina. Per me la storia di ognuno di noi è una storia d’incontri e con questo professore c’è stato un colpo di fulmine. La filologia è affascinante perché ti permette di analizzare manoscritti mai letti e di scoprire nuove cose; ti insegna inoltre ad attualizzare i problemi, ad esempio, riconoscere le fake news è filologia: è la distinzione tra la copia d’autore e quella del copista, cambia la terminologia, ma le problematiche restano le stesse.

Hai sempre avuto l’obiettivo di insegnare all’università?

Questa volontà è maturata molto presto, quando ho capito che la filologia romanza è una materia grezza in cui c’è moltissimo da scoprire ho compreso che era davvero quello che volevo fare. È stato interessante: mi sono appassionato all’antico francese — la tappa intermedia tra latino e francese moderno, tappa che manca all’italiano e spagnolo — e ho imparato prima quello del francese moderno.

Quanto è stato importante l’Erasmus nella tua carriera?

Importantissimo. L’Erasmus non è un viaggio, è un’esperienza in un’altra realtà che ti forma da moltissimi punti di vista. Lo dico sempre ai miei studenti: l’Erasmus è incontournable (non ci puoi girare attorno). Dopo l’Erasmus sono tornato in Italia a laurearmi, per poi ritornare subito a Parigi dove ho lavorato al Louvre, ho conseguito il Diplôme d’études approfondies, tappa intermedia tra la tesi di laurea e il dottorato che ho vinto a Bologna in cotutela con Parigi. Non sono più tornato in Italia per la differenza dello statuto dei dottorandi, ai miei tempi più considerati in Francia; ora insegno a Bruxelles all’Université catholique de Louvain e lì sono rimasto.

Hai mai pensato di tornare in Italia?

Non mi sono mai sentito esiliato: Bolzano è casa mia come lo sono Parigi e Bruxelles. Sono sempre in Italia. L’Universitas esiste: l’Erasmus c’è anche per gli insegnanti, vengo a insegnare almeno due volte a semestre in Italia, come, spesso, vado anche all’estero; sono stato in Brasile, in Vietnam e prossimamente andrò a Shanghai.

Qual è l’esperienza extraeuropea che ti è dato di più?

Quando esci dall’Europa sei obbligato a varcare i confini della tua ricerca, nel mio caso la filologia romanza stricto sensu, e devi adattarti al pubblico e alle sue istanze: sono nuove esperienze culturali e umane, ma anche scientifiche, ti lanciano nuove sfide con cui anche i tuoi corsi vengono arricchiti. In Brasile ad esempio ho incontrato persone meravigliose che leggono Cicerone attraverso Valla e Bruni e si interrogano sul ruolo dell’umanismo civico nel Rinascimento. Sono rimasto a bocca aperta. Lì ho incontrato persone di una grande umanità ed erudizione, gli studenti capiscono il valore profondo dei libri e dell’approfondire il più possibile.

Autrice: Anna Michelazzi

La curiosa storia della parrocchia di Malles


Se siete degli amanti dello stile liberty e del “curioso” nell’arte è Malles la vostra meta. Nel 1903 i fedeli della parrocchiale di Malles ebbero l’occasione di scoprire la propria chiesa in una nuova “luminosità”:  quella cioè data dalle luce elettrica. Il 17 dicembre infatti i più ansiosi si recarono alla prima funzione, quella delle cinque del mattino, per essere i primi a godere di quella visione. Ma le novità di carattere tecnologico sembravano non finire, nel luglio del 1906, infatti fu inaugurato l’ultimo troncone della tratta ferroviaria Merano – Malles. Ora il paese era raggiungibile con un viaggio comodo e relativamente breve. Forse una parte del turismo che affollava la vicina Merano avrebbe potuto raggiungere anche l’alta Val Venosta e arricchire la parrocchiale di nuovi e raffinati affreschi non poteva essere che ben fatto. 

Così nel 1914 il decano Dietl chiamò a Malles il pittore Emanuel Raffainer di Schwaz e insieme pianificarono l’intera dipintura dell’abside e della navata. L’artista, allora trentatreenne, eseguì il progetto pittorico e uno schizzo e, ottenuta l’approvazione del decano, iniziò a dipingere. Poco tempo prima dello scoppio del primo conflitto mondiale il pittore, che aveva iniziato i lavori partendo dalla zona absidale, si trovava a dipingere l’Incoronazione di Maria. Gli echi, edulcorati dalla propaganda, dei vari successi al fronte, i fatti riportati nei bollettini di guerra e gli avvenimenti nella zona serba, rimbalzavano anche fra le viuzze del piccolo agglomerato venostano e ispirarono l’artista al punto che volle fissarne alcuni frammenti sulla parete di quel luogo sacro, anzi proprio nella rappresentazione stessa dell’Incoronazione. 

Sulla volta l’artista ha organizzato lo spazio pittorico in modo da riuscire a far convivere soggetti diversi. Un nuvolone suddivide il mondo terreno da quello ultraterreno ed in entrambe gli spazi, gremiti di personaggi, si articolano i diversi racconti. Solo a noi è dato di partecipare con lo sguardo agli accadimenti di entrambe le realtà, mentre i diretti interessati sembrano ignari gli uni degli altri. La Santissima Trinità sta per porre sul capo di Maria una corona di gusto bizantineggiante. Assistono Gioacchino e Anna, San Giovanni Battista, Santa Barbara e Santa Caterina, da un lato, Giuseppe e Giovanni Evangelista dall’altro.

Nel mondo terreno, intanto, le scene, apparentemente slegate fra loro, si accalcano una accanto all’altra ma forse si tratta delle diverse sfaccettature di un unico incubo premonitore: la guerra, che semina fame, morte e distruzione, lascia donne e bambini privi di sostegno mentre i padri sono al fronte, mette gli uni contro gli altri. Sullo sfondo, un paese va in fiamme, mentre sul lato destro, in primo piano, un uomo giace sul letto di morte: sono i suoi ultimi istanti di vita, la morte è al suo capezzale e con la clessidra in mano lo attende. Al centro, la figura in piedi sembra creare una tred’union tra quei due mondi, si tratta infatti di Bernardo di Chiaravalle, colui che nel Medioevo determinò la devozione per la Madonna. 

COME ARRIVARCI

Malles si raggiunge percorrendo prima la MeBo in direzione Merano poi imboccando e percorrendo quasi per intero la val Venosta. La parrocchiale di Santa Maria Assunta si trova in paese in via dell’Ospedale 2.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Con il beatbox la musicava a colpi di voce


Il beatbox è una disciplina artistica, nata alla fine degli anni ’70 a New York, che consiste nella capacità di riprodurre musica attraverso l’uso della voce. Si tratta di un fenomeno collegato alla cultura hip hop e che sta appassionando sempre più giovani. Matteo Pace, giovane bolzanino, è uno tra questi, più precisamente il migliore d’Italia nel 2024. Oggi andremo a scoprire assieme questa forma d’arte e a conoscere meglio la storia di Matteo.

Ci dici chi sei? 

Sono Matteo Pace, in arte Dynamatt, ho vent’anni e sono nato a Bisceglie in Puglia. Poco dopo mi sono trasferito a Bolzano e da allora vivo e lavoro qui. Il mio percorso scolastico è stato particolare, ho sempre saputo dentro di me che la mia strada sarebbe stata diversa da “scuola-diploma-lavoro” o “scuola-diploma-università” quindi decisi di abbandonare la scuola in quarta superiore, per concentrarmi sul beatbox. All’inizio accompagnavo la mia grande passione ad un lavoro a tempo pieno. Oggi mi occupo principalmente di spettacoli, lezioni private ed eventi in generale, e solo qualche giorno lavoro come dipendente. 

Come ti sei avvicinato al beatbox?

Mi sono avvicinato grazie ai talent shows in televisione. Solo tre anni fa guardavo con grande ammirazione video di beat boxer famosi come Moses e Amir, oggi posso esprimermi sui grandi palchi come loro.

Hai seguito lezioni?

No, tutto ciò che ho imparato è stato grazie a qualche video online messo assieme a tanta pratica. Mi alleno dalle tre alle sei ore al giorno, per imparare nuovi suoni e migliorare quelli che già conosco.

Il ricordo più bello legato al beatbox?

Il ricordo che ho più impresso è sicuramente la partecipazione al festival studentesco; , mi sono esibito davanti a migliaia e migliaia di persone, è stato davvero emozionante.

Che titoli hai vinto?

Per ora ho il titolo di campione italiano sia in singolo che in coppia (vinto quest’anno ai campionati italiani a Marghera) e il titolo di vicecampione italiano e internazionale nel 2023. Dopo il titolo italiano, sto avendo la possibilità di fare almeno un torneo al mese. 

Qual è il tuo cavallo di battaglia che non può mancare in un torneo?

Mio cavallo di battaglia sono le combo, quindi più suoni insieme, tanti fischi diversi in concomitanza a dei bassi, per creare un miscuglio di frequenze davvero impattante. 

Qual è la reazione delle persone che ti ascoltano per la prima volta?

Rimangono inizialmente stupiti, non credendo a ciò che stanno sentendo, poi iniziano ad apprezzare la musica e a ballare. Tutto ciò mi riempie il cuore di gioia. 

Tutti possono fare beatbox?

Tutti possono imparare a fare beatbox, ma tutti abbiamo allo stesso tempo una struttura vocale diversa. Quindi, certi suoni risulteranno più difficili per qualcuno e più facili per altri.

Il tuo prossimo obiettivo?

Far conoscere la magnifica arte del beatbox a più persone possibili, ispirando ragazzi e ragazze, e facendo sempre più spettacoli davanti a sempre più gente. 

Autore: Niccolò Dametto

Sola Rinfreschi, e i primi librai in città


Per decenni la famiglia Sola Rinfreschi ha gestito in città bancarelle e negozi di libri, riportando in Alto Adige la vocazione del paese d’origine, il luogo dove nacque – tra l’altro – anche il celebre premio letterario Bancarella. Ripercorriamo questa storia insieme a Lorenzo Sola Rinfreschi, bolzanino depositario di questa memoria. 

Com’è nata la presenza libraria della sua famiglia a Bolzano?

Il tutto è nato con una bancarella  e con mio nonno. Era un banco di libri e giornali e si trovava in vicolo Parrocchia. Stiamo parlando di quasi cent’anni fa, il 1926. Mio nonno era scappato da Padova dove era emigrato da Piacenza e prima ancora dal paese d’origine, ovvero Montereggio di Mulazzo, in provincia di Massa Carrara in Lunigiana. Mio nonno ha continuato questa sua attività in un periodo logicamente molto complicato, ovvero quello dell’inizio del governo fascista anche a Bolzano. Lui era un socialista e – cosa ancora più interessante – per un anno o due ha pubblicato a Bolzano una rivista bilingue che poi è stato costretto a chiudere, perché per i fascisti non era ammissibile l’utilizzo della lingua tedesca, e a maggior traduzione le traduzioni. 

Che tipo di rivista era?

Si occupava di attualità e ovviamente anche di cultura. Di questa rivista non ci è rimasta nemmeno una copia. La notizia, anzi, è scaturita da una ricerca sviluppata a Piacenza dall’università sulle famiglie di Montereggio. 

Il banchetto è rimasto tale o c’è stata un’evoluzione in un vero e proprio negozio?

Mio nonno successivamente dopo la guerra ha aperto un chiosco in piazza del Grano, che forse molti ricorderanno perché è rimasto lì fino a quando è stato chiuso da me. In ogni caso ad un certo punto mio nonno ebbe una paresi e quindi aprì un negozio di libri sotto casa, ovvero in Via Alto Adige (ndr lì lo vediamo ritratto nella foto qui sopra), nel palazzo tutt’ora in piedi all’incrocio con Via Garibaldi. Il chiosco comunque rimase aperto e lì ci lavorava mia zia, la sorella di mio padre. Nel 1969 al chiosco è quindi subentrato mio padre che precedentemente aveva lavorato come bidello in una scuola in Via Cadorna e successivamente alla biblioteca civica.  

Insomma: la passione per i libri scorreva nel sangue della vostra famiglia…

Proprio così! Mio padre dal 1960 al 1966 aveva inoltre aperto un altro chiosco a Ponte Talvera, proprio davanti all’ingresso della biblioteca civica all’inizio e successivamente dalla parte di Theiner. E io mi ricordo da piccolissimo che andavo lì e anche al mercato del sabato, dove la famiglia era presente con un banchetto di libri. 

Il negozio di libri di Via Alto Adige nel 1966 si trasferì in Via Museo, vero?

Sì, nella galleria del Moro che ora non c’è più e che si trovava a due passi dall’attuale museo archeologico. Lì c’erano altri negozi particolari: un negozio di musica e un altro di articoli militari. 

Vendevate sia libri nuovi che usati?

Mio nonno vendeva anche libri nuovi, mentre mio padre libri usati. Facevamo compravendita. E avevamo anche libri in lingua tedesca per i quali c’era un certo mercato e avevamo anche qualche libro d’antiquariato. Facevamo molta più fatica con i libri italiani. All’epoca Bolzano non era una città universitaria ed era frequentata poco anche dai turisti, quindi non era facile… C’era chi, anche in famiglia, diceva a mio padre che era stato pazzo a venire via dal Comune. Ma c’era di mezzo una grande passione…

Facciamo un ulteriore passo indietro. I genitori di suo padre non erano sposati e dunque suo nonno aveva un altro cognome, ovvero Rinfreschi. Prima di venire a Bolzano aveva avuto una casa editrice a Piacenza, seguendo le orme di altri compaesani emigrati dal paese d’origine in Lunigiana. Com’è nata la vocazione libraria di Montereggio di Mulazzo?

In origine i paesani avevano due tipi di attività. Erano boscaioli oppure commercianti ambulanti di pietre per affilare le lame. Ad un certo punto nella prima parte dell’800 ci fu una crisi economica e allora questi ambulanti cominciarono a incontrare i carbonari mazziniani e si diedero anche alla vendita, naturalmente clandestina, dei loro opuscoli. Da lì poi queste famiglie si sono stabilite in quasi tutto il nord Italia, fondando librerie, tipografie e qualcuno – appunto come il mio bisnonno Antonio, il padre di Lorenzo – anche case editrici. 

La memoria della vocazione libraria di Montereggio, ad un certo punto è stata riscoperta anche nel paese, vero?

Altroché, tant’è vero che proprio a Mulazzo nel 1953 è stato fondato il premio Bancarella, all’ombra della torre dei Malaspina dove abitò Dante Alighieri, dopo la fuga da Firenze. Mio nonno Lorenzo fu l’ispiratore del premio che poi venne trasferito nella vicina Pontremoli. Negli ultimi decenni anche a Montereggio sono iniziate le iniziative che hanno riportato alla memoria l’origine della vocazione libraria degli abitanti del paese, e molti loro discendenti hanno ripercorso a ritroso quei passi, riconnettendosi tra loro.

La storia delle bancarelle e delle librerie della famiglia Sola Rinfreschi a Bolzano verrà ripercorsa nell’ambito di un incontro pubblico al Teatro Cristallo di Via Dalmazia 30, che si svolgerà venerdì 22 novembre con inizio alle ore 18. La conferenza, ospitata dalla Sala Giuliani, vedrà la partecipazione di Lorenzo Sola Rinfreschi e Giacomo Maucci, curatore del libro ”La storia di Montereggio Paese dei librai”.

Autore: Luca Sticcotti

Lever: una vita per il basket


Il bolzanino Alessandro Lever gioca da qualche anno in A1 e lo scorso 18 febbraio ha vinto la Coppa Italia. Ripercorriamo con lui le origini del suo percorso e la strada che ha seguito per arrivare a diventare un giocatore professionista di pallacanestro.

// Di Till Antonio Mola

In questo numero torniamo a parlare di Alessandro Lever, giocatore di pallacanestro professionista,da poche settimane in forza alla Reyer Venezia.
Nato a Bolzano nel 1998, Alessandro e ha fatto tutta la trafila delle giovanili nella società Basket Piani; nel 2014 approda a Reggio Emilia nella Pallacanestro Reggiana dove, dopo aver disputato qualche campionato nelle giovanili, viene aggregato alla prima squadra, quindi in serie A, nel 2015.
Ma è nel 2017 che Alessandro compie il grande passo che lo porta a studiare negli Stati Uniti, precisamente a Phoenix in Arizona dove gioca per quattro anni nella squadra di basket della Grand Canyon University (GCU), arrivando a partecipare al torneo NCAA che decreta la migliore squadra statunitense di college basketball.
Finita quell’esperienza, il lungo bolzanino (208 cm) è tornato in serie A, dove ha giocato due anni a Trieste e l’ultimo a Napoli, con cui il 18 febbraio scorso ha conquistato la Coppa Italia battendo in finale la Olimpia Milano.

L’INTERVISTA

Alessandro, partiamo dalla conquista della Coppa Italia… 

È stata un’emozione bellissima. Diciamo che neanche noi all’inizio ci credevamo. Siamo entrati nella fase finale delle migliori otto per un pelo. Partivamo da una posizione svantaggiosa, perché vi siamo arrivati reduci da tre sconfitte. In una di queste, in casa, avevamo perso di venti punti giocando malissimo, quindi siamo andati alle finali per giocarcela contro tutti. Poi, dopo la prima partita, abbiamo preso il via e non ci siamo più fermati fino alla vittoria della Coppa Italia.

Sicuramente una grandissima soddisfazione. Anche in serie A vi siete salvati con largo anticipo… 

Ci siamo salvati giocando una seconda parte di stagione sicuramente non al nostro livello. Ma con la conquista della Coppa Italia è salita anche l’ambizione e ci sarebbe piaciuto arrivare ai playoff per giocarcela e per provare a portare a casa qualche vittoria.

Parliamo del tuo successo personale. Sicuramente l’hai raggiunto per gradi. Secondo te quanto è stata importante l’esperienza americana da un punto di vista sportivo?

Sicuramente mi ha permesso di fare un salto di qualità, perché mi ha catapultato nel mondo dei semi professionisti, provenendo comunque da una società di altissimo livello con le giovanili come la Pallacanestro Reggiana. Quindi quei quattro anni mi hanno aiutato a crescere e a prendere più fiducia nei miei mezzi e confidenza col gioco.

Oltretutto sei stato uno dei migliori realizzatori nella storia di GCU…

Sì, sono stato il terzo miglior realizzatore della storia. Diciamo che l’inizio è stato un po’ difficile perché giocavo poco e non bene. Quando l’allenatore mi ha messo in quintetto un paio di partite, è poi scattato qualcosa e sono riuscito a ripagare la fiducia giocando delle buone annate.

A inizio estate di quest’anno hai rescisso il contratto con Napoli e dopo qualche settimana c’è stato l’annuncio del tuo approdo alla Reyer Venezia. Cosa significa per te questa nuova sfida?

Sicuramente la Reyer Venezia punta ad essere tra le prime tre – quattro squadre del campionato. È un club di altissimo livello che partecipa ad una competizione importante come l’Euro Cup, la seconda competizione continentale dopo l’Eurolega. Vogliono far bene, vogliono vincere e sarà una sfida importante che mi permetterà di capire a che punto sono della mia crescita e di competere e giocare contro giocatori di altissimo livello.
Il mio obiettivo è di cercare di aiutare la squadra a vincere le partite, lottando su tutti i palloni.


Alessandro Lever proviene da una famiglia sportiva: la mamma, Annalisa Piccoli, ha giocato in Serie A2 nel Basket Club Bolzano, proveniente dal Montecchio Maggiore e dal vivaio della Primigi Vicenza, squadra campione d’Italia e d’Europa per molti anni. Il papà Franco ha attraversato tutte le categorie del Basket Piani, dove ha anche allenato a lungo. Suo padre, Donato, scomparso nel 2007, è stato uno dei fondatori e dirigenti della società. Anche la sorella di Alessandro, Anna, ha giocato a basket prima di passare alla pallavolo, arrivando a giocare in Serie B con il Neruda, fino a un infortunio che ha concluso la sua carriera sportiva.

Franco Lever, come sono stati gli esordi di Alessandro?

Alessandro ha iniziato a giocare a basket a sei anni. In palestra c’erano Paola Mazzali, Laura Lazzari e mamma Lisa ad allenare. L’anno dopo sono subentrato io, assistito da Matteo Moretti. Ho allenato la squadra fino al primo anno Under 13, poi sono subentrati prima Thomas Minati e poi Gianluca Russo.

Una figura fondamentale nel percorso di crescita di Alessandro a Bolzano è stato Franco Socin. Di tutti gli allenatori, è colui che continua ad informarsi e colui che nella pausa estiva gli dedica il suo tempo per allenamenti individualizzati. Si tratta sicuramente del più grande esperto di basket a Bolzano.

Il tuo papà, Donato – che purtroppo non è riuscito ad assistere all’esplosione, sportivamente parlando, di Alessandro – affermava che suo nipote, seppur alto, non aveva le qualità per ambire al basket che conta… 

La frase che gli attribuisci in realtà è la riformulazione di un concetto espresso da un fisioterapista che visitò Alessandro da piccolo, il quale affermò “È come se avesse il motore di una 500 e la stazza di un TIR.” Alessandro ha avuto uno sviluppo muscolare rallentato rispetto a quello scheletrico, ma in linea con l’età. Per questo motivo, per emergere ha dovuto lavorare molto sulla tecnica, in quanto la forza non bastava.

Oggi, guardando i risultati ottenuti da Alessandro, possiamo dire che quel “motore” ha dimostrato di avere la grinta e la determinazione per guidarlo fino ai vertici del basket che conta, superando ogni ostacolo con il lavoro e la passione.

Autore: Till Antonio Mola

Banane e… Argentina


E’ nato a Bolzano dove ad un certo punto è tornato, dopo aver trascorso infanzia e adolescenza tra Mestre, Milano, Argentina e Sardegna. Da sempre è attivo nel settore della tutela dell’ambiente e ultimamente si occupa di sostenibilità, cercando di intrecciare spunti da discipline diverse come la sociologia, l’economia, la psicologia, per cercare di capire dove i termini della sostenibilità si siano incagliati. 

Il mio principale difetto.

L’insicurezza.

Il mio momento più felice.

L’attesa del Natale quando ero bambino; è un livello di felicità che poi raramente si tocca nella vita.

Da bambino sognavo di diventare…

Un maestro di scuola elementare..

Il capriccio che non mi sono mai tolto.

Tornare in Argentina dove ho trascorso la mia infanzia.

La mia occupazione preferita.

Leggere libri.

Il mio piatto preferito.

Banana, cruda chiaramente.

Non sopporto…

Non riuscire ad avere ragione.

Per un giorno vorrei essere…

Il mio supereroe di quando ero bambino: Paperinik.

Il mio sogno ricorrente.

Non ne ho ma spesso nei miei sogni mi accompagnano cani.

La cosa che apprezzo di più nel luogo in cui vivo.

La facilità con cui si passa dalla città alla natura, e la cura del territorio.

Amo il mio lavoro perché…

No, il mio lavoro non lo amo, lo apprezzo e mi dà soddisfazione ma l’amore è un sentimento che volgo altrove.

L’errore che non rifarei.

Sugli errori che ho fatto ho imparato che “con gli occhi di ieri oggi farei lo stesso”.

La persona che ammiro di più.

Dino Sommadossi direttore del festival Drodesera, della biblioteca di Dro e mio capo durante il servizio civile a Dro.

L’ultima volta che ho pianto.

Piango spesso, quando mi emoziono, davanti a un film o sentendo una poesia, del resto pianse Serse per la sconfitta della sua armata, e Alessandro pianse sulle spoglie dell’amico ucciso. .

Il mio motto.

Più che un motto è un ammonimento: “facevano tutto per il domani, ma il domani non arrivava mai”.

La mia maggiore paura.

Essere abbandonato da tutti..

Se fossi un animale sarei….

Probabilmente uno dei cani da strada che compaiono nei miei sogni

Il mio primo ricordo.

In braccio a mio papà davanti alla vasca che era (ed è ancora li) all’ingresso dell’Alumetal (oggi NOI Techpark).

Quarti posti e cattiveria

Allo storico motto olimpico, tradotto dall’originale latino “più veloce, più in alto e più forte”, nel 2021 il Comitato Olimpico Internazionale ha aggiunto “communiter” che significa “insieme”. Questo per indicare ufficialmente il valore unificante dello sport e l’importanza della solidarietà. Per il resto i “valori” olimpici sono rispetto, amicizia e lealtà, a cui si aggiunge la famosa “partecipazione”, anche se va precisato che il detto “l’importante è partecipare” in realtà sarebbe mai stato pronunciato da De Coubertin.
Nelle ultime settimane ho seguito con una certa assiduità i giochi olimpici di Parigi. Ma dopo un mese di rassegna in realtà solo due episodi mi sono rimasti più impressi.
Il primo è stato la decisione del Presidente della Repubblica di invitare al Quirinale per un ringraziamento ufficiale, anche gli atleti – tantissimi – che a Parigi hanno conseguito un quarto posto nella loro disciplina. Il Presidente in questo modo ha voluto indicare che l’eccellenza nello sport non è appannaggio solo di chi riesce a conseguire la tanto agognata medaglia. Mi sembra un gesto importante e significativo, molto più maturo di tanti commenti pubblicati sui media da parte di giornalisti poco avveduti oppure da molti altri sui social, come avviene purtroppo sempre più spesso.
Il secondo episodio che mi ha colpito è la risposta che lo schermidore olimpionico Daniele Garozzo ha dato al giornalista Aldo Cazzullo per stigmatizzare il termine “cattiveria” che sempre più spesso viene utilizzato per indicare una qualità essenziale per riuscire a vincere nello sport. Di seguito ecco le parole di Garozzo. “Questa idea è non solo falsa, ma anche diseducativa. Affermare che ‘essere cattivi’ porti alla vittoria sminuisce i successi di tanti atleti che, come me, hanno raggiunto i più alti traguardi grazie a impegno, sacrificio e una sana competitività. La narrativa romantica del guerriero spietato potrebbe essere affascinante nei racconti epici, ma nella realtà dello sport moderno è fuori luogo e anacronistica”. Successivamente il dialogo a distanza tra Cazzullo e Garozzo è proseguito, con il giornalista che ha cercato di spiegare meglio cosa intendeva. Da parte mia non posso fare altro che segnalare il fatto che i Giochi Olimpici sono (ri)nati in epoca moderna per dare ai popoli e agli stati un’occasione di confronto anche aspro, ma totalmente avulso dalla forma tradizionale che tale confronto ha avuto nella storia dell’uomo, ovvero la guerra. D’altronde lo stesso Cazzullo nella sua replica ha spiegato “la cattiveria non è scorrettezza ma determinazione assoluta, senza non si vince”. E allora, insisto, possiamo davvero fare a meno di usare la parola cattiveria, ce n’è già davvero troppa, in giro.

Autore: Luca Sticcotti