“Realtà paesana, problematiche cittadine” 

“Laives? No grazie!”: con questo titolo “rubato” alla campagna contro l’energia atomica, il periodico degli studenti universitari sudtirolesi “Skolast” pubblicò un articolo piuttosto critico sul comune di Laives e le prospettive della sua gioventù.

Correva l’anno 1991. Il ’68 e il ’77 barricadieri erano un lontano ricordo, qualche protagonista di quel periodo storico era rientrato nei ranghi “dell’arco costituzionale”, altri si erano definitivamente persi. La militanza politica giovanile aveva ammainato bandiera e il futuro delle nuove generazioni era tutto da inventare. L’autore del testo, Ugo Pozzi, sintetizzo così la situazione sociale della cittadina: “Realtà paesana, problematiche cittadine”.  Ormai da qualche decennio Laives, che dal 1985 poteva fregiarsi del titolo di città dovuto a una crescita demografica abnorme, si trascinava un problema “esistenziale”  per così dire grosso come una casa. Grazie ad una politica urbanistica a dir poco generosa e alla contestuale “chiusura” della città di Bolzano imposta dall’allora potente assessore Benedikter, il paese continuò a lievitare in modo sciagurato. Gli abitanti crescevano di anno in anno, non c’era campo o vigneto che non cadesse nelle mani degli speculatori edilizi bolzanini e locali – che peraltro non hanno mai smesso di comportarsi da padroni del vapore. Intere vie erano nate o nacquero in quegli anni: via Marconi, via Andreas Hofer e Galizia, via Nazario Sauro, la zona 46 (ex-Fuchser) e così via. Gli abitanti passarono dai 5000 del dopoguerra ai quasi 15000 degli anni ‘90.  Un salto nel buio, uno choc identitario che nessuna realtà sociale può superare indenne.  Scriveva giustamente Pozzi: “Infatti, al di là del volume sociale del comune, che si aggira all’incirca sulle 15-16000 unità, la mentalità è ancora fortemente agricola o più propriamente paesana. Bar alla sera e chiesa alla domenica sono le attività principali della popolazione, attività queste che nascondono problemi da sobborgo metropolitano come la violenza, la delinquenza giovanile e la droga tra tutte”. In effetti, se lo strato più antico della popolazione continuava a vivere come sempre, seguendo i riti e i ritmi della vita contadina, i nuovi arrivati, “spaesati” nel verso senso della parola, stentavano ad integrarsi. Del resto, non bisogna dimenticare che questa non era la prima violenza demografica che questo luogo subiva: basti ricordare che nel 1823 contava 736 abitanti e 95 case, viveva di agricoltura e di quel che offriva l’economia legata alla navigazione sull’Adige. Nel 1900 gli abitanti erano già 2513, l’immigrazione dal Welschtirol e da alcune zone lombardo-venete avevano stravolto le fondamenta sociali del paese. Il fascismo diede il colpo di grazia alla vecchia Laives, che in breve tempo raddoppiò gli abitanti. Furono soprattutto operai della zona industriale di Bolzano a insediarsi in paese. Ma il vero botto alle strutture sociali avvenne dagli anni ‘70 in poi: pur conservando il nucleo contadino di epoca asburgica, Laives divenne la classica località di periferia – con tutte le conseguenze. Scrisse ancora Pozzi: “Non a caso Laives è uno dei principali mercati per il traffico di stupefacenti altoatesino. Sembra addirittura che la droga vada da Laives a Bolzano e non viceversa! Coinvolti in questa spirale senza fine sono chiaramente i giovani che mal si adattano alle paesane abitudini e cercano in tutti i modi l’evasione”.  Tra le mancate “possibilità di evasione” Pozzi cita: “Niente cinema, niente locali adatti dove poter suonare o ritrovarsi al di là del circolo “FENALC” inadatto a soddisfare le sempre maggiori richieste e in procinto di abbattimento”.

E allora? Laives si trasforma in dormitorio, le grida dei giovani, “che reclamano sempre più un luogo proprio ove poter finalmente vivere la propria vita con modalità meno conformistiche e alienanti” incontrano un comune “sordo che mena il can per l’aia citando a intervalli regolari il progetto Laives 2000 comprendente una stupenda casa della cultura”. 

“Sarà utile che il comune di Laives pensi a tutto ciò e tenga conto che in futuro ci potrà essere qualcuno che dirà basta …” conclude l’articolo Pozzi. Forse non sapeva che prima o poi anche il disagio si trasforma in normalità.

Autore: Reinhard Christanell

Infinite forme bellissime

Nei giorni scorsi mi è capitato di assistere dal vivo ad una delle tappe di Futuradio, la Festa di Radio 3 Rai, per il secondo anno ospitata dal teatro Comunale di Bolzano. Nel bellissimo teatro studio per un paio d’ore il pubblico presente ha potuto assistere ad un incontro intitolato “Infinite forme bellissime”, una conversazione a più voci per raccontare come la scienza abbia cambiato in profondità la nostra percezione del mondo e di noi stessi nell’ultimo secolo, e quanto sia importante farne un patrimonio culturale sempre più condiviso per guardare al futuro.
Nel corso del dialogo trasmesso in diretta radiofonica nazionale, si è passati dall’infinitamente grande con l’astrofisica e scrittrice Licia Troisi, all’infinitamente piccolo con il fisico del CERN Guido Tonelli, mentre con Telmo Pievani, filosofo della biologia, i fortunati presenti e gli ascoltatori hanno potuto scoprire come, nel bel mezzo di questi due estremi, si siano evolute le “infinite forme bellissime” della vita celebrate da Charles Darwin. In particolare la conversazione con Telmo Pievani è partita dal suo ultimo libro intitolato “Tutti i mondi possibili”, dedicato alla storia vera di una giovane studentessa di ingegneria meccanica che nel 1976 lesse un libro dello scrittore e poeta Jorge Luis Borges e da questa esperienza ne scaturì l’ispirazione che le fece vincere il Nobel per la chimica nel 2018. Dunque l’immaginazione che diventa stimolo per la scienza. Ma sappiamo anche quanto la scienza sia ormai da secoli un veicolo straordinario per la creatività e l’invenzione artistica e letteraria. Un insegnamento, questo, davvero importante per tutti coloro che tendono a mettere in contrapposizione questi due mondi invece intrinsecamente legati.
A fare da collante all’incontro radiofonico, condotto in maniera magnifica dai giornalisti del programma Radio 3 Scienza, naturalmente è stata scelta la musica, e nello specifico quella basata su uno strumento immaginifico come il theremin, affidato a due ottimi interpreti come Vincenzo Vasi e Valeria Sturba.
Personalmente sabato scorso al teatro studio mi sono sentito davvero a casa, essendo io tecnico di formazione superiore divenuto poi giornalista e musicista. Ma sono sicuro che anche molti voi lettori avreste apprezzato, per cui vi segnalo che il podcast del programma si trova su Rai Play Sound, a disposizione di tutti gli interessati, quale ottimo esempio di come possa essere utile e stimolante il servizio pubblico radiotelevisivo.

Autore: Luca Sticcotti

Sradicare ogni forma di povertà. Obiettivo lontano


Il primo degli obiettivi per uno sviluppo sostenibile della cosiddetta Agenda 2030 (lanciata nel 2015) consiste nello “sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo”. Siamo a fine 2024 e la povertà è ben lontana dall’essere sradicata. Anche nel ricco Alto Adige “la povertà è un grave problema sociale”.

In Alto Adige nel luglio 2021 La Giunta ha approvato ufficialmente la Strategia di sostenibilità “Everyday for Future”. “La povertà e l’emarginazione sociale”, dice il documento, “esistono anche in regioni ricche come l’Alto Adige. La lotta a questa povertà e una cultura economica e del consumo che non favorisca, bensì riduca la povertà in altri paesi, sono parte integrante di un comportamento sostenibile”.

Domenica 17 novembre sarà la “Giornata mondiale dei poveri”. Esattamente un mese prima si è celebrata la “Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà”. Per l’occasione era stato redatto e sottoscritto un “manifesto interistituzionale” con cui “le associazioni altoatesine dei settori del lavoro, dell’istruzione, della cultura, dell’economia, del sociale e dell’ambiente si assumono la responsabilità comune di sconfiggere la povertà”.

Anche in provincia di Bolzano, si scrive, “la povertà è un grave problema sociale”, perché “mette a rischio il futuro delle persone colpite e la coesione so­ciale. Prevenire e combattere le povertà è un compito trasversale perché le povertà hanno molte cause ed effetti”.

Il Manifesto si articola in cinque punti: porre fine alla povertà ovunque e in tutte le sue forme; consolidare i valori nella società, come la libertà e la dignità delle persone; rafforzare le relazioni interpersonali; garantire pari opportunità per tutti, indipendentemente dall’origine, dall’età, dalla religione, dalla visione del mondo, dalle condizioni men­tali o fisiche; soddisfare i bisogni primari tra i quali la sicurezza, il cibo, l’abbigliamento, le relazioni sociali, la salute, la formazione e un ambiente integro.

Tutte le organizzazioni firmatarie del Manifesto sono d’accordo di partire dando vita a una rete di contrasto permanente alla povertà.

Autore: Paolo Bill Valente

Lukas Insam Trio: metti una sera a Egna

Ci sono dei gruppi musicali la cui forza e il cui groove si scatenano particolarmente durante i concerti, e ci sono certe serate in cui i concerti sembrano destinati a segnalarsi particolarmente per una serie di magiche circostanze che possono dipendere dal mood, dall’atmosfera del locale, dall’attitudine dei musicisti a far crescere e sviluppare un brano nel bel mezzo dell’esecuzione. È quello che è accaduto non molto tempo fa al Lukas Insam Trio, una formazione che riduttivamente potremmo definire rock blues, facendo però un torto ai suoi musicisti la cui matrice, pur partendo da un certo modo di suonare rock blues, va sviluppandosi in altre direzioni imprevedibili.

Si tratta nella fattispecie di un concerto tenutosi al Music Club di Egna, una piccola realtà locale di culto, dove si suona per il piacere di fare musica.

“Suoniamo insieme dal 2010 – ci spiega Lukas Insam, titolare della formazione – anche se a volte c’è qualche cambio nella line up, e in questo live, oltre a me, ci sono comunque gli altri due componenti originali, Davide Ropele alla batteria e Nico Aldegani alle tastiere. Quando il Music Club ci ha invitati, proponendoci di registrare la serata, abbiamo accettato volentieri anche perché l’idea di avere una registrazione da poter usare come demo non ci dispiaceva affatto. Già mentre suonavamo ci siamo resi conto che non stava venendone fuori una serata qualunque, ma quando Fabrizio, il fonico del Music Club mi ha passato la registrazione sono rimasto sbalordito. Da lì a decidere di pubblicare il concerto, affidandoci all’etichetta che si era occupata dell’uscita su Spotify del nostro disco di studio, il passo è stato breve”.

Insam ha provveduto all’editing e al mix del concerto, facendo poi fare il master a Londra, così ora, col titolo di The Live Session, il concerto è disponibile online, con tutto il feeling che si libera dall’incontro tra i tre musicisti. Il repertorio gira attorno a brani più o meno noti di matrice, rock, blues e pop, il tutto condito da una capacità di improvvisare del trio che rimanda piacevolmente allo stile di gruppi come l’Allman Brothers Band, pur con una strumentazione ridotta in cui il basso è suonato da Aldegani usando l’organo Hammond, permettendo così di avere nel contempo un importante tappeto sonoro e la base ritmica su cui Insam può spaziare con la sua chitarra.

“Stilisticamente – prosegue il chitarrista (e cantante) – penso di avere la presunzione di essere in controtendenza rispetto alle altre band. Un po’ perché ci piace dilatare i brani e farli crescere, lievitare nel corso dell’esecuzione, mentre il trend attuale è basato su brani che devono durare poco perché i fruitori non sono portati a dedicare troppo tempo all’ascolto di una canzone. E poi, in particolare mi sento lontano dalla moda delle tribute band, che fanno un repertorio basato su un solo artista o gruppo. Il tutto magari con gran dispiego di scenografie e mezzi. A me interessa un approccio più diretto, più essenziale. Sono fatto così, suono quello che mi piace e non sono mai sceso a compromessi. È il mio modo di essere, può funzionare può non funzionare, ma sono così”.

A giudicare dal numero di concerti che il gruppo effettua, e non entro gli angusti confini di un Alto Adige assai limitante per chi vuol fare musica e non solo per diletto, i fatti sembrano dar ragione a Insam e al trio che continuano ad andare avanti per la loro strada, suonando nelle occasioni più disparate. E non è tutto, c’è anche in cantiere un progetto con musica originale inedita, progetto slittato per poter sfruttare il fresco live di Egna.

“Sarà un EP con canzoni scritte da me – conclude Insam – e sarà sempre in versione online, perché purtroppo i CD non li compra più nessuno. Ma non escludo che magari possa fare la pazzia di pubblicarlo in vinile, cosa che mi sarebbe piaciuto fare già per questo live. Magari anche solo un 45 giri con un paio di brani. Chissà. La copertina c’è già, ed è opera, come quella del disco dal vivo, di Matteo Groppo, un fotografo di cui apprezzo molto il lavoro”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

La strada dedicata a Ressel, l’inventore


Via Joseph Ressel: via minore della zona industriale, collega via Innsbruck a via Werner von Siemens. Joseph Ludwig Franz Ressel era nato il 29 giugno 1793 a Chrudim (Boemia); dopo un corso (1809-1811) di artiglieria di terra, dal 1812 al 1814, oltre al corso di medicina all’Università di Vienna, si appassionò alla matematica, coltivando nel contempo fisica, chimica, botanica e tecnologia. Risale al 1812 il disegno autografo di elica per nave. Nel 1814 entrò nella Scuola forestale a Mariabrunn presso Vienna. Nominato nel 1816 Agente forestale nella Carniola inferiore, nel 1817 prestò servizio come guardia forestale distrettuale a Pletriach. Ebbe incarichi in varie località, tra esse Venezia, e Trieste, dove nel 1821 fu trasferito in qualità di imperial regio conservatore forestale. Dal 1838 fu al servizio dell’imperial regia Marina da guerra come intendente forestale. Tra le invenzioni su cui Ressel lavorò nel corso degli anni, la più importante fu l’elica, l’applicazione della vite di Archimede alla navigazione a vapore; grande esperimento di messa alla prova fu quello nell’ottobre 1829 sul piroscafo “Civetta” nel porto di Trieste. L’uso dell’elica per la propulsione delle navi si diffuse intorno al 1840, man mano sostituendo il propulsore a ruote. Ressel si applicò su altre invenzioni: una nuova specie di cuscinetti economici applicabili agli assi delle macchine; una nuova bussola; una vettura a vapore per trasporto di persone e merci; un molino a vapore cilindro per la macinazione del grano; un nuovo aratro; un torchio a vite senza madre per spremere le olive e altre sostanze; un nuovo metodo per la produzione di saponi; un combustibile chimico per macchine a vapore. Con le sue invenzioni Ressel era per lo più in anticipo sui tempi; alcune, come il cuscinetto, trovarono applicazione soltanto dopo la sua morte. Ammalatosi di febbre tifoidea, Joseph Ressel morì la notte del 9 ottobre 1857 a Laibach (Lubiana).

Autore: Leone Sticcotti

La chiesa di San Nicolò a Cleran, sopra Bressanone


Alta sulla conca brissinese e ricca di splendidi affreschi, la chiesetta di Cleran sorge fra le poche case del piccolo agglomerato. Arrivando da Millan in macchina o a piedi è proprio il piccolo campanile barocco, affiancato al corpo di fabbrica gotico, ad accoglierci.

Varcato il portale ad arco acuto è il mondo dell’antico testamento contrapposto alle storie cristologiche a schiudersi davanti ai nostri occhi e a catapultarci in un universo di colori e di forme tra il fantasioso e l’ingenuo, se pur di raffinata fattura. Sono i riquadri della parete nord che catturano il nostro interesse. Essi sono un’importante testimonianza di come per i fedeli analfabeti fosse possibile seguire tanto la lettura del vangelo quanto quella di alcuni episodi biblici. La decorazione si dispiega su due strisce sovrapposte e suddivise in riquadri di diversa dimensione: più ampio lo spazio dedicato alle scene cristologiche, notevolmente più limitato quello previsto per i paragoni biblici. Ognuno dei tre arconi di cui è composta la navata contiene così quattro riquadri. La lettura di ogni episodio però segue un ordine specifico che si struttura attraverso la sequenza orizzontale, secondo uno schema salvifico che veniva utilizzato spesso dalla bottega brissinese di Mastro Leonardo da Bressanone, cui le dipinture sono attribuite e datate intorno al 1470. È molto interessante notare come nelle scene cristologiche l’abbigliamento dei personaggi sia in massima parte costituito di tuniche anticheggianti, mentre nelle scene veterotestamentarie i protagonisti siano abbigliati come in uso nella seconda metà del Quattrocento. 

Nel primo riquadro in alto, il tavolo è imbandito per la solenne cena pasquale, Gesù è attorniato dagli Apostoli. Giuda, che nasconde il pesce dietro la schiena, parla ispirato però dal diavoletto che, lungi dall’essere spaventoso, è posto fra il bicchiere e le sue labbra. 

Nel riquadro accanto, la scena biblica e tratta dall’Esodo e parla della pioggia della manna che Dio inviò al popolo di Israele quando, partiti da Elim giunsero nel deserto del Sin, affamati e stremati pronti ad inveire contro Mosè ed Aron che ve li avevano condotti. Mosè è raffigurato, secondo l’iconografia cristiana, con le tradizionali corna e con abiti da dignitario. La manna reca erroneamente la croce tipica dell’ostia, mentre la figura inginocchiata reca sulle spalle una gerla tirolese. 

Nell’arcone successivo nel primo riquadro (sempre in senso orizzontale), in un tutt’uno armonico sono rappresentati, in un’unica scena, tre momenti cruciali delle ultime ore di Gesù. Si tratta della Preghiera nell’Orto degli Ulivi, del Tradimento di Giuda, e di Gesù riattacca l’orecchio al servo, e l’Arresto di Gesù. Particolarmente interessante e la resa prospettica dell’incalzare degli eventi. Belle e al tempo stesso capaci di trasmettere un brivido di paura sono le armature dei soldati che sono sopraggiunti guidati da Giuda per arrestare il Nazareno e condurlo via. Nel quadro successivo, siamo ormai giunti al terzo arcone, troviamo Cristo davanti a Pilato.

Come arrivarci

Una volta arrivati a Bressanone bisogna dirigersi verso l’altipiano della Plose. Dopo aver superato il paese di Millan, duecento metri dopo il terzo tornante, si devono quindi seguire le indicazioni a destra per arrivare a Cleran.

Per visitare


La chiesa abitualmente è aperta da primavera sino in autunno, soprattutto nei giorni festivi. Per la chiave rivolgersi alla famiglia Fischer, civico 191 (a sinistra della chiesa, casa con grande veranda in legno). Per info: Associazione turistica di Sant’Andrea, tel. 0472 850008.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Werner Gasser

Werner Gasser, classe 69, allievo di Michelangelo Pistoletto dopo l’Accademia di Vienna ha affinato il proprio bagaglio esperienziale con un soggiorno a New York e uno a Berlino dove alla fine rimase a vivere per ben sedici anni. A tutt’oggi parte dell’anno lo trascorre in quella città dalla creatività contagiosa. 

Grazie alla collaborazione della galleria berlinese artMbassy e il NIU Art Museum, Gasser ha trascorso un periodo anche a Chicago dove ha esposto una sua realizzazione video alla Galleria De Kalb/Chicago. 

Il filo conduttore dei suoi lavori è quello della diversità, sia essa identitaria, culturale o di genere. Grande attenzione è posta alle minoranze e ai gruppi socialmente emarginati. Utilizza la fotografia, il video, le scritte con le luci al neon ma anche la matita su carta. Nel corso degli anni dal 1995 ad oggi ha dato vita ad innumerevoli progetti artistici di grande interesse e capaci di entrare in tutti gli aspetti del vivere anche in quello della malattia e dello spazio adibito alla malattia e alla guarigione. Dotato di grande sensibilità ha anche intrapreso un difficile progetto artistico che lo ha portato per tre anni a seguire da vicino la quotidianità di un attore che, a seguito di un incidente, aveva perso la memoria. Il progetto artistico che ne è scaturito ha cercato di rappresentare con dei disegni a matita i momenti di amnesia che invadevano la memoria dell’amico. Ha così rappresentato un ambiente particolarmente famigliare a sé stesso come la montagna, frantumandolo e spargendo nel bianco “del vuoto” solo pochi lacerti efficacemente esemplificativi della memoria divorata dall’amnesia. 

Di tutt’altro genere è stato il progetto dedicato al lungo lavoro di riordino e catalogazione degli oggetti contenuti a Villa Freischutz. Le sue fotografie poetiche sono la testimonianza indelebile del lungo impegno encomiabile delle donne che vi si cimentarono. Numerosissime anche le mostre cui ha partecipato in Alto Adige, in Italia e all’estero. Attualmente è in mostra alla Kunsthalle di Darmstadt/Studio West con una “mostra-dialogo”, che coinvolge anche l’artista Anuschka Prossliner, dal titolo “Gegenwart ein Durchzugsort” cioè “Il presente un luogo di passaggio”.  Qui Werner Gasser pone l’accento sulle nuove forme di protesta nei regimi totalitari e in forma interattiva chiede al fruitore di prendere un foglio dalle risme di carta da lui esposte e fare l’atto di ribellione alzandolo.

Autrice: Rosanna Pruccoli

I mercanti ebrei – Prima parte

Anche nell’antico Tirolo fra i mercanti ambulanti fin dal Medioevo c’erano gli stracciaioli ebrei. Nel Settecento si affacciarono al mondo tirolese anche importatori ebrei su larga scale di tessili. Nell’Ottocento e nel Novecento, vicino ai negozianti ebrei con sede fissa continuarono a coesistere ambulanti e soprattutto commercianti all’ingrosso di minuteria da confezione. Ma facciamo un passo indietro e torniamo con la mente agli antichi mercanti ebrei del Mediterraneo. I radaniti.

Il commercio nelle sue varie forme, dall’importazione su larga scala alla piccola vendita ambulante e a domicilio, fu uno dei tratti distintivi del popolo ebraico fin dall’antichità e ebbe ampio spazio nel Medioevo e nei secoli successivi. Pensiamo ad esempio ai radaniti, ossia i mercanti ebrei dell’Alto Medioevo che svolsero un importante ruolo ponte negli scambi mercantili di prodotti rari e di lusso tra il mondo cristiano e quello musulmano, all’epoca molto spesso in lotta. Oppure alla Comunità ebraica di Costantinopoli i cui membri commerciavano, importavano e scambiavano seta e altri tessuti preziosi, spezie, incenso e altri oggetti ricercati attraverso ben tre assi principali che li conducevano verso Oriente fino a Damasco, Bagdad e Bassora; verso Nord dove vivevano fra i bulgari, i magiari, i khazari, per giungere al nodo commerciale di Kiev; e infine verso Ovest per raggiungere Venezia, Genova, Pisa e Amalfi. 

Non va però dimenticato che la presenza, la laboriosità, il commercio degli ebrei nell’Europa cristiana fra Medioevo e Emancipazione oscillò tra persecuzioni, pogrom, espulsioni e divieti, oppure -di contro- era resa possibile grazie a privilegi, permessi a tempo chiamati “condotte”, patenti o benefici che ne consentivano la presenza. Queste alterne vicende rendevano il peso economico o la loro concorrenza assai labili. Nelle zone in cui potevano stanziarsi il commercio di ben determinati prodotti era una delle poche possibilità lavorative che la loro condizione di “esclusi” poteva offrire. 

Stando all’iconografia medievale, rinascimentale, seicentesca, settecentesca otto e novecentesca sia di stampo antisemita che ebraica, riusciamo a farci un’idea dello stereotipo della presenza ebraica come ambulanti, ossia come potevano apparire abbigliati e come trasportavano le proprie merci. Nel corso del Medioevo lo stereotipo dell’ebreo era abbigliato secondo le norme sancite da Innocenzo III nel IV Concilio Lateranense del 1215, ossia alla levantina coi lunghi caftani stretti in vita da una cintura, oltre ai simboli dell’esclusione quali il pilleus cornutus giallo e il cerchio giallo cucito sul petto e sulla schiena per poter essere riconosciuti da lontano ed evitati.  Nelle epoche successive copricapi dalle fogge orientaleggianti si sostituirono al cappello a punta. Col fluire dei lustri ai caftani si aggiunsero i pantaloni, la redingotte, i tipici cappelli a bombetta o a tuba e l’ombrello. Nelle numerose cartoline antisemite d’epoca guglielmina, ad esempio, sono visibili gli stereotipi dei venditori ambulanti ebrei orientali con il caftano, le “peot”, ossia i tipici boccoli portati ai lati del volto, cappelli a cilindro ammaccati, e ombrelli malconci. Ed è sempre questa iconografia insieme a qualche statuina di porcellana inglese o di legno scolpito a mostrarci i modi in cui essi stivavano le proprie merci per poterle portare e proporle di casa in casa o ai mercati. Ceste di vimini di varia ampiezza da portare a mano o all’avambraccio, cassette di legno di varia dimensione legate a cinghie che venivano poste attorno al collo o a tracolla, zaini di stoffa robusta, cadreghe di legno soddisfacevano l’esigenza del trasporto e del cammino. 

La cassetta legata al collo è un oggetto che ha unito gli ambulanti al di là delle aree geografiche, al di là della fede religiosa e al di là del fluire del tempo: essa infatti attraversò le epoche, l’Europa, le tipologie merceologiche e le ritroviamo col nome di “schifetto” fra gli “urtisti” romani del passato e di oggi. Sono infatti circa duecento a tutt’oggi le famiglie ebraiche che fanno questo antico mestiere vendendo oggetti devozionali cattolici, rosari, santini e piccoli souvenir. A fine Ottocento l’editto papale consentiva ai “peromanti” del ghetto di Roma di uscirne e percorrere tutte le strade della città per vendere ai pellegrini e ai turisti questi oggetti. La vendita dei rosari ai pellegrini era infatti l’unica attività consentite agli ebrei romani al di fuori dei confini del Ghetto. Ciononostante non era consentito loro l’uso di carretti o banchetti. Da fermi lo schifetto veniva sorretto da un bastone che, tuttavia, doveva sempre poggiare sempre sul piede e mai poteva esser poggiato per terra poiché in tal caso avrebbero potuto incorrere in una multa per occupazione di suolo pubblico. Questa attività veniva tramandata all’interno della famiglia con la trasmissione delle licenze di generazione in generazione.

(continua)

Autrice: Rosanna Pruccoli

I “nuovi” poveri

Nei giorni scorsi ho letto con interesse e con una certa preoccupazione il manifesto “contro le povertà” elaborato e sottoscritto da una serie di realtà del territorio. Wirtschaftsring, Centro di competenza per il lavoro e le politiche sociali di Unibz,  Alleanza della Cultura, Federazione per il Sociale e la Sanità, Istituto per la promozione dei lavoratori, Volontari e Associazione Ambientalisti, hanno proposto la creazione di un “osservatorio” che nel prossimo futuro dovrebbe monitorare e garantire la continuità e il coordinamento delle misure di prevenzione alla povertà.

La mia preoccupazione deriva dai dati che in occasione della presentazione del manifesto sono stati resi noti, dati assolutamente non il linea con l’idea che l’Alto Adige sia un’isola di benessere,  in Italia e in Europa. Eccoli: il 17% delle famiglie (quasi una su cinque!) riesce a fatica ad arrivare a fine mese, mentre il 60% delle stesse non è più nelle condizioni di risparmiare (almeno una su due). Non basta: più di un dipendente su dieci non arriva a 9 euro l’ora come compenso per il lavoro che fa. 

Particolarmente a rischio sono naturalmente i lavoratori a basso reddito, i pensionati, le famiglie monogenitoriali, le perone socialmente svantaggiate come i disabili e le persone soggette a malattie croniche, nonché i gruppi emarginati e le famiglie dei lavoratori immigrati. Per loro la politica – per voce dell’assessora provinciale al sociale Rosmarie Pamer e del presidente della giunta Arno Kompatscher – ha promesso di alzare il suo impegno di spesa. 

Ma va considerato che la delicatezza della situazione per quanto riguarda lo squilibrio tra costo della vita e salari mette da qualche tempo in difficoltà anche la classe media, soprattutto perché esclusa dai sostegni riservati ai più poveri (il dato del 60% che non riesce a risparmiare riguarda anche e soprattutto queste realtà). Per non parlare dei giovani che nella maggior parte dei casi vedono la sostenibilità della futura formazione di una loro famiglia in Alto Adige un vero e proprio miraggio, se non vengono sostenuti economicamente e in maniera significativa dalla famiglia d’origine. Per questi motivi mi auguro che l’osservatorio di cui abbiamo parlato all’inizio si trasformi in un tavolo in grado di proporre soluzioni concrete e a breve termine. E sono sicuro che a questo augurio si unirà una gran parte di voi lettori. 

Autore: Luca Sticcotti

I giorni della speranza. E il traguardo che riguarda tutti

Sono i giorni in cui si ricordano le persone che se ne sono andate. Le giornate si fanno brevi e ci si riscopre tutti “come d’autunno sugli alberi le foglie”. Ma non è ancora giunto l’inverno e la stagione offre, pur nella malinconia, meravigliosi colori e profumi che parlano di speranza. Di vita malgrado la morte.

Fin dai tempi più antichi l’essere umano, di fronte all’esperienza della morte, si è posto la domanda sul senso della vita. Tutte le culture hanno elaborato risposte, accomunate dalla persuasione che ogni vita non svanisce nel nulla quando arriva al capolinea, ma ha un prima e ha un dopo.

I nostri progenitori svilupparono il culto degli antenati, fondato sull’idea che chi ha vissuto pienamente la propria vita, chi ci ha generato fisicamente o spiritualmente, sta continuando il suo percorso altrove e non si è dimenticato di noi. Una pratica ancora oggi presente in diverse religioni tradizionali, ad esempio dell’Africa.

È innata nell’essere umano l’idea della continuità della vita, ovvero la fiducia nel fatto che le cose importanti non smettono di esserci. Così come la convinzione che, in ultima analisi, siamo chiamati solo a essere felici.

Quando, sulla via cristiana, si incontra l’espressione “vita eterna”, è proprio della felicità che si parla.

Nella sua bolla per il Giubileo della speranza, che si aprirà a Natale, papa Francesco se lo chiede: “Cosa sarà dunque di noi dopo la morte?” Se è vero che “al di là di questa soglia c’è la vita eterna”, la pienezza di vita in altro non consiste se non nell’“essere felici”. Perché “la felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti”.

“Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto»”.

Autore: Paolo Bill Valente